In questo 19 agosto che segna, auguriamocelo, l’autentica ripartenza della stagione cinematografica in sala (tra oggi e domani escono l’Onward disneyano, Siberia di Abel Ferrara, Una Sirena A Parigi, Il Grande Passo), trova spazio il recupero di Little Joe, distribuito da Movies Inspired, passato nel 2019 in concorso al festival di Cannes, dove la protagonista Emily Beecham vinse il premio come migliore attrice. Lo firma Jessica Hausner, nome tra i più in vista di quel nuovo cinema austriaco i cui confini estetici e tematici sono scanditi dal magistero dello sguardo freddo e crudele di Michael Haneke, reinterpretato a un estremo in chiave entomologica, persino cinica, dall’inflessibile e mortifero Ulrich Seidl, e riletto invece proprio dalla Hausner con una cifra meno unilaterale, più aperta all’ambiguità del reale (come nel notevole Lourdes).
Per Little Joe, sua prima produzione in lingua inglese, la Hausner immagina una botanica, Alice (Beecham, il nome alla Lewis Carroll non è casuale), che lavora in un laboratorio specializzato nella creazione di nuove specie vegetali a scopi commerciali. Insieme al collega segretamente innamorato di lei Chris (Ben Whishaw), ha creato una nuova specie, un fiore rosso che rilascia pollini dalle qualità terapeutiche, che se inalati regalano una sensazione di benessere. Disattendendo le rigide procedure che prevedono una lunga fase di test prima della messa in vendita per scongiurare qualunque “difetto di fabbricazione”, Alice porta a casa un esemplare della piantina, cui dà il nome di Little Joe in omaggio al figlio preadolescente Joe (Kit Connor), che lei cresce senza il padre da cui è separata.
Il ragazzo prende a curare amorevolmente il fiore rosso. Intanto Alice nota cambiamenti allarmanti. Il cane affettuoso di una collega sembra non riconoscere più la padrona. Poi Joe diventa scontroso con la madre e dichiara di voler andare a vivere col padre. Lei sospetta che i pollini della pianta modifichino il carattere delle persone, rendendoli non più cattivi, bensì più sereni, ma di una tranquillità distaccata, quasi meccanica.
L’assunto di Little Joe è quello della fantascienza cinematografica degli anni Cinquanta-Sessanta con ossessioni tecnologico-botaniche, come nel capolavoro L’Invasione Degli Ultracorpi (1956), in cui dei baccelli alieni s’installano nella provincia americana e parassitano le persone sostituendole con dei doppi privi di emozioni; o Il Giorno Dei Trifidi (1962), piante che le radiazioni trasformano in giganteschi mostri vampireschi. Little Joe al contrario pare innocua, col suo bel color cremisi e la corolla che s’apre dolcemente spandendo il balsamo miracoloso. La sensazione di angoscia vuole però essere la stessa di quei vecchi film, anche se la paura invece di manifestarsi apertamente è raggelata in uno stile matematico, preciso e asettico come i laboratori del centro botanico, nel quale, tra distese di piantine disposte simmetricamente, tutto è sempre ossessivamente pulito, in ambienti mantenuti a una temperatura costante.
Le inquadrature della Hausner sono oggettive, piani fissi, metodiche carrellate, lenti zoom che tendono senza motivo apparente verso il centro dell’immagine lasciando ai margini i personaggi intenti a discutere. È come se la macchina da presa indagasse gli spazi alla ricerca del dettaglio fuori posto, che certifichi la trasformazione agghiacciante che sta corrompendo cose e uomini. Ma quel dettaglio la camera non lo trova mai: le persone sembrano quelle di sempre, solo più concilianti, amorfe, abuliche. Come dice il marito d’una coppia che s’è sottoposta al test del fiore rosso, riferendosi alla moglie: “Prima mi criticava continuamente, ma sapevo che mi amava. Ora non potrebbe essere più dolce, ma non è mia moglie”.
Forse è tutto nella mente di Alice. Come sostiene la sua terapeuta, può accadere che “la paura alteri la nostra percezione della realtà fino al punto da farcela vedere come la realizzazione dei nostri timori o di quello che segretamente desideriamo”. In effetti Alice potrebbe volere il distacco dal figlio per assaporare la sua libertà. In questo senso la pianta, più che alterare il comportamento, potrebbe portarne alla luce il rimosso, aiutandoci a manifestare ciò che proviamo davvero. E se anche il polline condizionasse il nostro umore verso una maggiore serenità che rende le relazioni più lineari, magari un po’ meno coinvolte, siamo certi che ciò costituirebbe un danno?
“Little Joe è una parabola su quel che c’è di strano in noi”, dice Jessica Hausner. Che non prende apertamente parte, non emette sentenze inappellabili, ma preferisce mostrare i termini della questione. Ciò che manca però in questo cinema saggistico che espone i temi come predisponendoli per il successivo dibattito filosofico, è proprio un’urgenza narrativa.
Il protagonista de L’Invasione Degli Ultracorpi è agghiacciato dai manichini privi di emozioni che vede intorno a sé, e cerca disperatamente di lanciare l’allarme per evitare che il morbo disumanizzante si diffonda in tutto il mondo. La paranoia di Alice invece non supera mai il livello di guardia e in fondo quella impercettibile mutazione nel comportamento non sembra nemmeno costituire una vera minaccia. Forse quel che vuole dirci la Hausner è che siamo cambiati già da un pezzo. E non solo non ci siamo preoccupati: non ce ne siamo neanche accorti. Perché, tra il prima e il dopo, non pare esserci una grande differenza.