L’Età Dell’Innocenza di Martin Scorsese è un grande melodramma sull’amore negato

Tratto dal romanzo della Wharton, il film con Daniel Day-Lewis e Michelle Pfeiffer racconta l’aristocrazia newyorkese del 1870 come una tribù dai modi squisiti e crudeli. Che, come la mafia, non ammette deroghe all’ordine costituito. Su Paramount Channel alle 21.10

L’Età Dell’Innocenza

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In un’intervista al New York Times Martin Scorsese ha detto che L’Età Dell’Innocenza (1993) è il suo film più violento. Sembra paradossale: l’autore di racconti molto duri incentrati sulla mafia italoamericana, da Mean Streets a Casino, asserisce che la sua opera più cupa sia l’adattamento d’un romanzo di Edith Wharton, ambientato nell’esclusiva upper class newyorkese del tardo Ottocento. Quel mondo un tempo detto dei “400 di New York”, un gruppo ristrettissimo composto dalle persone più influenti della città – il New York Times addirittura nel 1892 pubblicò una lista “ufficiale” con tutti i nomi –, che costituiva la cosa più vicina a un’aristocrazia che l’America abbia mai avuto.

Persone che, trasportate nella finzione del romanzo della Wharton e nella corrispondente trasposizione cinematografica sceneggiata da Scorsese con Jay Cocks, assumevano nomi favolosi come quello dei van der Luydens. I quali, queste le parole della voce fuori campo che accompagna il film (nella versione originale appartiene a Joanne Woodward), “dimoravano al di sopra di tutte le altre famiglie della città, illuminati da una sorta di crepuscolo sovramondano”. Come può Scorsese accostare alla classe sociale forse più sofisticata che gli Stati Uniti abbiano mai avuto l’idea della violenza? La sofisticazione, però, è solo l’altro volto dell’adulterazione e della contraffazione, che sublima una ferocia di casta che impone le sue norme tribali in modi esteriormente impeccabili, ma al fondo crudeli e inappellabili.

L’Età Dell’Innocenza, quindi, una volta scrostata la (spessa) patina dell’affettazione, è il racconto di una comunità chiusa in sé stessa, privilegiata e fatata che, attraverso la sua straordinaria disponibilità economica e un portafoglio di relazioni sterminate, esprime un assoluto potere sul mondo che gravita loro intorno, stabilendo le regole ferree da rispettare per sperare di essere ammessi a quella cerchia elitaria. E per un uomo come Scorsese, proveniente da un ambiente così diverso, quale quello estroverso e vistoso degli italoamericani, l’aspetto più affascinante di questo stile aristocratico riguarda proprio una violenza che non s’esprime mai in modi apertamente aggressivi, ma sempre come spietatezza ammantata di buone maniere, tanto più brutale quanto più formalmente ineccepibile.

L'Eta'Dell'Innocenza (Bookmovies)
  • Pfeiffer,Day Lewis (Actor)

L’Età Dell’Innocenza racconta la storia di un amore impossibile. Quello di Newland Archer (Daniel Day-Lewis), rampollo con carriera avviata d’avvocato e promesso sposo di May, membro d’una delle più facoltose famiglie della città (Winona Ryder), per la contessa Ellen Olenska (Michelle Pfeiffer), anche lei d’ottimi natali, ma con alle spalle un fallimentare matrimonio con un aristocratico europeo, scandalosamente abbandonato per rientrare negli Stati Uniti.

L’incontro con questa donna diversa, mentalmente libera costituisce per l’uomo una folgorazione. Ma il bel mondo newyorkese congiura contro la loro unione. Ed essi stessi, soprattutto Newland, hanno talmente introiettato il modello culturale cui inevitabilmente appartengono, da non riuscire in fondo a ribellarvisi davvero. Ecco la violenza, d’una legge inderogabile e costrittiva però espressa sempre nelle forme ovattate d’una squisita e ipocrita buona educazione.

