Partiamo da un punto che non richiede interpretazione, e che non è opinabile, in quanto avulso appunto dai personalismi delle opinioni, dalla soggettività, concetto deprecabile quando si parla di arte: Serena Ganci è, al momento, una delle cantautrici più talentuose che vivano e operino nel nostro paese. Su questo immagino siamo tutti d’accordo, e se non lo foste non può essere altro che perché non la conoscete ancora.
Una delle più talentuose artiste che abbiamo in Italia, ripeto.
Lo dico, dico questo, cioè circoscrivo il tutto all’Italia, perché non vorrei partire subito dando adito a dubbi riguardo il mio giocare sugli eccessi, ma se fossimo rilassati una sera al bar vi direi che potremmo serenamente aprire il discorso anche al resto d’Europa.
Dico questo, affermo questo, eliminando dal campo appunto dubbi e ipotesi, perché conosco il lavoro che negli ultimi anni hanno visto Serena impegnata prevalentemente nel campo teatrale e cinematografico, ultima fatica la colonna sonora del film Le sorelle Macaluso della regista Emma Dante, di cui è sodale da tempo, un po’ perché, qui sto per fare quello che Maurizio Milani avrebbe fissato nella battuta “me ne vanto”, ho avuto il piacere, fisico, poi capirete perché, di ascoltare il suo nuovo album, Non ti amerò per sempre. Disco che al momento non è un disco, nel senso novecentesco del termine, non esiste stampato da qualche parte, e addirittura non è in dirittura d’arrivo, per ragioni che mi hanno spinto a dire, negli ultimi anni, che la discografia italiana è animata in buona parte da gente volendo anche simpatica ma che di musica capisce un po’ meno di un cazzo, fatto che al momento, ahinoi, è diventato di pubblico dominio, a prescindere dal disco di Serena Ganci.
Ma son qui a parlare di lei, e a parlare di lei attraverso le canzoni di quello che a breve diventerà il suo prossimo disco. Procedo, quindi.
Avevo conosciuto, artisticamente, Serena Ganci, da ora in poi semplicemente Serena, ho ascoltato le sue canzoni, posso permettermi una certa confidenza, quando era parte del duo Iotatola, insieme alla sua conterranea Simona Norato. In realtà era un nome che avevo sentito anche prima, perché si era già messa in evidenza per il suo talento, ma la prima volta che l’ho sentita cantare è stata in quel contesto.
Le Iotatola. Un duo che si era messo in evidenza per una cifra molto personale, due cantautrici di talento che si mettevano una al servizio dell’altra, Serena più rivolta verso una scrittura incline al jazz, Simona più indie, quando questa parola non sottintendeva quella leggerezza paracula cui ci siamo assuefatti negli ultimi anni.
Le avevo anche contattate per partecipare al mio progetto Anatomia Femminile, all’epoca ancora in fase embrionale, la prima antologia di tre dedicata al corpo delle donne e rivolta alle cantautrici, ma non si era poi riusciti a quagliare, nonostante la cosa sembrava interessare loro tanto quanto aveva interessato me. Il fatto è che avevo intuito, e giuro che in quel caso si trattò più di culo e lungimiranza che di conoscenza, che il corpo fosse fondamentale nella loro arte. Quanto avevo ragione, ora posso dirlo.
Perché le canzoni che ho avuto l’onore di ascoltare, diciamo le cose come stanno, in anteprima, perché quando per primi si assiste a qualcosa di particolarmente bello il piacere tracima in onore, converrete con me, sono qualcosa che col corpo, con la pelle che lo circonda, con il sangue che ci scorre dentro, con il cuore, lo stomaco, le parti intime, che chiamo così non certo per pudore, il pudore è bandito da questa opera, come dal mio scrivere, ma perché al momento non ne ho per la mente una abbastanza capace di racchiudere in sé tutti gli aspetti che le parti intime evocano, dal sesso alle sue funzioni riproduttive, anche se forse la parola figa potrebbe avvicinarcisi, proprio per la sua spudoratezza, insomma, il corpo, canzoni che seppur in epoca di streaming e di digitalizzazione, di musica liquida o evaporata sono quantomai palpabili, o meglio, ti toccano, ti avvolgono, nel senso letterale del termine, ti stringono forte forte.
