Ci siamo passati tutti. O quantomeno ci siamo passati noi tutti nati al volgere tra gli anni sessanta e settanta, quelli cioè che hanno avuto in sorte di essere giovani negli anni Ottanta. A tutti è capitato di sentirsi dire di che merda fosse quel decennio, nello specifico facendo riferimento alla musica che in quegli anni prosperava, dominando le classifiche, facendo da colonna sonora ideale di quell’edonosimo reaganiano così identificato da un Roberto D’Agostino pre-Dagospia, quando cioè ancora faceva il critico musicale e imperversava nei programmi di Arbore.
Tutti ci siamo trovati a dire qualcosa che suonasse, parola più parola meno, come una difesa d’ufficio di quel decennio così comunemente preso a male parole, dicendo che sì, in effetti gli anni Ottanta erano il decennio della musica di plastica, delle canzoncine di merda di cantanti che spesso neanche erano i titolari delle voci che in quelle canzoni si ascoltavano, gente dai nomi improbabili, spesso angolfoni, che nei fatti si saranno chiamato Maffettoni o Poggielli, le batterie elettroniche e i synth a farla da padroni nelle loro canzoni, come un po’ ovunque, ma in fondo gli anni Ottanta erano stati anche altro, ben altro. Poi, ognuno qui avrà sfoggio della propria cultura musicale, o più semplicemente avrà assecondato i propri gusti musicali, tutti ci siamo trovati a citare quello che, a nostro vedere, era la alternativa nobile delle canzoni di Tracy Spencer o Sandy Marton, che si trattasse della musica dark o della new wave, del post-punk o di certo rock da college, fino a quello che flirtava con le charts alla Dire Straits. Per dire i Queen, The Cure, gli Smiths, i Depeche Mode i R.E.M., gli U2, ma anche i Talking Heads, i Dead Kennedys, gli Hüsker Dü vengono da lì, dagli anni Ottanta. Come dire, non è tutta merda quella che non luccica. Fanculo le batterie elettroniche, le giacche con le spalline, i capelli cotonati, fanculo l’edonismo reaganiano, fanculo tutto.
Poi però capita di sentire il nuovo singolo di Tommaso Paradiso, uno che almeno ci aveva graziato durante l’estate, la prima dopo anni che ci ha assillato con le sue canzoncine vuote e ma molto amate dai direttori artistici delle radio, e di colpo anche solo tentare una difesa di ufficio di quel periodo diventa impossibile. È come se di colpo venissimo proiettati nei nostri incubi peggiori, quelli che ci vedono ancora oggi con i brufoli sulla faccia, un paio di scarpe del cavolo che nostra madre ci ha comprato senza consultarci, la voce che alterna bassi alla Scott Walker e falsetti alla Jimmy Sommerville, per non dire di una autostima pari solo a quella di chi sa, perché lo sa, che se mai provasse a proporsi alla tipa seduta al primo banco ricevere un due di picche talmente clamoroso e esplicito da costringerlo a diventare una sorta di poltergeist e uccidere lei e tutti gli altri come nella scena finale di Carry di Stephen King. Perché Tommaso Paradiso ha deciso che gli anni Ottanta erano solo la musica di merda che per anni abbiamo provato a far dimenticare, ha preso quei suoni orribili lì, finti, piatti, di plastica, quelle batterie elettroniche, quelle pianole, smettiamole una volta per tute di chiamarle synth, ci ha costruito su una melodia che, nella strofa, calca rovinandola, e non era facile, Semplice di Gianni Togni, e nel ritornello mashuppa Occhi di gatto di Cristina D’Avena e Mamma Maria dei Ricchi e Poveri, cantandola con la stessa verve di Pupo e mettendoci su un testo che, in fondo, neanche il neoottantenne Pippo Franco all’epoca avrebbe tirato fuori, lui che ha dato il meglio di sé con brani come Che fico e Mi scappa la pipì papà.
