Mimosa Campironi in scena con Madame Tosca, una vacanza intelligente nel Pop

L'opera originale dell'attrice di teatro, autrice, compositrice e cantautrice vedrà la prima il 29 luglio al teatro allo Sferisterio


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L’arte, quando è arte davvero, si permette delle libertà che altrimenti la realtà non prevederebbe.

Dico un’ovvietà, lo so, ma a volte è bene partire proprio dall’ovvio per provare a sviluppare un ragionamento che ci porti altrove. Farlo così, direttamente mentre si sta cadendo giù da un burrone, non lascerebbe i presupposti per un viaggio di quelli che uno smania per farli.

Per dire, abbiamo tutti riso con quanti, facendo proprie le istanze proposte da Alberto Sordi nella nota scena del film Le Vacanze Intelligenti, nel quale sua moglie, interpretata magistralmente dall’attrice Anna Longhi, in visita alla Biennale di Venezia viene confusa per un’opera d’arte contemporanea mentre se ne sta seduta in maniera sguaiata e stanca su una poltroncina del museo.

Un modo tranchant per dire che, in quell’ambito, vale tutto, e tutto è talmente incomprensibile (e anche, non detto, brutto) da poter essere confuso con l’arte. Avete presente, no, “questo lo sapevo fare anche io!”, in genere detto da gente che però non l’ha fatto, né mai lo farà.

Non è invece una scena di un film la recente opera d’arte di Maurizio Cattelan, una banana appesa a una parete con del comune scotch da imballaggio, esposta presso l’Art Basel di Miami Beach, presso la galleria Petrosin, opera d’arte intitolata Comedian. Opera d’arte che voleva in qualche modo evidenziare, immagino, la vacuità di certa arte, e anche la sua caducità, l’opera d’arte era infatti destinata a marcire, decomporsi, scomparire, il tempo avrebbe fatto il suo dovere vanificando, forse, i 120mila dollari sborsati per entrarne in possesso da un collezionista, non fosse che un altro artista, David Datuna, dando vita alla performance Hungry Artist, se l’è letteralmente mangiata, non prima di averla staccata dal muro. Missione compiuta verrebbe da dire, in entrambi i casi.

Citare gli schizzi di vernice di Pollock, quelli esplosi dalle latte di vernice cui Burroughs ha sparato, il taglio su tela di Fontana, la merda d’artista di Manzoni e via discorrendo aprirebbe un filone probabilmente senza fine, tutto comunque concentrato sul fatto che, ripeto, l’arte si può permettere delle libertà spesso negate alla realtà. Libertà che, per chi non è in grado o ha la volontà di decodificarla, può anche apparire sfottò, paradossi, sonore prese per il culo. Succede anche nei film, ovviamente, come nella letteratura.

Nessuno obbliga un narratore alla coerenza narrativa, o alla fattibilità di quello che scrive, la fantascienza, il fantasy o anche solo certi libri distopici, per dire, non sarebbero mai esistiti se qualcuno si fosse preso la briga di aderire pedissequamente al reale o anche solo al verosimile. Come diceva Stefano Benni anni fa, il bello dello scrivere libri è che uno può dire “ecco settecento elefanti che entrano in scena” e i settecento elefanti, in effetti, entrano in scena, fatto, a esempio, un po’ più complicato per quel che riguarda il cinema, seppure gli effetti speciali utilizzabili oggi hanno fatto incredibili passi avanti, per non dire della realtà.

Sembra che su questo principio si siano buttati anima e corpo quelli che scrivono le serie Tv, perché sono anni, ormai, che le trame seguono percorsi logici non ancora decodificati su questo pianeta, magari giocando sugli effetti speciali, sulla fascinazione che certi personaggi riscuotono sugli spettatori, ma comunque forzando continuamente la mano allo spettatore, spettatore che grazie a piattaforme quali Netflix e Amazon Prime riesce a immergersi nelle stagioni esattamente come farebbe con le pagine di un libro, altro aspetto un tempo impensabile, ti saluto palinsesto. Non credo servano esempi, ognuno ne avrà di suoi, ma io, personalmente, non riesco a staccare gli occhi dallo schermo, quando mi imbatto in un America Horror Story, un The Boys, un The Umbrella Academy, un Sense8, e non certo per la coerenza narrativa delle trame, altrimenti, mi sposto al cinema, un autore come David Lynch a quest’ora ce lo saremmo giusto sognati una notte dopo aver mangiato pesante.

