Sesso e musica: un binomio ormai superato

Si può ancora cantare di sesso ed essere credibili, se la musica torna ad avere quella leggerezza punk che porta la firma di Wendy O. Williams


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Ho letto “Tieni Presente Che”, una specie di manuale di scrittura creativa scritto da Chuck Palahniuk, l’autore americano famoso per aver scritto, tra gli altri, “Fight Club”. Un manuale molto creativo, per altro, perché assai poco fedele a questo genere, quanto piuttosto libero nell’interpretare questo tipo di libri. Ho letto “Tieni Presente Che” perché sono affezionato a Chuck Palahniuk, sin da quando ventuno anni fa, ho tradotto il suo primo romanzo pubblicato da Mondadori, Survivor.

Ho letto “Tieni Presente Che” e mi ha fatto moderatamente cagare, perché, temo, Palahniuk da anni non ha più molto da dire, succede anche agli autori più geniali, specie a quelli che hanno fatto di una certa rabbia anarcoide covata in corpo, rabbia anarcoide che mal si abbina al successo milionario di uno i cui libri sono tradotti in tutto il mondo e finiscono anche a Hollywood. Il motivo per cui mi ha fatto cagare è molteplice, quindi dovrei dire i motivi, e vanno dalla quasi totale inconsistenza dei consigli dati, dal reiterare la formula “se fossi un mio studente”, e soprattutto dal fatto che gli aneddoti che fungono da contrappunto ai consigli, quasi sempre assai più interessanti dei consigli stessi, sono messi giù con una logica che si fatica a seguire, troppo spesso legati a episodi che avrebbero necessitato didascalie, come didascalie avrebbero necessitato tutte quelle citazioni di opere americane, non necessariamente conosciute a menadito dai suoi lettori. Infine, ma non è esattamente un dettaglio, anche il fatto che per quasi tutte le pagine del libro Palahniuk ricorra ai consigli di scrittura del suo insegnante e a quelli che al suo insegnante ha dato Lish, editor storico di Carver, che è un po’ come se io decidessi di scrivere un libro di ricette, citando tutti piatti di Benedetta Parodi. Intendiamoci, il sottotitolo lascia intuire che non sia esattamente un manuale di scrittura, quanto più un memoir, ma non basta mettere un sottotitolo per cambiare le carte in tavola, e soprattutto non basta una buona, a volte ottima firma, per sfornare un buon libro.

Comunque sia l’ho letto tutto, prima di passare a altro, decisamente più interessante, magari ve ne parlo più avanti. In uno dei capitoli, qui volevo arrivare, Palahniuk cita un aneddoto a lui capitato, mi sembra di ricordare, o al suo insegnante o a Lish, poco cambia, durante il quale un giovane autore americano, di cui ovviamente ho rimosso il nome, durante una presentazione ha letto dall’inizio alla fine un racconto nel quale viene descritta nei minimi dettagli una scena di sesso. Così, senza vergogna, senza pudore. Tutta la scena, nei minimi dettagli. Palahniuk, uno che, diciamolo, non è famoso per il suo stare nei ranghi, per l’essere politicamente corretto, per la sua misura, suggerisce ai suoi ipotetici allievi, a quanti, cioè, abbiano letto quel libro non perché è un libro di Palahniuk ma perché è un manuale di scrittura che porta la firma per di più di Palahniuk, di non addentrarsi mai nella descrizione di scene di sesso, tanto meno nei minimi dettagli.

