Map of Tasmania di Amanda Palmer in tutta la sua naturale pelosità spacca di brutto

L'artista punk nelle sue performance ama mostrare i suoi peli superflui, proprio come le protagoniste del film "Ritratto di una giovane in fiamme"

foto di Peter Fath


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Io e mia moglie abbiamo tre quarti dei nostri figli al mare, con la nonna. No, non è un modo di dire, tre quarti non è una approssimazione, abbiamo quattro figli, e tre di loro, i due bambini, e l’adolescente, sono al mare con la nonna, mentre la nostra figlia più grande è con noi a Milano.

Non avere in casa due bambini di otto anni e un adolescente di quindici anni dimostra come una casa sia tale anche in virtù di chi la abita, perché quelle stesse mura, di colpo, risultano vuote. Avrei potuto usare il verbo risuonare, ma in effetti l’estremo silenzio che campeggia in casa, in questi giorni, è l’aspetto più evidente di quella assenza, e Dio non voglia che ora mi metta a fare l’uomo di mezza età che, tanto più dopo aver trascorso tre mesi praticamente costantemente insieme ai suoi familiari, sta qui a frignare per la nostalgia, la saudade o qualsiasi nome vogliate applicare a quella forma di malinconia legata a un’assenza.

Tutt’altro. Sono partito così, sottolineando come tre quarti dei nostri figli siano al momento altrove, nello specifico al mare, dalla nonna, per dire che, di colpo, come fosse una epifania, io e mia moglie abbiamo scoperto che in sala alberga un elettrodomestico del cui utilizzo siamo sempre state interdetti, per una mera questione anagrafica, suppongo, il televisore. Come chiunque abbia dei figli piccoli in casa ben sa, infatti, la televisione è praticamente inavvicinabile per un adulto, a meno che non voglia guardarsi video di stupidi youtuber che fanno scherzi o altre cazzate del genere.

In verità, in famiglia, abbiamo una sorta di tradizione sviluppata negli anni che fa sì che, almeno il sabato sera, quei sabati sera in cui non si abbiano ospiti o nei quali non si sia ospiti di qualcuno, la televisione diventa quello che, un tempo, avremmo definito il focolare domestico. Un focolare freddo, certo, fatto di pixel o quel che è. Perché la tradizione in questione vuole che di sabato sera, in casa nostra, ci si raccolga tutti in sala per guardare un film insieme. Chiaramente, quando dico tutti insieme intendo noi, io e mia moglie, e i due figli piccoli, Francesco e Chiara, nove anni a settembre, perché gli altri due, Tommaso e Lucia, neanche ci pensano di uscire dalle loro camere, sempre che Lucia, la più grande, quasi diciannove anni, sia in effetti in casa di sabato sera. Spesso con noi è anche la nonna che ora se li spupazza al mare, perché è con noi che passa parte dell’inverno. Questi fattori, la presenza nella medesima stanza di noi due, io e mia moglie, ma anche di due bambini di neanche nove anni e della madre di mia moglie, la cui età non posso rilevare se voglio anche solo supporre di poter mangiare pasta coi moscioli una volta che raggiungerò anche io il mare, spero non tra tanto, determina quasi sempre la scelta del film: una commedia italiana, spesso con Bisio, De Luigi o Albanese, molto spesso con la Cortellesi. Sempre e comunque, è un fatto, film che non abbiano un linguaggio troppo colorito, ancora di più che non manifestino scene di sesso e, più in generale, che non ci mettano poi nelle condizioni di dover dare spiegazioni su situazioni che i gemelli, e volendo anche mia suocera, non sono tenuti a conoscere. È sabato sera, e che cazzo, mica mi devo mettere a fare una lezione di educazione sessuale o spiegare certe dinamiche sociali complesse.

Per questo, so di averla presa un po’ larga, ci sono tutta una serie di film che, scelti da me poco prima dell’inizio della visione del sabato, e prontamente scartati da mia moglie in quanto considerati “non adatti alla visione di un pubblico non adulto, o troppo adulto, nel caso di mia suocera”, attendevano appunto questi pochi giorni per essere da noi visionati, finalmente.

