Il mondo dei live e il sistema musica nel post-Covid19 sono un insetto infetto

È bastata la pandemia per evidenziare le pecche di un sistema che pretende pagamenti in anticipo di un anno, con surplus e senza alcuna certezza


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Quando ero bambino, prima, ragazzino, poi, la squadra della mia città aveva una sua storia piuttosto lineare. Giocava nelle serie minori dei professionisti, prevalentemente in Serie C2 e C1, a volte salendo di categoria, a volte scendendo. Erano serie, quelle, all’altezza della mia città, una città di provincia, piccola, con poche aziende e imprenditori capaci e disposti a investire denari nel calcio, anche perché all’epoca non c’erano le partite in Tv, di soldi ne giravano evidentemente pochi. Infatti lo stadio nel quale la squadra della mia città natale giocava era uno stadio piccolo, al centro della città. Mancava addirittura, quasi del tutto, uno spazio preposto alle tifoserie avversarie, poca roba, anche perché l’essere al centro della città rendeva l’ipotesi di una invasione di tifosi avversari preoccupante.

Poi è arrivato un imprenditore esterno, piuttosto danaroso, o che sembrava piuttosto danaroso, e la squadra ha iniziato una sua ascesa verso la Serie A. L’imprenditore ha usato il calcio per farsi un po’ i cazzi suoi, nel calcio funziona spesso così, sono le famose distrazioni di massa cui ci siamo col tempo assuefatti, si faceva i cazzi suoi, costruendo opere che poi sarebbero rimaste a lungo incompiute, e nel mentre la squadra portava a case vittorie su vittorie. La gente guardava alle vittorie, e poco contava se c’erano ponti che non si congiungevano, e per come erano costruiti non si sarebbero potuti congiungere, strade che non portavano da nessuna parte, opere pubbliche divenute veri e propri buchi neri, la squadra vinceva, cazzo.

Alla fine la Serie A è arrivata, e con la Serie A, non poteva che essere così, anche uno stadio nuovo, fuori città, capace di ospitare un pubblico più numeroso, anche forestiero. Nel mentre, la vita va così, sono arrivate le inchieste sull’imprenditore di cui sopra, e con le inchieste l’arresto. Le opere incompiute sono rimaste tali, divenendo in qualche modo simbolo momentaneo della città tutta, la squadra ha racimolato in Serie A un numero risibile di punti, retrocedendo, abbandonata al suo destino dal presidente uscente.

Non ho nominato il nome della città nella quale sono nato e in cui ho a lungo vissuto, non è difficile sapere qual è, chi avesse avuto occasione di leggere un qualsiasi mio articolo ben lo sa, perché la cito spesso. Non l’ho fatto perché, ahinoi, la storia della squadra di calcio della mia città natale è abbastanza comune a altre città di provincia, anche se i destini dei loro presidenti, e quindi anche dei loro percorsi nel mondo dei professionisti del pallone, non sempre sono legate a inchieste su opere pubbliche. Poco cambia. La storia del calcio è piena di piccole realtà di provincia che si affacciano al grande pubblico, fanno figure non esaltanti per poi tornare nelle retrovie. Nello specifico, però, la squadra della mia città offre altri capitoli a questa storia, capitoli che mi vengono utili per la storia che vi sto raccontando, a vostra insaputa.

Perché la squadra della mia città è stata rilevata da un’altra compagnia di giro, che per motivi a sua volta altri ci ha buttato su qualche soldo, quindi dopo qualche anno in Serie B, con sortite in Serie C, ecco che ritorna la Serie A. Un ennesimo sforzo che stavolta costerà caro. Chi segue il calcio ben ricorda le tante realtà che, dopo aver dominato un intero campionato delle serie minori, per evitare di affrontare qualcosa più grande delle proprie forze, perdeva tutte le partite dell’ultima parte del campionato, scivolando dal primo posto conservato per buona parte della stagione in una situazione intermedia, lontano dalla promozione. Non era mai un caso. Si trattava di una strategia atta a non forzare la mano a una società che non avrebbe retto lo sforzo della Serie A. Sforzo che, nonostante la immediata retrocessione, costerà alla squadra della mia città un primo fallimento, doloroso. A salvarla, ma qui andrò giù con la falce, perché non è di calcio che voglio parlare, seppur io stia al momento, metaforicamente, per camminare negli stadi, arriverà uno dei più grandi, parlo di danari, imprenditori locali, che si metterà a capo di una cordata di altri imprenditori locali. Grazie a quello che era il Lodo Petrucci, quindi per meriti sportivi, legati anche al fatto che la mia città natale è capoluogo di regione, la squadra, fallita potè ripartire non dall’ultima serie, amatoriale, ma dalla Serie C2. Ci saranno nuove promozioni, fino alla Serie B e nuove retrocessioni.