Leggendolo, nella maniera distratta con la quale, pagina dopo pagina ho affrontato questa noiosa lettura, lettura noiosa che mi è apparsa particolarmente noiosa, come succede quando qualcuno che vi fa particolarmente ridere dice una battuta scialba, che neanche vi strappa un sorriso, ho metaforicamente fatto un balzo sulla sedia, seppur io non abbia fatto nessun balzo, fisicamente, e soprattutto io non sia solito leggere seduto su una sedia, ma a letto o sul divano, quando posso, e ancora non posso, in spiaggia, su un asciugamano appoggiato su un lettino, nel quale caso, temo, avrei mandato a cagare Palahniuk, affetto o non affetto, e me ne sarei andato a farmi un bagno. Ma come, mi sono detto, sempre inseguendo questa finta narrazione, la scrittura è per sua natura finzione, almeno su questo io e Palahniuk la vediamo alla stessa maniera, e non potrebbe che essere così, ma come, Palahniuk è contro la descrizione di una scena di sesso? Lui che, questo racconto ricorre più volte di qualsiasi altro nelle pagine del libro in questione, ha scritto un racconto dal titolo Budella nel quale si narrano le vicende orrorifiche di come farsi una sega dentro una piscina possa diventare fatale? Quel Palahniuk lì?

È proprio vero, avrei concluso mi interessasse davvero giungere a una qualche conclusione riguardo la parabola di un autore a partire da quello che, evidentemente, è un libro minore, uno di quelli che si sfornano perché l’autore è un autore che tira, di quelli che si tende a pubblicare ogni tot mesi sempre e comunque, perché ha un pubblico fidelizzato, che compra a scatola chiusa, e che, si presume e si spera per l’autore e l’editore, continuerà a comprare anche dopo una chiara sòla come questa, nasci incendiario e muori pompiere.

Ora, a prescindere se Palahniuk sia o meno diventato pompiere, e non abbia, piuttosto semplicemente perso il suo tocco, aver così a lungo parlato di come un autore noto per essere così sovversivo possa, senza pudore (e forse consapevolezza), essere diventato pudico se non reazionario mi serve a guardare a questa estate musicale, partendo dal sesso.

Allora, siamo in estate, la stagione che, per vari motivi che non credo sia necessario star qui a elencare, viene più associata al sesso e al desiderio.

Questa è una estate strana, per motivi che, anche qui, direi che avete tutti ben presenti. Ci siamo a lungo chiesti che tipo di estate sarebbe stata. Per un po’ abbiamo temuto, perché di timore si trattava, di doverla passare in casa. Poi di doverla passare nella propria regione, e anche lì, vivo a Milano, era timore. Poi è stato chiaro che con buone probabilità sarebbe stata in Italia, perché muoversi è più complicato, perché il lavoro è scarseggiato e scarseggia, per paura, o per uno dei motivi che ognuno di voi avrà in mente.

Poi l’estate è arrivata e, complice il fatto che molti hanno lasciato le città, specie le città del nord, per tornare ai paesi nati, a non fare nulla o a fare smart working, molti hanno iniziato a affollare le spiagge. Abbiamo visto tutti le foto delle spiagge senza la minima pratica di distanziamento sociale, dopo aver letto tutti delle difficoltà dei proprietari degli stabilimenti balneari di lavorare ai protocolli di sicurezza. Abbiamo visto anche tutti le foto sui social e sui giornali di quelle stesse spiagge, gli assembramenti, le resse, la gente appiccicata e sudata, come nel testo del tormentone di Gabbani.

L’estate poteva cominciare a sembrare più simile a quella degli anni passati, specie se quelle immagini, invece che vederle sui social e sui giornali le avete viste dal vivo, parte di quegli assembramenti e di quei natanti lì. Non è di assembramenti che voglio parlare, o quantomeno non di assembramenti da spiaggia. Il vero segnale che l’estate è arrivata, volendo evitare di prendere come segno di qualcosa di bello e piacevole qualcosa che bello e piacevole non è, anzi, che del bello e la piacevolezza è esattamente l’opposto, cioè quelle canzoni di merda alla Takagi e Ketra, i cosiddetti tormentoni, il vero segnale che l’estate è arrivata è dato dal constatare che sui social, e dove se no, sono apparsi assembramenti ancora più pericolosi di quelli appena citati, quelli cioè di selfie in minibikini di praticamente chiunque abbia un corpo da non coprire con un minibikini, o in tenuta muscolare, bicipiti e addominali, sta cazzo di teoria per cui se citi qualcosa di femminile devi fare altrettanto con qualcosa di maschile per non risultare sessista mi manda ai pazzi, messi ben in evidenza, idem. Culi e tette, bicipiti e addolimali, come se piovesse, sempre e comunque in taglie extrasmall, le ragazze, o culturista style, o foto che così ci fanno vedere, Photoshop santo subito.