Poi, è chiaro, anche l’arte segue delle regole, dei canoni, dei generi dentro i quali gli artisti decidono, più o meno consapevolmente, di muoversi, ma anche lì, non è detto che tutti siano poi così radicali nell’aderire o meno a queste regole.

Esistono delle prassi frutto di elaborazioni precedentemente fatte da altri, spesso figlie di passaggi logici stringenti, certi colori accostati vicini danno un determinato effetto, gradevole, appassionante, sgradevole, refrattario, e lo stesso succede per certi accostamenti di parole, la grammatica e la sintassi, nella linguistica, come la fonetica, esattamente come l’armonia e la dinamica, nella musica, si basano a loro volta su leggi scritte e codificate da altri, non è che uno le scale se le inventa, per dire, sono lì, ce ne sono centinaia di tipi diversi, ma quelle sono.

Poi ci possono essere quelli che decidono di fare qualcosa che nega quelle regole, la dodecafonia per dire, metteva insieme tutti i dodici semitoni della scala cromatica (le note non sono sette, come si tende a dire, bensì dodici, mettendoci appunto i semitoni, almeno guardando a quanto teorizzato da Guido d’Arezzo), in qualche modo sovvertendo quello che fino a quel momento era stata la costante, il rapporto armonico tra tonica e dominante, con le relative dinamiche ritmiche e altrettanto relative sottolineature melodiche. Una nuova strada, aperta dall’avventuriero Schönberg, sorta di Amundsen della composizione, in precedenza intuita da Hauer, che ben presto diventerà a sua volta canone, metabolizzata e codificata esattamente come tutta la musica composta in precedenza.

Per non dire del jazz, dove quello delle grandi orchestre è stato prima ribaltato dal Be Bop e in seguito fatto brillare definitivamente dal Free Jazz, nel primo caso imponendo altre regole, meno strette, nel secondo provando a imporre un’idea musicale di anarchia utopica.

Volessimo parafrasare la nota scena di Sordi e la Longhi cui si faceva riferimento prima, quella della Biennale di Venezia, verrebbe da dire che, di fronte a certe opere di musica classica contemporanea, o a certo jazz in molti avranno storto il naso dicendo, “beh, ma questo lo sapevo fare pure io”, esattamente come è capitato di fronte alla banana appesa al muro di Cattelan o al taglio della tela di Fontana. Pensate solo al famoso e iconico 4:33 di John Cage, erroneamente confusi con 4:33 di silenzio, in realtà ispirati alle tele bianche di Robert Rauschenberg, qualcosa che passa dalla teoria musicale alla filosofia. Quanti, sentendone parlare, avranno pensato il già citato “questo avrei potuto farlo io!”. Grazie al cazzo. Lo ha già fatto Cage.

La musica leggera, però, diciamo quella che si può serenamente ascrivere dentro i confini del pop (e del rock, che del pop, volendo è parte), per sua natura non vuole uscire dai canoni, apparire ostica, spiazzare, quanto piuttosto rientrare a pieno regime nel familiare, nel rassicurante, nel conosciuto, non a caso spesso gioca su suoni e giri già presenti in altre canzoni, con un rimando che non è quasi mai omaggio, quanto piuttosto scorciatoia.

Certo, insegue una buona dose di originalità, di tocco personale, non è solo rincorsa alle mode, ma anche lancio di mode, ma pur sempre rimanendo nel campo dei riconoscibile, del codificato, del sicuro. Se ci sono commistioni in generi o sottogeneri, quindi, sono sempre commistioni che rispettino quelle regole, un giro di blues resta un giro di blues, un sette ottavi rimane un sette ottavi. Anche lo stesso punk, che in qualche modo ambiva a scardinare certe roccaforti, si è sin da subito, parlo di musica, dotato di una propria grammatica, certo sghemba, certo sporca, ma pur sempre facilmente riconoscibile, a suo modo rassicurante.

