Ascoltare un album in uno studio di registrazione è una delle vere gioie di questo lavoro che, per altri versi, è una sorta di calamita per haters e vaffanculo. Da una parte perché in studio di registrazione, non ce n’è, si riesce a ascoltare musica, anche musica registrata in digitale, come fossimo ancora in epoca analogica (lo siamo, nei fatti, ma è faccenda sempre più rara e ricercata), dall’altra perché, in genere, se si ascolta la musica in uno studio di registrazione significa che in quello studio di registrazione si è stati invitati a ascoltare musica dall’artista che l’ha incisa, o da chi l’ha prodotta, ultimamente spesso la medesima persona. Chiaramente, oggi, anno del signore 2020, parlare di studio di registrazione richiede delle postille, delle didascalie, volendo anche delle foto di accompagnamento, perché c’è chi chiama studio di registrazione anche la scrivania Ikea della propria cameretta sulla quale ha appoggiato il device con cui quella musica l’ha prodotta, registrate e incisa. Figuriamoci, sono nato e cresciuto all’insegna del Do It Yourself, del punk, dell’underground, nulla contro l’iniziativa personale, ma in quel caso, immagino, nessuno mi ha mai invitato nella propria cameretta a ascoltare in anteprima una qualche traccia, dubito che un ascolto qualitativamente migliore sarebbe stato ingrediente presente sul piatto. Certo, ci sarebbe stata la faccenda emotiva, lo stare a contatto con chi ha creato, l’essere al momento il solo a stare a contatto con l’artista che ha creato, ma nulla più.
Ultimamente di dischi ne sono usciti pochi, anche se, va detto, tra i pochi usciti ci sono perle come Cinema Bersani di Samuele Bersani, Il dono dell’ubiquità di Carolina Bubbico e Forever di Francesco Bianconi, di entrambi parlerò nei prossimi giorni, ragion per cui anche la frequentazione degli studi di registrazioni è calato, per chi come me vive quel privilegio.
Giorni fa, però, sono tornato in uno studio, uno studio vero, e devo dire che sarà perché erano passati mesi dall’ultima volta, sarà perché ero in presenza di un mio amico, è vero, ma di un mio amico che è diventato tale solo in età adulta e che invece da molto più tempo è uno degli artisti che più stimo in Italia, sarà perché durante il lock down e i mesi successivi ha continuato a essere una delle poche voci dell’ambiente ascoltato con costanza, gli amici servono appunto a questo, sarà quel che sarà, è stato un momento davvero emozionante. Anche perché, e qui entriamo un po’ più nel vivo di questo articolo, sono entrato negli AnyWay studios di Enrico Ruggeri, lui il mio amico, non per ascoltare un suo nuovo album, cosa che per altro mi auguro e vi auguro capiterà a breve, nonostante una sua qualche riottosità a riguardo, quanto per ascoltare il frutto di una sua produzione, quella di Massimo Bigi.
Ora, a questo punto ci sono due aspetti da togliere dal piatto, subito.
Primo, le reticenze di quanti, avendo letto reiteratamente che io e Enrico siamo amici, e avendo anche letto, magari, nel tempo, mie ottime parole nei suoi confronti o nei confronti di lavori che lo hanno visto coinvolto, penso recentemente all’album Silvio Capeccia Plays Decibel, da lui prodotto, ora è lì col ditino alzato pronto a dire che io scrivo bene solo dei miei amici.
Bene.
A parte che ancora non ho scritto bene dell’album di Massimo Bigi, Bestemmio e Prego, ma sì, in fondo lo avete capito, ne scriverò decisamente bene, lo possiamo anche spoilerare, mi tocca tornare a ripetere l’ovvio: io e Enrico ci siamo conosciuti proprio perché lo ammiro molto come artista, il suo talento, sicuramente, ma anche la sua personalità retta, la sua coerenza. Evidentemente anche lui ha trovato qualcosa di interessante in me, per cui ci siamo prima annusati e poi riconosciuti, e di lì è partita un’amicizia. Non abbiamo fatto le elementari assieme, o il militare, non siamo andati in vacanza assieme quando eravamo nel fiore degli anni. Siamo amici per una stima reciproca nata per quel che è il nostro lavoro, il nostro pensiero, normale che io mi ritrovi a scrivere bene di quel che fa, non avendo fin qui tradito mai le mie aspettative. Nel caso dovesse accadere, dubito ma nella vita niente è sicuro, se non la morte, almeno nel vostro caso, sarà mio agio decidere se ignorarlo, magari proprio per una questione di affetto, sono nella posizione di poter decidere di cosa scrivere e di cosa non scrivere, o se stroncarlo, l’ho fatto con altri amici, la faccenda è piuttosto nota tra chi mi segue e più in generale segue il micro mondo della canzone italiana.