Un florilegio di selfie a bagnomaria, in pose che la natura non ci ha consentito di assumere, a meno che uno non voglia arrischiare una qualche lesione più o meno grave, cioè un tentativo reiterato quanto banalissimo di intercettare quel desiderio di cui si parlava prima, dare una risposta a quel desiderio, incanalarlo dentro una estetica che rientra alla perfezione in canoni assai ristretti, quelli degli stereotipi sessualizzati di bellezza che imperano sovrani.

Mi fermo un attimo, a tutto c’è un limite.

Potrei continuare a abbinare esempi maschili a quelli femminili, certo, ma siccome nel farlo fingerei di vivere in una società paritaria, dove non esistono uomini che non sottostiano a quei canoni, e così non è, smetterò di fingere e proseguirò parlando solo di femminile. Fanculo le ipocrisie.

Riprendo.

È quindi estate, i selfie sui social ci confermano, in quella maniera stilizzata e plastica che è la stagione del desiderio e del sesso.

Tutto questo, però, non trova riscontro nella musica che gira intorno, nella colonna sonora che questa stagione accompagna, e che, quindi, quel desiderio dovrebbe accompagnare verso il proprio appagamento. Perché non vorrete mica farmi credere che ritenete sessualizzate, o sensuali, le due parole non hanno lo stesso significato, affatto, ma ruotano intorno alla medesima idea, affrontandola da due punti di vista differenti e al tempo stesso complementari, il reggaeton o quello strano mix di elektropop e trap che di colpo, dopo mesi di sano silenzio, sono tornate a infestarci, impietose della nostra stanchezza, della nostra fragilità, della nostra debolezza?

Quelle sono le distrazioni di massa, pericolose come tutte le distrazioni. Sono l’omogenizzazione dell’arte, quel giochino per cui, a furia di sentire reggaeton e vederlo accomunato a qualcuno di sudato e muscoloso, uomo, e sudata e sculettante, donna, sempre dentro le strette maglie dei canoni della stereotipizzazione, mai una taglia extralarge, due smagliature, un po’ di panzetta, o anche braccia troppo magre, seno piatto, assenza di addominali, visi butterati, di colpo, come fossimo i cani di Pavlov, associamo l’idea di corporeità e quindi di sesso a quella roba lì, qualcosa di meccanico, alieno da noi, onestamente anche piuttosto avvilente.

Un passare, metaforico, dal tanto svilito “sesso senza amore” al “sesso senza corpo”, fate un po’ voi.

Devio ancora.

A proposito di corpi.

Avete visto tutti, nelle scorse settimane la foto poi divenuta famosa col nome Naked Athena.

Sì, l’avete vista tutti, magari non sapete che avesse quel titolo, giornalistico, ma fidatevi che l’avete vista. In alcuni casi anche più volte.

È la foto della ragazza che, a Portland, Oregon, per altro, così, casualmente, la città nella quale vive e ha scritto praticamente tutti i suoi libri più importanti Palahniuk, e nella quale sono ambientati molti degli aneddoti del libro da cui questo pezzo prende le mosse, è quindi la foto della ragazza che, a Portland, Oregon, decide di porsi di fronte alle forze dell’ordine che vogliono respingere una manifestazione in memoria di George Floyd, l’afroamericano ucciso dal poliziotto a Minneapolis qualche tempo fa, quello il cui omicidio ha scatenato il movimento Black Lives Matter, così, semplicemente ponendosi completamente nuda di fronte a loro, i poliziotti, a gambe aperte. Qualcuno ha scomodato, credo in maniera anche piuttosto pertinente, l’opera di Gustave Courbet che porta per titolo, anche piuttosto didascalico, L’origine del mondo.