Chiaramente la genialità di alcuni artisti, nell’arte e nell’arte che si affaccia al mercato, ambendo quindi a divenire pop, sta nel rovesciare quei canoni e farne a loro volta opere d’arte uniche, si pensi alla serialità di un Andy Warhol, per dire, o al Prince che si femminilizza vocalmente cantando Kiss, un funkettone jamesbrowniano, quanto di più maschile e sessualizzato esistesse nella black music negli anni Ottanta, con Wendy Melvoin a indossare, scarsamente da un punto di vista quantitativo, le vesti solitamente a appannaggio dell’uomo, lì a suonare la chitarra elettrica.

Oggi, ahinoi, sempre più spesso l’assenza di idee artistiche spinge i sedicenti artisti a puntare tutto, quando riescono, su trovate a effetto, che si tratti di look o messe in scena come l’Achille Lauro, per altro sotto pesante cura dell’art director Alessandro di Gucci, o uno di quei tanti cantantucoli trap che non hanno meglio che veicolare le proprie canzoni a suon di bling bling, culi in tanga e mazzette di euro usate come fossero ventagli. Intendiamoci, non che io sia dell’idea che lavorare sull’iconografia o iconicità che dir si voglia sia sbagliato, tutt’altro, sono altri i critici che ritengono ci sia una netta distinzione tra chi insegue una poetica e chi, nel lavorare alla forma canzone, insegue anche una propria estetica non musicale, lavorando appunto sull’icona. Il problema, sempre che di problema si possa parlare in questo contesto, è quando manca totalmente la sostanza e rimane solo la forma, perché seppur ritenendo che la forma è sostanza è evidente che io altresì ritenga che la forma è forma sensata solo nel momento in cui si fa medium di un messaggio, altrimenti è solo esteriorità, nello specifico anche forma di merda.

Come dicevo, esistono artisti che riescono a essere tali, artisti, e al tempo stesso divenire fruibili, pop. È il caso di Mimosa Campironi, attrice di teatro e cinema, autrice, compositrice, cantautrice, in arte semplicemente Mimosa, baciata già all’anagrafe da un tocco di originalità. In questi giorni di post-pandemia Mimosa, due album spettacolari alle spalle, La terza guerra mondiale, con il quale si è presentata al mondo, in maniera quantomai originale e personale, e poi Hurrah, sorta di versione fluo di quello che il girl power da sempre tende a voler essere, una scrittura che percorre sentire non battuti, ma lo fa con spensieratezza apparente, con passo lieve e naturale di chi sa come ci si muove in ogni contesto, anche quello selvaggio, si presenta in scena con un’opera originale che vedrà la prima allo Sferisterio il 29 luglio, in compagnia dell’attrice Laura Morante. Il titolo dell’opera, inedita, è Madame Tosca, e ovviamente è dall’opera di Puccini che muove i passi, trae ispirazione, succhia linfa vitale. Per la regia di Paolo Solari, Madame Tosca, è un monologo in musica, classificata come composizione classica contemporanea, classificata come opera, sottogenere “melologo”, un testo che però non parla della Tosca, ovviamente, l’arte non necessita di essere didascalica. Un modo per esserci in un’estate fatta più che altro di assenze, o di presenze spettrali, a parte gli zombie che vorrebbero ucciderci ma che noi, sapientemente, uccideremo piantando loro in testa un colpo ben assestato di scimitarra. Ecco, Mimosa è quella scimitarra, o lo è la sua musica, la tipa superfiga che in The Walking Dead sa sempre come muoversi, che gesti fare, come salvarti la vita. Fermi tutti, lo so che dire superfiga viola tutti i protocolli del politicamente corretto. Ma di muovermi o anche stare immobile dentro quei protocolli nulla mi interessa, e immagino nulla interesserebbe neanche a Mimosa, artista libera, aliena, spaziale. Una capace di far scomparire dal palco, col solo suonare il pianoforte la blasonata attrice incaricata di leggere le sue parole, se non è una superfiga con scimitarra che ci difende da chi vuole toglierci la libertà lei non saprei proprio chi potrebbe esserlo. 

L’arte, quando è arte davvero, si permette delle libertà che altrimenti la realtà non prevederebbe, dovrei a questo punto scrivere, per chiudere il cerchio che ho cominciato a disegnare su un foglio qualcosa come millenovecentodieci parole fa. Ma si fotta la circolarità. Io tifo per Mimosa, una vera vacanza intelligente dentro il mondo del pop.