Secondo, le reticenze di quanti, di fronte alla recente polemica sorta in rete a partire da un editoriale di Franco Zanetti, direttore editoriale di Rockol, lì a dire che ogni settimana escono troppe canzoni e troppi album perché noi che di musica scriviamo ce ne possiamo occupare con raziocinio e attenzione, avranno da ridire per questo mio scrivere di un esordiente, per di più di un esordiente di sessantadue anni, tanti ne ha appunto Massimo Bigi, fino a pochi anni fa tour manager dello stesso Rouge.
Bene.
A prescindere dal fatto che non sono affatto d’accordo con Zanetti, anzi, penso che mai come oggi, in questa terra desolata e devastata che è il sistema musica, le uscite anche copiose siano una boccata d’ossigeno, anche in assenza di acclarato talento, perché è comunque un modo per provare a dirsi che non è tutto finito, che siamo vivi, che ci speriamo ancora, io di produzioni indipendenti mi sono spesso occupato, trovando in queste, molto spesso, forse per quel loro essere fuori dalle logiche di mercato, e quindi libere di sperimentare, materiale molto più vivo e interessante di quello plastificato che esce dalle major.
È appunto il caso di Bestemmio e Prego di Massimo Bigi, album d’esordio di questo sessantaduenne umbro di stanza a Montepulciano, un uomo che si è occupato di musica tutta la vita, seppur in altro ruolo, e che ora ha deciso, complice un Enrico Ruggeri stanco evidentemente di contemplare la morte nera che ormai è la discografia, in era Covid ma anche in era pre-Covid, di passare dall’altra parte della staccionata, metterci voce e faccia, e tirare fuori le proprie canzoni. Canzoni che hanno trovato il placet di Enrico Ruggeri, chiamato inizialmente a duettare in Come Se Fosse Facile, quello che poi è diventato il singolo di lancio dell’album, e talmente entusiasta della qualità della canzone, e delle altre che Bigi gli ha fatto ascoltare in quell’occasione, da convincersi a produrre tutto l’album, chiamando a raccolta la sua band al gran completo, compresi ospiti in qualche modo legati a lui personalmente e professionalmente, come Andrea Mirò, Davide Brambilla, per tutti Billa, e il già citato Silvio Capeccia.
Proprio per questo, il coinvolgimento di Enrico come co-autore, o magari anche solo di ascoltatore attento e esperto, prima, e della sua band, ha contribuito a creare un lavoro che, lo dico senza paura di essere smentito, suona come qualcosa di molto molto vicino a quell’idea di rock moderno e contemporaneo che proprio durante il lock down ha contribuito a tenermi lucido e in vita, e come me molti altri miei coetanei o semplicemente appassionati di quella ormai rarissima forma di vita chiamata musica suonata.
Qualcosa di antico, da un certo punto di vista, gli strumenti primari del rock lì tutti in bella evidenza, con gli inserimenti necessari e bellissimi di strumenti fuori dai cliché, la tromba e la fisarmonica di Billa, il violino di Andrea Mirò, il sax di Stefano Marlon Marinoni, uno che per intendersi ruotava intorno al Rouge negli anni Ottanta, ma anche di molto attuale, perché mai come in un momento di crisi come questo il suono robusto e fisico di una band che interpreta un rock’n’roll d’autore risulta salvifico, un’ancora nella tempesta, certo, qualcosa su cui ragionare, e anche la perfetta colonna sonora per ipotizzare un’idea di rinascita.
Dentro le canzoni dell’album ci trovi tutti i riferimenti che ci devi trovare, dai Clash, in un passaggio di Un’altra Età c’è un omaggio palese a London Calling (come in passato è toccato agli Stranglers nella ruggeriana Il primo amore non si scorda mai), passando per il David Bowie anni settanta, la sua Heroes è evocata dal giro di basso di Il randagio e l’ubriaco, a Lou Reed, ovviamente, agli U2, anche, Brian Eno ha decisamente influenzato il lavoro splendido messo in piede da Fortu Sacka, titolare con il prezioso aiuto del Rouge recita il booklet, della produzione artistica, mica è un caso che il basso sia così potentemente incaricato di fare la spina dorsale di buona parte dei brani, ma è il mix che queste influenze hanno fatto con la scrittura di Bigi che lascia onestamente meravigliati.
Perché tutto si potrebbe pensare meno che si tratti di un esordiente, e che soprattutto si tratti di esordiente fin qui su altre faccende affaccendato. La scrittura, quindi, essere stato a lungo al fianco di Ruggeri ha sicuramente contribuito a consolidare un talento fino a ora latente, talento che si esprime in una poetica alta, ricercata, con venature sicuramente rock, in alcuni passaggi anche punk.