Una ragazza, nella foto che ha preso il nome di Naked Athena, Atena nuda, con chiaro riferimento alla dea dell’Olimpo, dea della arte e della guerra, guarda caso, ritratta di spalle, che se ne sta a gambe aperte di fronte a un gruppo di uomini armati, protetti da imbottiture e caschi, loro sì figli di uno stereotipo macho.

Lo so, sto praticando una forzatura.

Anche spinta, come forzatura, violenta.

Ma quando si scrive può funzionare anche così, su questo pure Palahniuk concorda, è l’autore a guidare le danze, il lettore al limite può decidere di smettere di leggere, ma farlo ora, dopo unidicimila e passa battute, suppongo, sarebbe come smettere di vedere un film dopo oltre un’ora e mezza, senza sapere come andrà finire. Legittimo, ma forse un po’ sciocco. La smetto, perché sto esercitando quel tipo di tracotanza bulletta tipica di chi pensa di avere il coltello dalla parte del manico, e non mi sembra poi così intelligente, né divertente, continuare a farlo.

Non conosco l’identità della ragazza, della donna di Naked Athena. Immagino che volessi approfondire, con una veloce ricerca in rete la potrei comodamente ottenere, non credo sia un segreto di stato. Ma il fatto che abbia deciso, perché è evidente che la sua non è stata una mossa improvvisata, ma una scelta specifica, il fotografo stava esattamente alle sue spalle, come a voler rendere il suo posare parte di un’opera d’arte, simmetrica, quindi per certi versi rassicurante, come magari natura ci spingerebbe a pensare, il fatto che abbia deciso di apparire di spalle, in fondo, suppongo ci voglia dire che non è la sua identità, il suo volto, che ci deve interessare.

Chiaro, c’è il dettaglio che la medesima foto, fatta di fronte, non sarebbe circolata sui social, che permette di pubblicare foto di culi, ma non di altre parti “intime”, né sui giornali, anche questo sarà stato preventivato, ovviamente. Non conosco comunque l’identità della donna di Naked Athena, e penso che, come nel caso dei ragazzi che si baciano sotto la pioggia di fumogeni non ricordo più in quale manifestazione no global, quella della ragazzina bruciata dal Napalm che corre nuda in Vietnam, o quella della ragazza che bacia alzando la gamba il marinaio all’annuncio della fine della Seconda Guerra mondiale, direi che l’iconicità del gesto plastico, immortalato, supera di gran lunga l’anagrafe e la contingenza.

Quello che però penso di poter affermare senza paura di essere smentito, è che la donna di Naked Athena, col suo gesto naturale ma al tempo stesso eversivo e provocatorio, contrapporre una figa alle armi, non ha voluto caricare di valenza erotica quel gesto. Mi spiego, sapendo di star camminando su un terreno sdruccioloso. Chiaro che una donna con le gambe aperte, nuda, è sessualizzata. Molto. Ma è anche chiaro che l’intento di quel gesto non è tanto indurre il desiderio, non c’è la volontà di eccitare i militari che le stanno di fronte, di portarli a fare sesso, ma piuttosto quello di sbattere in faccia loro una contrapposizione netta, anche questa giocata su stereotipi, ovvio, potere della sessualità femminile, con tutto quello che questo concetto porta con sé, versus potere delle armi, della forza fisica, muscolare, dell’uomo. Non desiderio, quindi, non stavolta. Ma sempre sessualizzazione, vista da un’altra angolazione. Del resto, non è una scoperta recente, il mostrarsi nude, per le donne, è considerato un atto di forza, esattamente come il gonfiare i muscoli o il mostrarsi lordi di sangue dopo uno scontro fisico per gli uomini, anzi, molto di più, al punto che praticamente in tutte le culture, da quelle africane a quelle dell’antica Roma e dell’antica Grecia, esistono figure mitologiche che, mostrando i genitali o anche il culo, sì, erano capaci di fermare guerre, tempeste, piogge e altre disgrazie. Ci ho fatto su un TedX, su questa forza qui, su come a questo gesto venga attribuita, ancestralmente ma non solo, questa potenza, e in quel caso, non avevo praticamente scelta, partivo da un quadro, il Lady Godiva di Collier, che di quel gesto potente rappresenta una versione occidentale e più recente, complice la concomitanza del mio parlare con l’uscita di quel capolavoro di pop intelligente che è stato Go Go Diva de La Rappresentante di Lista, evidentemente dal medesimo passaggio partito.