Capisco che detta così, questa faccenda, suona quasi come quando da ragazzini ci si ritrova a parlare coi nostri amici di sempre di una nostra compagna di classe che di colpo ci sembra essere il mondo intero, le pulsazioni accelerate, la salivazione azzerata, le farfalle dentro lo stomaco, sensazione che vi sarà capitata di incontrare nelle mie pagine quando in passato mi sono trovato a parlare di altri progetti, penso a Patrizia Laquidara, per dire, a Ilaria Porceddu, faccio due nomi, ma la musica è passione, o almeno lo è per me, filtrata attraverso gli occhiali schermati del senso critico, certo, ma interpretati con la libertà dell’essere scrittore, la cifra stilistica, amici miei, la cifra stilistica mi permette questo e altro, per cui ben venga un linguaggio amoroso, parlando di canzoni e di chi le ha scritte e interpretate, conto sulla vostra capacità di discernere, di comprendere, e se ciò non fosse, che dire, cazzi vostri.
Ma siccome a queste canzoni ci tengo particolarmente, passo a fare una cosa cui per natura sono affatto incline, mi forzo, come direbbe un antico Luca Carboni faccio mille chilometri per dire “ciao, come stai”. Vado cioè a indossare il panni del recensore, nello specifico del recensore che recensisce qualcosa che ancora non ha visto la luce, una sorta di ecografista musicale, provando a dire qualche parola di più facile comprensione riguardo alcune delle canzoni, consapevole, però, che scivolerò spesso altrove.
Si parta, quindi, le canzoni e le loro caratteristiche. Provo a fare una recensione con distacco, qualcosa di tecnico, quasi scolastico. Roba comprensibile anche a occhi distratti, quindi, di passaggio.
…
Ma no, dai, chi me lo fa fare? O meglio, chi ce lo fa fare?
La bellezza non può essere raccontata scolasticamente. O magari sì, ma non è questo che intendo fare. Questo è un lavoro suggestivo, anche se la doppia g è un suono che mi piace poco, a differenza di quelli che escono dalla bocca di Serena Ganci nelle sue canzoni. Suggestioni siano, allora.
Il contrasto tra la dolcezza deliziata della canzone dedicata a sua figlia, Nina, “La canzone di Nina”, appunto, lieve, calda, luminosa, e la malinconia straziante del brano nel quale parla con precisione chirurgica del distacco e dell’assenza, morte e amore come stessa faccia della stessa medaglia, lei figlia che ha da poco perso l’amato padre, “Il trionfo dell’Amore”, titolo strepitoso, converrete, due canzoni che costruiscono insieme una sorta di inno purissimo alla vita, un dittico esistenziale più che esistenzialista.
Mettere in piazza senza pudore i sentimenti, anche contrastanti, in questo caso, è un talento nel talento, qualcosa di raro e prezioso, torniamo a quanto scritto nell’incipit, qualcosa che andrebbe preservato dalle usure e dalle intemperie, come si fa non tanto con quanto ci appaia fragile, Serena Ganci non lo è affatto, metaforiche spalle larghe, posso dire certo di conoscerla pur non avendola mai vista di persona, ma piuttosto con qualcosa dal quale sappiamo potrebbe dipendere la nostra vita, nello specifico la nostra felicità. Perché l’arte, quando è arte, è qualcosa che riesce nell’impossibile compito di renderci felici, ci abbraccia quando abbiamo bisogno di abbracci.
Spudoratezza, si diceva, e fisicità, due caratteristiche primarie della cifra di Serena Ganci. L’essere in grado, cioè, di mostrarsi e raccontarsi senza filtri, il pudore, appunto, e al tempo stesso mettendo in ballo il proprio corpo, attraverso la voce, il modo di usarla, ma anche attraverso la scelta degli strumenti giusti per suonare le sue canzoni, tutti strumenti “fisici”, qui, il pianoforte in primo piano, ma anche il contrabbasso, legnoso e profondo, ha un ruolo centrale negli arrangiamenti, come del resto archi e ottoni. Fisicità, la parola chiave, quindi, qualcosa che deriva, dice lei, dalle sue esperienze teatrali, che hanno contribuito a rendere il suo modo di esprimersi in musica corporeo, carnale, sfrontato. Le sue canzoni sono, oltre che bellissime, inquietanti, come del resto l’arte dovrebbe sempre essere, perturbanti, direbbe chi ha studiato. Penso a Le baccanti, con un sax che incalza, flirta con noi, esattamente come flirta con noi lei, ininterrottamente, anche se la parola flirtare, lo so bene, è sbagliatissima, perché troppo leggera e frizzante per indicare chi ha deciso, con le sue canzoni, di amarci anima e corpo per ogni singola parola proferita, nota suonata, parola scritta, ne servirebbe piuttosto una più idonea, magari francese (lingua che decisamente ha influenzato la nostra, seppur non ve ne sia traccia da queste parti, esplicitata).