Nel bel mondo del 400 di New York però, ulteriore difficoltà, non esistono regole espressamente scritte. I codici nondimeno rigidi e immodificabili, restano sottaciuti, suggeriti ma mai manifesti. Ecco perché nel film acquista un’enorme importanza l’aspetto visuale e in senso lato scenografico. Non è per puro accademismo o per un gusto della messinscena sterilmente viscontiano che Scorsese riempie le inquadrature di dettagli preziosi, tra vestiti, dipinti, ricami, broccati, stoviglie, fiori. È connaturato a quell’ambiente il mettersi in scena, senza bisogno di parole esplicite, ma attraverso gli oggetti e i modi che esprimono perfettamente una cultura di classe cui inesorabilmente attenersi.

L’Età Dell’Innocenza è costruito intorno a cerimonie di laboriosa e lambiccata ritualità, per mezzo delle quali la società rappresenta sé stessa, definendo i rigidi contorni di quel che è appropriato e di ciò che non lo è. Non è un caso che il film cominci con una sequenza a teatro, durante l’esecuzione di un’opera lirica. Da un lato Scorsese sottolinea come, più che allo spettacolo sul palco, il pubblico mostri attenzione per lo spettacolo sui palchetti, con i membri della comunità voyeristicamente impegnati a spiarsi minuziosamente l’un l’altro con l’aiuto dei binocoli, soppesando espressioni impercettibili e preziosità delle toilette.

L’opera lirica inoltre, forma d’arte rigidamente organizzata, costituisce un doppio speculare di quella enorme messinscena che è la vita della feroce casta newyorkese la quale, proprio come in un’opera, segue un copione che recita pedissequamente, preoccupatissima di non emettere mai una nota stonata. Gli arbitri dell’eleganza sono soggetti maligni come Sillerton Jackson (Alec McCowen) e Larry Lefferts (Richard E. Grant), che monitorano i comportamenti di tutti per controllarne la corrispondenza alle leggi imperscrutabili dell’ordine costituito, prontissimi a sanzionare, attraverso l’arma velenosa del pettegolezzo, le minime deviazioni alla norma. Altrettanto importanti, in quest’ottica sono i ricevimenti, in cui si manifestano gerarchie, odi, conflitti ed esclusioni, sempre attraverso quelle forme – come ribadisce la voce fuori campo, che rende esplicito ciò cui l’impaginazione visiva allude soltanto – “che costituiscono il modo con cui la vecchia New York uccide senza spargimenti di sangue”.

Il cameo di Scorsese, nella parte ovviamente d’un fotografo

Questo probabilmente ha spinto Martin Scorsese ad adattare L’Età Dell’Innocenza: ossia l’opportunità di tornare sul tema caratteristico del suo cinema – la descrizione di ambienti sociali chiusi e della fallimentare sfida del singolo alle regole della comunità –, espresso però con un linguaggio per lui inedito, nel segno del non detto e dell’introiezione invece che della crudeltà manifesta. Il che gli permette di costruire un film prettamente visivo, nel quale le parole sono elusive e deludenti, che obbliga lo spettatore, per capire cosa stia davvero accadendo, a un minuzioso esercizio di lettura degli elementi interni al quadro. Per decrittare, così si esprime la Wharton “quel mondo di geroglifici dove la verità non veniva mai detta, né messa in pratica, e nemmeno pensata, ma solo rappresentata da un sistema di segni arbitrari”.

Dall’altro, la compressione del sentimento di Newland ed Ellen, impossibilitati a manifestare ciò che provano l’uno per l’altra in una realtà asfissiante, costituisce il presupposto ideale per dar vita a un grande melodramma sull’amore negato, che offre a Scorsese l’opportunità di muoversi su una tastiera per lui poco usuale, giocata sulla malinconia, il ripiegamento emotivo, il rimpianto e, come magnificamente ricapitola il finale del film, il dolore del tempo che passa e della vita sprecata.