In The Piper At The Gates Of Dawn dei Pink Floyd non c’è un foglietto illustrativo, ma è d’uopo riposare una volta terminato l’ascolto. Avere a che fare con l’esordio del progetto di Syd Barrett, viaggiatore del suono e della mente, è sempre letale.
Era il 4 agosto 1967 quando il debutto di una band che guardava all’infinito si impose sulla scena. Erano gli anni delle grandi ambizioni degli hippy, dell’LSD che sostituiva l’oppio dei poeti maledetti e di quel Regno Unito nel quale i Rolling Stones e i Beatles dominavano gli ormoni, ma sebbene i Fab Four si muovessero già sulla psichedelia e sebbene i Led Zeppelin erano pronti per imporsi come stella nascente dell’hard rock, i Pink Floyd erano l’anello mancante.
Quando Syd Barrett registrò The Piper At The Gates Of Dawn dei Pink Floyd dimostrò di essere l’astronauta a bordo dei suoi compari, 3 sbarbatelli che quando suonavano insieme diventavano un’orchestra di suoni e sensazioni. Una roba come Astronomy Domine, probabilmente, non si era ancora sentita.
Si poteva dire lo stesso per Lucifer Sam ma soprattutto per Interstellar Overdrive, veri e propri esempi di psichedelia e allucinazioni che descrivevano perfettamente l’idea di paradiso-inferno di Syd Barrett, un Virgilio acido che mostrava il dito medio al diavolo.
The Piper At The Gates Of Dawn era forma e sostanza: musicanti che proteggevano l’istrione, il folle anarcoide che con la sua chitarra dimostrò di essere in contatto con il cosmo. Dal delirio acido di Power R. Toc. H poteva passare alla soluzione senza gravità di Matilda Mother e Flaming ma anche alla violenza di Take Up Thy Stethoscope And Walk, prenderci per i fondelli con The Gnome e ucciderci con Chapter 24.
Un folletto ispirato, Syd, che seppe presentare un disco spaventoso: The Piper At The Gates Of Dawn dei Pink Floyd era la favola caleidoscopica di un genio.