Una roba che, esistesse la possibilità di ridisegnare il concetto di brutto, verrebbe eletta a modello imperante, come le abat-jour di Castiglioni hanno fatto per le opere dei designer di interni a lui contemporanee. Talmente brutta da far sospettare che tanta bruttezza sia voluta, che quella sciatteria, quei suonini così approssimativi, mal suonati, mal registrati (non dico mixati, perché ormai i missaggi non li fa più nessuno, diciamolo apertamente) siano parte di una strategia, se non addirittura di una estetica. Non dico che Paradiso ci stia trollando, l’ho già detto anni fa, ma che quantomeno stia portando avanti un suo discorso ancora incomprensibile ai più.
Ecco, nell’estate delle cover orrende, da Caruso di Jovanotti a Centro di gravità permanente di Biagio, passando per La donna cannone della Nannini fino alla recente Bella d’estete di Mika e Michele Bravi, col terrore di quel che Tiziano Ferro ci proporrà con il suo album tutto dedicato a ricantare belle canzoni del nostro passato, Paradiso decide di fare una cover di Mamma Maria dei Ricchi e Poveri, solo che la fa molto più brutta dell’originale, e ce ne voleva parecchia di fantasia per riuscirci.
Al punto che, e so che sto per dire una cosa della quale non solo mi pentirò, ma che qualcuno prima o poi userà come arma contundente per tramortirmi e ferirmi a morte, vien quasi da rimpiangere i TheGiornalisti, e è un po’ come dire che uno preferisce vivere una sorta di prigionia tormentata alla Prometeo, incatenato a un sasso con un rapace che gli divora le interiora ogni giorno, interiora che poi ricrescono pronte a essere nuovamente divorate, piuttosto che morire con un colpo secco alla nuca, pum pum, stiamo parlando di sfumature. Ma davvero, sentiti i singoli che Paradiso ha sfornato da che ha sfanculato i suoi soci, ricordiamolo che lo ha fatto subito dopo il concerto al Circo Massimo, concerto chiamato ironicamente Love al Massimo, per altro dedicando il primo post della mattina seguente il concerto proprio a me, che avevo indicato come fare quel concerto lì, l’ultimo di un tour per altro fortunato, in un luogo che aveva visto folle sterminate mi appariva come voler fare il passo più lungo della gamba, tanto più che, avevo osato sottolineare nel mio pezzo, uscito per quel giornale un tempo glorioso che era Linkiesta, oggi paragonabile alla carta (virtuale) con la quale si incartano i pesci al mercato, viene da lasciarsi andare a rimpianti degni di finire nel testo di una bossanova, roba che fa rima con saudade e tristesa.
Fossi uno che ha a cuore il futuro di Paradiso, e onestamente del suo futuro poco mi interessa, pur augurandogli ogni bene, gli suggerirei di ascoltare il lavoro che sempre sul medesimo periodo sta facendo The Weeknd, magari andando a riascoltare i suoi riferimenti musicali, potrebbe scoprire che in effetti a quei tempi girava musica buona davvero, e che avere come riferimento il sax di Venditti nei dischi più brutti o le tastiere di Baltimora in Tarzan Boy, e gioco al rialzo, non è una idea genialissima.
Chiudo dicendo che io, in fede, non vorrei dover scrivere di Tommaso Paradiso. Nel mio mondo immaginario Tommaso Paradiso non esiste, o se esiste non sta a tirar fuori queste canzoni orribili, a tormentare onesti lavoratori come me. È un po’ come nel caso della Pausini, faccio di tutto per non doverla stroncare, ma poi lei ogni tot tira fuori una canzone e come certi serial killer io non riesco a uccido, e nessun poliziotto particolarmente sagace riesce a dar seguito alle scritte col sangue che faccio sulle pareti della scena del crimine: fermatemi, vi prego. O almeno fermatevi voi.