Sessualità, quindi, scinta dal desiderio. Anche.

Torniamo al nostro incipit, e so che vi sto chiedendo molto, in questi strani giorni di questa strana estate 2020.

Non si deve parlare di sesso in un romanzo, dice Palahniuk.

Non ci sono più canzoni che ci descrivano il sesso e il desiderio come qualcosa che non sia inscatolato dentro uno stereotipo, tequila e guaranà, i discografici seguono le indicazioni di Palahniuk, sembrerebbe.

Nel mentre un semplice gesto come quello della Naked Athena, semplice per la semplicità con la quale lo si può compiere, intendiamoci, non per il tipo di difficoltà che decidere di compierlo suppongo implichi, diventa virale, e torna a porre l’accento sull’anasuromai, questo il nome del potere del mostrare le parti intime che tante culture riconoscono alle donne.

A questo punto, a rigor di logica, dovrei rovesciare quanto fin qui detto proponendo qualcosa che mette insieme i puntini fin qui indicati, come fossi uno Steve Jobs meno geniale e più vivo. Funziona così, lo dice anche Chuck, alla fine devi rovesciare la trama, possibilmente in maniera repentina, nelle ultime righe, senza lasciare spazio a repliche.

Ecco, io non sono Chuck Palahniuk, non sono Steve Jobs e soprattutto non sono un mago capace di cambiare la realtà, tanto meno la contemporaneità. Per cui, non avendo modo di scovare la giusta chiosa al mio scritto nel presente, non posso che guardarmi alle spalle e andare a pescare in un passato remoto che, per nostra fortuna, soprattutto per la fortuna di chi c’era, io c’ero, ci ha regalato tanto a riguardo. Così, non volendo tirare troppo per le lunghe una gimcana che ha per tema il desiderio, il sesso e la loro assenza nella musica d’oggi, non posso che indicarvi l’anno 1982 e la tripletta che porta la firma di Wendy O. Williams come cura per tutti i mali. Tripletta che in realtà esce da quell’anno magico, ma che è comunque una tripletta degna di Mourinho, tripletta o triplete che risponde al titolo di Stand By Your Man, a nome Wendy & Lemmy, dove per Lemmy si intende il Lemmy Kilmister dei Motorhead, EP di altissimo livello ormonale e eversivo, Coup D’Etat, album degli allora appena riformatisi Plasmatics, band punk che aveva proprio nell’ex spogliarellista e pornostar Wendy O. Williams il suo motore a trazione anteriore, capolavoro del genere e ispirazione per le riot girls a venire, e per finire WOW, datat 1984, a firma della sola Wendy O. Williams, primo album solista della fu leader dei Plasmatics, prodotto da Gene Simmons dei Kiss, e con il resto della band nei panni dei turnisti, album ancora oggi in grado di ridar vita ai morti. Come nel caso delle Runaways di Joan Jett, anche qui grande fluida nel passare dal punk all’hard rock, con punte di metal, i rigidi confini dei generi fatti a brandelli anni prima del grunge e della musica a venire.

Si può cantare di sesso, impudici e credibili nel farlo, fidatevi di una punkeuse che purtroppo ci ha lasciato troppo presto, ditelo a Chuck Palahniuk se lo incontrate, e nel caso capitasse ditegli che la divisa da pompiere non gli si addice per nulla.