Ascoltate senza reticenze le piccole perle preziose che compongono questo diadema prezioso, suvvia.
Canzoni come Bianca, Dio che voglia di scoprirsi teletrasportati al suo fianco, mentre la suona e canta, cadersi reciprocamente nelle rughe intorno agli occhi alle imperfezioni della pelle, agli sguardi e ai sorrisi, la voce che si rincorre con un violoncello, i bassi che si increspano aprendoci a una voragine di vita pulsante, La Prima, sinuosa e circolare, avvolgente con quei fiati che ci aprono ferite sulla pelle, come quei tagli impercettibili che ci facciamo con certi fogli di carta, invisibili ma dolorosissimi, giusto il tempo di maledirci che arriva lei a soffiarci sopra la bua, riempiendoci di quel calore di cui a volte neanche sappiamo di avere un bisogno vitale. Calore che si fa etereo abbraccio in Aereo di carta, l’amore che passa dall’essere corporeo all’essere sentimento, finalmente senza quella coltre di melassa cui ci siamo tristemente abituati in questi anni di desessualizzazione della nostra canzone, lo special che torna a essere carne pulsante, ma troppo in alto per essere scalfita dagli sguardi giudicanti di chi non è capace di andare oltre gli stereotipi.
Fortissimo, brano degno del repertorio della migliore Mina, la voce che si apre come se avesse deciso che indicare la luna non è abbastanza, anche per gli stolti concentrati sul dito, tocca proprio salirci su, danzando tra un giro di contrabbasso e un assolo di sax.
L’iniziale “Non Ti Amerò Per Sempre”, canzone incaricata di regalare il titolo all’album, porta di ingresso in un mondo che è davvero un mondo, tutti i colori disposti perfettamente sulla tavolozza, la vertigine che si prova nell’ascoltare quel “non ti amerò per sempre” sul violino che incalza difficile da scollare dalle pieghe del cervello come del cuore.
Non le ho citate tutte, le canzoni, solo perché non voglio svelare tutto ciò che è già svelato, leggete le parole alla lettera, non si trovano lì per caso, di loro. Senza veli, senza pudore, intimi.
Serena Ganci ha una malinconia così potente che viene voglia di iniziare a fumare per lasciare che il fumo di una sigaretta ci faccia da filtro, mentre guadiamo piovere fuori dalla finestra. Ma più che altro una coltre di fumo che ci avvolga, perché la sensazione di essere stati colti nell’intimo, letteralmente, come uno che si scordi di chiudere la porta del bagno proprio quando ha deciso di farsi una doccia e si ritrovi così, nudo, davanti a un ospite inatteso, continua nonostante tutto a farci arrossire.
Ora, fossi io uno che ritiene che lanciare appelli ai discografici, grandi e piccoli che siano, starei qui a fare l’imbonitore. Sbattere padelle e coperchi sul tavolo, ansimare la voce rotta da un uso sbagliato del diaframma. Così non è, quindi mi auguro piuttosto che come il James Brown che interpreta il reverendo in “The Blues Brothers”, le mie parole servano a indicare il rosone centrale della chiesa dal quale arrivi la luce che illumini le menti ottuse di detti discografici, se è qualcosa di incredibilmente bello che state cercando, non indugiate, è “Non Ti Amerò Per Sempre” di Serena Ganci che dovete pubblicare, subito. Quanto a voi, che invece leggete senza avere connessioni col mondo morente della discografia, beati voi, terra di zombie e putrescenza in questo momento, andatela a cercare, sul web o se capita live dalle vostre parti, vi ritroverete a vivere un’esperienza totalizzante, essersi amati senza neanche essersi mai conosciuti, senza corpi, è magnifico, per dirla con parole sue, figuriamoci con. Lei e le sue canzoni sono bellissime, anche su questo credo, anzi son certo, non possiamo che essere tutti d’accordo.