A questa situazione, mi arrogo il diritto di tagliare passaggi su passaggi, non rilevanti, seguiranno altri fallimenti, sempre dovuti a gestioni non propriamente illuminate, con altre retrocessioni e altri interventi momentaneamente salvifici. Da quello del presidente di una squadra di quartiere nella quale ho anche io militato, da piccolo, che ha cambiato il nome aggiungendo una data per poter ripartire da meno in basso di come sarebbe altrimenti accaduto, a una cooperativa di tifosi. Un ondivago andirivieni dal mondo dei professionisti a quello dei semiprofessionisti, sempre più lontani dal blasone e dalla Serie A. Al momento milita in Eccellenza, i fasti del passato sono appunto tali, fasti del passato.

Veniamo a noi.

Quest’anno gli stadi sono rimasti deserti. Lo sono rimasti gli spalti, per quanti seguono il calcio, e lo sono soprattutto stati i campi e gli spalti per quel che riguarda i concerti. Non scrivo di calcio, quindi mi concentro ora sui concerti, cercando di dare un senso alla lunga disanima fatta anonimamente sulla storia della mia città, Ancona, dai, diciamolo.

Quale potrebbe essere la morale di questo mio raccontare? Che nella vita, forse, sarebbe bene giocare nel proprio campionato, in quello, cioè, nel quale ci si può muovere senza rischiare di fallire, di scornarsi, di racimolare pochi punti e retrocedere velocemente.

Perché dico questo in un pezzo che parla di concerti negli stadi?

Semplice, perché questo che verrà ricordato come l’anno senza musica, in fondo, sarebbe dovuto essere l’Anno D’Oro dei live in Italia. Quello con, a memoria d’uomo, più concerti, più pubblico pagante, un sacco di eventi giganteschi, con artisti italiani e stranieri, spesso negli stadi o comunque in aree dove si possono ritrovare tante persone.

Questo, associato alla bolla vuota dello streaming, che ha fatto numeri impressionanti, numeri appoggiati su quello che tecnicamente si potrebbe indicare come “stocazzo”, perché è bastato star fermi un po’ di mesi per vedere come di bolla vuota, appunto, si trattava, ha generato la credenza popolare, leggenda o come diavolo la volete chiamare che di colpo la musica fosse tornata non solo a vivere, dopo anni di agonia, ma addirittura a prosperare.

Poi è arrivata la pandemia. Tutto si è fermato. È saltato fuori questo problemino con le maestranze, sottopagate, spesso manco a contratto, gente che, in assenza di concerti, anche piccoli, non solo non sopravviverà professionalmente, ma molto probabilmente non sopravviverà e basta, perché senza soldi non si campa, letteralmente. È saltato fuori che senza che lo stato parasse il culo alle agenzie che producono concerti queste ultime, così ci hanno detto, sarebbero andate a gambe all’aria, con buona pace di quanti hanno comprato i biglietti, ora con in mano dei vaucher non si sa esattamente spendibili come e quando. È saltato fuori che quel mondo dello spettacolo che non è mai stato cagato dal sistema economico e politico italiano, non fosse che per presenziare in certe occasioni, e nel caso di alcuni grandi nomi, per andare a mangiare in situazioni favorevoli, di colpo si è accorto di non essere mai stato cagato etc etc, ha mostrato gli occhioni grandi e pieni di lacrime, come il Gatto con gli Stivali della saga Shrek, ha elemosinato aiuto, ha sentito i propri artisti definiti “i nostri amici artisti che ci fanno divertire e appassionare”, della serie “facce ride ahò” e hanno provato a fare qualche iniziativa congiunta, da #SenzaMusica agli Stati Generali della Musica, intervenuti agli Stati Generali di Villa Pamphilj in versione “facce ride ahò”, appunto, ma quantomeno presi in considerazione più del nulla accaduto durante il lock down.

Ma tu ci hai parlato di una squadra che è salita in Serie A un paio di volte, fallita ben più di un paio di volte e ora milita tra chi gioca al calcio per hobby, che c’entra, si chiederà qualcuno?

Ecco. Io credo che il sistema musica italiano, in mano non esattamente a gente alla quale chiederei consulenze per come poter gestire i soldi che, in effetti, non ho fatto grazie al mio lavorare in questo settore, avrebbe dovuto tenere bene a mente la massima del “non fare il passo più lungo della gamba”. L’ultima volta che ho azzardato a parlare di questo, per altro in un articolo che parlava molto di calcio e di concerti finti sold-out dal vivo, sono finito in un ginepraio incredibile, so i rischi che corro, e sticazzi. Far finta che tutto vada bene, benissimo, non è una buona mossa. Contare sull’aiuto di quelli che ha divertito e fatto appassionare, neanche.

La musica italiana si è raccontata negli ultimi anni come un sistema in ascesa, florido, un Bengodi con spazio e soldi per tutti. Così non era. Siamo sempre stati una squadra di provincia, da Serie C 2, perché fingerci da Champions League. È bastato, si fa per dire, una pandemia per spazzare via tutti, e a parte il disagio di chi al momento si trova in mano dei pezzetti di carta, metaforici, i voucher, laddove ci sarebbe dovuto essere un servizio pagato addirittura con un anno di anticipo, per altro sborsando anche un surplus di prezzo, fatto più unico che raro, perché se compri online i biglietti di un aereo con un anno di anticipo li paghi meno, mica ti fanno pagare i diritti di prevendita, ora c’è anche la consapevolezza che quell’essersi raccontati forti, grossi e vincenti potrebbe presentare un conto assai salato, l’anno prossimo.