Ora, è chiaro che dopo aver passato tre mesi e passa praticamente murati vivi, e aver vissuto la Fase 2 con estrema cautela, perché viviamo in Lombardia e perché, in fondo, il fatto di lavorare tutti in casa ci ha fatto affrontare la Fase 2 non tanto diversamente dalla Fase 1 ha fatto sì che, appena in effetti la situazione si è un po’ allentata abbiamo spesso optato per uscire, magari per andare a fare una semplice passeggiata, per salutare qualche amico che non vedevamo da troppo tempo, ma nei fatti almeno qualcosa siamo riusciti a vedere, poco, va detto, ma meglio di niente.

L’altra sera, per dire, è di questo che, incredibilmente, avevo deciso di parlarvi, non mi fossi perso per qualcosa come settecentosettanta parole nel parlavi d’altro, finalmente, è il caso di dirlo, io e Marina, mia moglie, siamo riusciti a vedere il film di Céline Sciamma Ritratto della giovane in fiamme. Mi aveva colpito il trailer, credo visto mentre, al cinema, ero a vedere una qualche cagata rivolta ai più piccoli, al cinema ormai vedo solo lungometraggi animati o film di supereroi. Mi aveva talmente colpito al punto che avrei voluto portarci mia figlia maggiore, Lucia, che però non ha visto il film neanche con me e Marina, uscita con delle amiche. È la storia di una pittrice che, nella Francia del XVIII secolo, è chiamata a fare un ritratto rubato a una giovane donna promessa in sposa a un milanese. Il motivo per cui il ritratto deve essere rubato, cioè non fatto in posa, è perché la giovane, secondogenita di una famiglia non più in grandi agi economici, è stata ritirata dal convento nel quale stava per prendere gli ordini da suora, questo dopo che sua sorella maggiore, destinata a quel matrimonio, si è tolta la vita gettandosi da una scogliera, non ha alcuna intenzione di andare in sposa a un perfetto sconosciuto, e siccome all’epoca il solo modo per cui un perfetto sconosciuto potesse accettare a scatola chiusa una altrettanto perfetta sconosciuta, tanto più se non in ottime condizioni economiche, era l’aspetto fisico e, in assenza di foto, di Instagram e affini, il solo modo per farsi vedere era un ritratto, ecco che rifiutarsi di posare era il modo più semplice per non essere presa in sposa. Lungi da me lo spoilerarvi la trama, guardatevelo, ne vale assolutamente la pena, ma a un certo punto succede che Heloise e Marianne, interpretate magistralmente da Adèle Haenel e Noémie Merlant, si trovino a voler sperimentare delle erbe con poteri lisergici. Non vengono chiamate così, è ovvio, è un film che parla la lingua dell’epoca o qualcosa che ci ricordi la lingua dell’epoca, le due protagoniste, prima sconosciute, poi amiche e poi altro, per dire, si danno costantemente del voi, fino all’ultima volta in cui si rivolgono la parola, ma è chiaro che quelle erbette, ricevute da Heloise durante una festa popolare, sono erbe che inducono una qualche forma di allucinazione, come certi funghetti della tradizione latinoamericana.

Non è neanche di questo che volevo parlarvi, comunque, ripeto, vedetevelo il film, è bello, e vale la pena. Perché quel che volevo sottolineare, è di questo che in teoria volevo parlarvi, distrazioni a parte, è che Heloise, nel decidere di provare quelle erbe, ricordiamolo, è da poco stata ritirata dal convento, poco sa delle cose del mondo, ma evidentemente abbastanza da sapere come muoversi, non trova di meglio da fare che passarsele sottobraccio, che suppongo sia il corrispettivo di chi si pippa la cocaina mettendosela nel culo. Ora, che nel culo ci siano le mucose, però, lo so pure io che non sono solito pippare cocaina, che sottobraccio ci siano punti sensibili da questo punto di vista, invece, lo ignoravo.

Ma non è neanche questo il punto.