Ecco, il punk, forse sarà il caso prima o poi di specificare come parlare oggi di punk, anche in presenza di chi il punk lo praticava già nei tempi giusti, la fine dei Settanta, sia una faccenda che necessita di uno sguardo particolarmente lucido, storicamente attento. Perché se il punk, nei Settanta, era una musica di rottura, per certi versi rivoluzionaria come rivoluzionario era stato il rock’n’roll, il prog e certa classicizzazione del rock il nemico da ribaltare e sconfiggere, ben presto è diventata a sua volta parte del panorama ottico, testa di un presidente rappresentata sul Monte Rushmore. Di più, per molti versi, non è il caso di Ruggeri, sia chiaro, il punk è diventato un genere quasi reazionario, estetizzato, situazione, mi sposto assai avanti nel tempo, non troppo diversa da quel che è successo con l’estetica hipster, tutta immagine cristallizzata, spocchia nei confronti del mainstream, il passaggio tra hipster e hype è brevissimo, una figurina dell’albo di fianco a quella del metal, del dark o di quel che è.
Non è un caso, dico un’ovvietà, che i vecchi punk si ritrovino affiancati a rocker che, un tempo, avrebbero schifato senza pietà, nel panorama della storia del rock, parte di uno stesso scenario revivalistico che ha solo in una certa rude elementarità delle composizione e dell’esecuzione la propria cifra. Anche perché pure il pubblico del punk, almeno i sopravvissuti, è nel mentre cresciuto, si è evoluto, è maturato se non addirittura invecchiato.
Certo, in alcuni casi è rimasta l’attitudine, quella volontà antisistema che un tempo di manifestava nello sbattere in faccia al sistema simboli impresentabili, suoni impresentabili, una sorta di calcificazione dell’essere ostili, ma per il resto l’essere punk ha cominciato a coincidere con l’essere semplicemente rock, come se i generi di rottura giovanile che nel tempo hanno incarnato quella voglia di cambiamento e di rivoluzione, il sovvertimento del sistema o più prosaicamente l’assassinio dei padri, si fossero ritrovati a una di quelle cene di classe che si fanno dopo venti anni dalla Maturità, ma essere punk musicalmente oggi non è esattamente essere stati punk alle origini.
Dico questo perché l’attitudine punk è davvero la spina dorsale di questo lavoro. E non sto parlando solo e tanto di musica suonata, quanto di voglia di andare contro un pensiero unico imperante, di ribaltarlo. Oggi gira bene l’indie/itPop o la trap, bene, qui facciamo canzoni canzoni, scritte in maniera complessa e arrangiate come si faceva una volta, pensando a una resa live, certo, ma anche a farle uscire come Dio comanda da uno stereo, o dalle casse di uno studio di registrazione, che è poi dove le sto ascoltando ora.
Perché fare oggi un disco così, sia dal punto di vista dell’artista sia del discografico, è davvero un gesto eversivo, correre nudi nel campo dove si sta svolgendo la finale di Premier Cup, si fottano i bobbies: meglio nudi che in divisa.
Un album e non un singolo, qualcosa di fisico e non di liquido, canzoni che pretendono l’ascolto, non da sottofondo buono anche usando lo smartphone senza cuffiette, una lingua e un vocabolario decisamente poco vicino a quello di quindici parole che la trap ci ha in qualche modo imposto, se non è rivoluzionario tutto questo mi chiedo oggi cosa lo sia, anche in virtù della scelta di investire in una modalità decisamente onerosa, le prove, le sessioni di studio, la cura delle singole canzoni, tutto come si faceva una volta, quando poi i dischi si vendevano davvero.
Le tracce di Bestemmio e Prego giustificano agli occhi di chi ama la musica tutto questo, nonostante, non fatemi essere poi solo esaltante, di una voce che a tratti sembra meno sul pezzo di quanto la scrittura adulta e molto a fuoco delle canzoni richiederebbe. Ascoltate Circo Meraviglia, per citarne una, e ditemi se non sarebbe potuta essere tranquillamente una canzone di punta di uno degli album di Ruggeri, sia per la composizione che per le liriche. O ascoltate la ballad californiana Le Ombre Della Sera, con Mirò a intervenire nel refrain, e ditemi se non è un brano degno di essere passato in radio, al pari del singolo Come Se Non Fosse Facile, all’altro brano che ospita Ruggeri in featuring, Andare Via, o al brano incaricato di dare il titolo al tutto, Bestemmio e Prego. Ma nell’insieme è tutto il lavoro a essere di alta qualità, sia per le canzoni in sé che per il suono che quelle canzoni sono andate a vestire, per il livello alto di produzione, per la cura con cui ogni singolo passaggio è stato affrontato e portato a termine. Qualcosa di altri tempi, viene da pensare, e nel pensarlo vien da rimpiangere quei medesimi tempi, non perché si sia passati dall’essere quelli che urlavano la loro voglia di emancipazione ai più grandi di noi all’essere i vecchi tromboni, ma perché semplicemente viviamo in un’epoca poco propensa a pensare al domani, figuriamoci al dopodomani, rimpiangere un tempo in cui si guardava molto molto lontano, anche con l’arroganza di credersi eterni non è mai operazione futile. Ancora una volta ok boomer un cazzo, quindi, benvenuto a Massimo Bigi, splendido sessantaduenne e alle sue canzoni.