White Lines 2 non ci sarà, almeno per il momento. La serie non ha ottenuto il rinnovo da parte di Netflix nonostante i suoi produttori – Álex Pina e VancouverMedia, creatori de La Casa di Carta – l’avessero concepita come un trittico. E sotto molti punti di vista, è meglio così.
A confermare il destino della serie è l’attore Daniel Mays, che ha interpretato il personaggio di Marcus, dj e trafficante di droga amico del defunto Axel intorno alla cui morte misteriosa ruota la trama della prima stagione.
A fronte delle tante richieste di notizie su White Lines 2, ha annunciato sui social “con il cuore infranto” che “la nave della stagione 2 di White Lines è davvero salpata definitivamente“, per poi ringraziare il pubblico per il supporto ricevuto.
Parlando con NME, ha poi ipotizzato i motivi del mancato rinnovo di White Lines 2. Sicuramente una produzione internazionale ambientata tra Manchester e Ibiza non sarebbe stata semplice da realizzare vista la condizione di emergenza sanitaria dettata dal Coronavirus. E poi il finale della prima stagione si presta ad una conclusione definitiva: “Abbiamo scoperto chi ha ucciso Axel, quindi funziona bene come miniserie, anche se penso che ci fossero delle possibilità per proseguire oltre” ha dichiarato Mays, sostenendo che “tutti gli attori credevano in un rinnovo perché è stata la serie numero uno su Netflix per settimane ed è stata vista in tutta Europa e nel mondo“. Incomprensibilmente, per l’attore, White Lines “è stato un successo, ma per qualche ragione non la rinnovano“.
La ragione starà probabilmente negli alti costi di produzione rispetto ai pur buoni risultati ottenuti in termini di visualizzazioni in streaming – senza dimenticare che lo showrunner Alex Pina è già impegnato nella produzione de La Casa di Carta 5 e della debuttante Sky Rojo, sempre per Netflix – ma c’è da dire che di White Lines 2 non si sentirà la mancanza. Questa serie che si proponeva di risolvere un giallo ambientato negli anni della “movida” – termine ultimamente abusato e certamente antiquato – della selvaggia Ibiza degli anni Novanta è stato un esperimento rimasto al palo delle buone intenzioni.
La storia di una donna che ha perso il fratello e ne ritrova il cadavere vent’anni dopo, decidendo di scoprire da sola la verità sull’omicidio, diventa un’improbabile avventura tra personaggi dalla personalità multipla, relazioni melodrammatiche ed esaltazione della club culture degli anni Novanta, di cui sono parte integrante fiumi di cocaina e pasticche, riti orgiastici e narcotrafficanti tanto imbranati da risultare ridicoli.
La rincorsa all’iperbole a tutti i costi – nelle emozioni, nell’azione, nei legami, nella malattia, nella ricerca dell’identità – ha finito per rendere la trama un’esasperazione continua. E di conseguenza per esasperare anche lo spettatore: chi ha terminato questa serie – e parlo per esperienza – lo ha fatto quasi certamente per capire dove si potesse arrivare, quale livello di esagerazione fosse possibile raggiungere a partire dalle condizioni di partenza già piuttosto surreali. Un meccanismo che applicato a più stagioni di una stessa serie rischierebbe di provocare un rifiuto netto ed irreversibile da parte di chi guarda. Quello che poteva essere un punto di forza della serie, l’idiosincrasia tra la razionalità anglosassone e il fermento latino, è andato perso nelle drammatizzazioni eccessive ed ingombranti che hanno reso la trama un racconto di deviazioni e perversioni che niente hanno di affascinante: il divertimento che diventa violenza gratuita, il glamour che diventa gusto per lo splatter, le relazioni familiari disfunzionali che rasentano la pedofilia, la patologia mentale trattata con superficialità.

Ci si aggiunga un dettaglio non da poco, cioè che tutti i personaggi, a partire dalla protagonista, hanno in comune la stessa caratteristica, la totale incapacità di suscitare empatia (ad eccezione dell’adorabile Boxer, interpretato da Nuno Lopes che è stato anche fotografo ufficiale del backstage della serie realizzando scatti meravigliosi), e il mix finale non può che risultare indigesto.
Un tale cocktail di eccessi mal mescolati può funzionare una tantum – e nemmeno – ma replicarlo in White Lines 2 e magari anche 3 sarebbe stato davvero un esercizio retorico inutile. Meglio lasciare questa serie lì dov’è, come un esperimento un po’ kitsch che poteva andar bene come tentativo di evasione dalla quarantena grazie ai panorami selvaggi di Ibiza (quelli sì, davvero meritevoli), ma che non vale la pena ripetere oltre.
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