Il punto è che c’è questa scena, qualcosa vi devo purtroppo spoilerare, non cambia comunque più di tanto la visione del film, fidatevi. Ci sono Heloise e Marianne a letto, nude. Beh, sì, ho spolierato parecchio, ma già le tre righe di sinossi di Sky parlava di “identità sessuale”, lasciando capire più di quanto non dicesse. Ci sono quindi Heloise e Marianne a letto, nude. Non si vede molto, è pur sempre un film che vuole evocare una determinata epoca, epoca nella quale si era particolarmente disinibiti, è noto, ma non lo si era in pubblico. Non è su questo che gioca la regia del film, anche nel momento in cui vuole parlarci di passioni. Per dire, la colonna sonora è assente per buona parte della pellicola, mentre è molto presente la pittura, ovviamente, e le immagini girate spesso giocano su questo, sulla pittura. Ci sono altri modi per dire, senza dover per forza andare per la via più breve. Heloise tira fuori queste erbette, le dichiara come erbe che facciano miracoli, poi alza il braccio sinistro e lì ci strofina le erbette, tenute strette tra le dita della mano destra. L’ascella di Heloise, la porta della percezione che le farà compiere quel breve viaggio allucinato, presenta una abbondante zona di peli scuri, lei è biodo cenere. Non sappiamo, ne sapremo se abbia folti peli anche sul pube, non viene mai inquadrato. Abbiamo appena intravisto Marianne nuda, in una delle scene iniziali, e così, seppur la scena si svolga in notturna, col fuoco del camino a fare da luce, non si vedono peli sulle gambe, fatto di per sé strano, Marianne è mora. Ha invece folti peli pubici, questo in altra scena lo vedremo.

Marina, mia moglie, nel vedere questa scena, Heloise che alza il braccio e mostra i peli sotto braccio, ha detto, serafica come è spesso nel suo stile: “Che strano, una volta avevano i peli sottobraccio”.

Ecco, questo è il punto esatto in cui, dopo milleseicento parole e passa dico esattamente quel che volevo dire sin dall’inizio, sapete che mi piace prenderla larga, che sono in fondo un impenitente post-modernista, il fatto che un tempo le donne avessero i peli sulle ascelle, cosa che, se non ricorressero a rasoi e affini (non sono padrone del giusto vocabolario per parlare di Epilady e quelle cose lì, men che meno delle cerette e compagnia bella) avrebbero ancora oggi, ha meravigliato una donna acculturata, attenta all’attualità, mia moglie. E l’ha meravigliata perché, questo è quel che passa il convento, oggi un gesto come avere le ascelle pelose passerebbe come sintomo di sciatteria, o addirittura di sporcizia. Quale sia il legame tra le due cose, avere peli sottobraccio e essere sciatti e sporchi non è dato saperlo, e del resto mi trovo ancora una volta nei panni dell’uomo che parla di argomenti che, agli occhi di molte donne, non gli competono, i peli sono loro e se li gestiscono loro.

A me però, onestamente, dei peli in sé frega poco o nulla. Frega di più come certe consuetudini abbiano soppiantato dati di fatto, le donne in natura hanno i peli sottobraccio, come gli uomini, se le vedete in spiaggia o ovunque siate, se vi vedete in spiaggia e ovunque siate, perché se no sembra che io stia scrivendo solo per uomini, prive di peli non è per una stranezza, come quella che ha fatto meravigliare mia moglie durante la visione del bel film Ritratto della giovane in fiamme, ma perché li hanno/li avete tolti. Lo stesso si potrebbe dire per i peli pubici, non fosse che il film in questione non mi ha offerto questo gancio, e che, più in generale, al mare, è del mare che stavo parlando qualche riga sopra, o più in generale in giro, a passeggio, in bici, al bar, difficilmente vi capiterà di guardare al pube di qualcuna trovandovi a meravigliarvi del fatto che ci siano, non ci siano affatto, ci siano pochi peli pubici, a meno che non frequentiate spiagge per naturisti, spiagge dove, però, suppongo ci si soffermi poco a guardare i dettagli e sia alquanto sconsigliato, se non proprio messo al bando, il meravigliarsi per quel che si vede.