Faccio un esempio, sapendo che finirò, figuratamente, nella merda (leggi al nome shit storming). Quando mia figlia grande, Lucia, ora diciannove anni quasi compiuti, frequentava le medie, si è appassionata per una estate di Emis Killa, all’epoca in vetta alle classifiche col tormentone Maracanà, complice anche l’essere quel brano la sigla dei mondiali di calcio di Sky. L’ho quindi portata al suo concerto, in un luogo di mare vicino a quella città i cui fasti, si fa per dire, calcistici vi ho prima raccontato. Ci ho anche scritto su un articolo, il primo dopo anni nei quali mi ero ritirato dalla professione di critico musicale, e sono conseguentemente tornato subito alla ribalta, oggetto di insulti e valanghe di merda da parte dei suoi fan (e un po’ anche sua). Poi con Emis ci siamo conosciuti e, credo, anche capiti. Il punto non è questo, ovviamente. Nel nostro scontrarci, sui social, Emis mi ha detto qualcosa che suonava come “tanto a tua figlia piccio io, coglione”. Parafraso, ovviamente. Io gli ho risposto qualcosa come “tra tre mesi manco si ricorda più che esisti”. Tutto vero. Nel momento in cui ci siamo sfanculati Emis era Dio per Lucia. Tre mesi dopo se provavi a chiedergli se gli piaceva negava di averlo mai seguito. Non per cattiveria o malafede, è l’adolescenza, baby. Ecco, pensate a quanti genitori, l’anno scorso, hanno comprato i biglietti per i concerti negli stadi di Ultimo, artista che aveva in programma undici, mi sembra, concerti negli stadi italiani, con tanto di megaevento al Circo Massimo di Roma. Pensate, quindi, quanti di questi genitori, genitori che avrebbero accompagnato a distanza di un anno dall’acquisto di quei biglietti i loro figli a quel concerto, col rischio magari che nel mentre quei figli fossero passati a ascoltare Salmo o Madame, pensate quindi quanti di questi genitori si troveranno fra un anno, quindi a due dall’acquisto di quei biglietti, a dover convincere adolescenti, magari adolescenti che due anni fa frequentavano le elementari, che andare a vedere Ultimo non è cosa di cui vergognarsi. Perché due anni, a quell’età lì sono ere geologiche, perché a quell’età lì si cambia gusti ogni due mesi, perché, diciamocelo, un artista come Ultimo potrebbe fare il botto definitivo, diventando il nuovo Claudio Baglioni, o regredire a uno stadio primordiale, come tanti casi prima di lui.

Col che non voglio certo dire che Ultimo non avrebbe dovuto fare il tour negli stadi, sarei un pazzo anche solo a pensarlo, ma dico, radicalmente, che forse il sistema musica se la sarebbe dovuta cantare e suonare un po’ meno da solo, esibire meno sfarzo, costruire su basi più solide, le fondamenta sulla roccia di evangelica memoria, piuttosto che doparsi e poi trovarsi incapaci di sollevare un peso da cinque chili preso per quattordici euro da Decathlon. Il rischio è di trovarsi a giocare in Eccellenza insieme alle squadre del quartiere della tua stessa città, mentre tu eri convinto di poter ambire alla Champions.

Chiudo questo pezzo andando fuori dal discorso calcistico, e anche da quello musicale, augurando a Ultimo di essere ancora un top player anche l’anno prossimo, sia chiaro, non posso che provare umana simpatia per chi ha dato degli stronzi ai miei colleghi della Sala Stampa dell’Ariston.

Ho visto un video del National Geographic che mostra un insetto in avanzato stato di decomposizione. Me lo ha segnalato una amica, che conosce la mia passione per certi aspetti non esattamente rassicuranti del mondo animale, grazie Doris. Una scena piuttosto raccapricciante, il corpo quasi tutto mangiato da non so cosa, e ali stropicciate sulla schiena, sempre che si chiami schiena anche quella degli insetti, la sola testa, idem, intatta. Come vedere un cadavere, solo che nello specifico il cadavere dell’insetto, ancora non tale, credo, stava camminando su un terreno dissestato, come uno zombie di quelli che infestano le serie tv di Netflix e compagnia bella. A muovere l’insetto, diceva il documentario, a farlo continuare a muovere, è una neurotossina che si è impossessata di quello che è il suo cervello, semplifico un discorso che un entomologo saprebbe farvi in maniera molto più appropriata. Il video è per certi versi ipnotico. C’è questa carcassa quasi del tutto vuota, putrescente, che cammina, sbanda dovrei dire, tra le foglie e i sassi, viva ma in realtà morta.

Ecco, mi sembrava l’immagine giusta per chiudere uno scritto che affronta i live e il sistema musica nel post-Covid19.