Risottolineato ancora una volta che non è tanto dei peli che mi interessa, quanto di come si riesca a ripensare al proprio corpo in virtù di certe consuetudini, avrei potuto benissimo, per dire, partire dal fatto che in passato avere i fianchi larghi era qualcosa cui ambire, sempre che si possa ambire a qualcosa che non sia neanche volendo ottenibile di propria volontà, come se uno ambisse a avere il cazzo lungo e ciò comportasse che gli si allunghi il cazzo, come promesso da certe mail che finiscono, non a caso, nello spam, mentre oggi avere i fianchi larghi è qualcosa che si cerca di evitare a suon di pilates e sedute violentissime di zumba, i fianchi larghi erano sinonimo, anche qui piuttosto ingenuo, di fertilità, oggi solo di chiattezza, sembrerebbe, a meno che non siate Kim Kardashian o Cardi B, e preso atto che sono circa duemila parole che sto parlando di tutto fuorché di musica, io che in teoria, molto in teoria direbbe qualcuno e lo direbbe tanto più oggi, che ho parlato di peli sotto braccia e di film francesi sull’identità sessuale, in chiusura di pezzo, mai come oggi faticherei a chiamare questo mio scritto articolo, non posso che citare la mitica e iconica Amanda Palmer, una che ai peli superflui, che poi a suo dire così superflui non sono affatto, visto che son lì per scelta della natura, mica uno lì ha presi da Tiger insieme a qualche altra inutile cazzata, ci ha dedicato una canzone che, va detto, è una bomba. Un brano dance per macchine e ukulele, per altro, di quelli che ti fanno muovere il piede, David Foster Wallace direbbe alzare il dito al cielo, e anche ragionare. Nel caso del brano in questione, il titolo è Map of Tasmania, non si parla propriamente di peli ascellari, ma di quelli pubici, e il riferimento del titolo è alla conformazione appunto della Tasmania, molto molto simile a un ben folto boschetto di peli pubici. Amanda Palmer, del resto, è noto, non ama depilarsi, e essendo la punk artista votata non poco anche al cabaret che tutti amiamo, e se non siete tra questi tutti pentitevi e cercate in qualche modo di recuperare in fretta, il suo disamore per la depilazione viene esternato proprio mostrando abbondantemente tutte le aree del suo corpo dove i peli sono lasciati crescere naturalmente, dalle caviglie al pube, appunto, passando per le ascelle. Del resto, questo il discorso, se è possibile combattere una legittima battaglia per equiparare i capezzoli femminili a quelli maschili perché non si potrebbe farlo anche coi peli? Il riferimento è alla campagna Free The Nipple, letteralmente Libera il Capezzolo, lanciata dall’attrice e performer Lina Esco e che ha in Miley Cyrus la sua testimonial più nota e anche più attiva, è ormai diventata mainstream. Se un uomo può posare e apparire a petto nudo perché non lo può anche una donna?, questa la domanda intrinseca nella campagna. Il seno non è parte dei genitali, e caricare di sovrastrutture sessuali il corpo, anche i genitali stessi, è solo un modo per dar adito a chi lavora per una stereotipizzazione estetica, stereotipizzazione atta solo a vendere certi modelli estetici e tutto ciò che mira alla realizzazione di certi modelli estetici. Solo chi è perfetto dentro certi canoni, infatti, quelli che attivano, stando agli stereotipi, si badi bene, il desiderio, è degno di mostrarsi. E chi si mostra a prescindere da questo ragionamento, anche a prescindere dal voler diventare oggetto di desiderio, è automaticamente parte di un discorso di sessualizzazione assolutamente pretestuoso, perché un corpo è un corpo, siamo noi a sovraccaricarlo di significati che spesso neanche ha. Un discorso forse un po’ troppo complesso da affrontare così, a partire da un film visto approfittando dell’assenza dei figli da casa. Ma è estate, fa caldo, avere un po’ meno paura di mostrarsi per come si è potrebbe aiutarci tutti a vivere meglio con noi stessi e di conseguenza con gli altri, e comunque Map of Tasmania, come quasi tutte le canzoni di Amanda Palmer, andatevi a ripescare il suo ultimo album There Will Be No Intermission, nella cui copertina, per altro, Amanda Palmer campeggia in tutta la sua naturale pelosità, un monumento, letterale, al body positive, spacca di brutto e chi spacca di brutto ha sempre ragione.