Alì, Will Smith si trasforma in Muhammad Ali, icona del Novecento

Alle 21 su Iris c’è il biopic di Michael Mann, dedicato agli anni decisivi tra il 1964 e 1974. Ci sono i duelli sul ring con Liston, Frazer, Foreman. E quelli fuori dal quadrato, col mondo in subbuglio degli anni Sessanta tra Malcolm X e Vietnam. Will Smith è magnetico

Muhammad Ali

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Il prologo di Alì, il biopic che racconta gli anni dal 1964 al ’74 del campione dei pesi massimi Muhammad Ali, è un momento altissimo del cinema di Michael Mann, capace di compattare in pochi minuti tutti i temi che attraversano il racconto. La voce del grande cantante soul Sam Cooke (David Elliott), in concerto dal vivo, fa da tappeto sonoro alle immagini di un giovane boxeur ventiduenne, che allora si chiamava Cassius Clay, mentre si allena alla vigilia dell’incontro col campione Sonny Liston, che vediamo subito abbattere sul ring un avversario e minacciare Clay di sculacciarlo come un padre col proprio figlio.

Poi scorrono, sempre snodandosi in un montaggio morbido e senza fratture, flash dell’infanzia di Cassius. Vede il padre dipingere un Cristo con una veste bianchissima e osserva sull’autobus la prima pagina di un quotidiano con la raccapricciante immagine di Emmett Till, un ragazzo afroamericano barbaramente ucciso in Mississippi nel 1955. Poi si torna all’oggi, alle parole non concilianti del leader politico di fede musulmana Malcolm X (Mario Van Peebles), “Noi non vi insegniamo a porgere l’altra guancia” e alla palestra dove compare l’ispirato e tormentato cornerman di Clay, Drew “Bundini” Brown (Jamie Foxx). Fino a tornare circolarmente all’inizio, con di nuovo Sam Cooke che canta trascinando la folla.

Ma l’esaltazione del pubblico al concerto è effimera. Perché come suggerisce senza dirlo esplicitamente il prologo di Alì, nonostante le trascinanti vittorie di un campione di talento cristallino, sensibilità politica e tendenza esibizionista a trasformare ogni attimo della vita in un ring, quella di Cassius Clay divenuto Muhammad Ali e degli anni esaltanti ma controversi dell’America degli anni Sessanta, è una storia di lutti e sconfitte. Fuori campo verrà ucciso lo scintillante, soffice Sam Cooke, in circostanze mai chiarite su cui pesa probabilmente il suo essere una star di colore. Mentre in primissimo piano morirà Malcom X – così importante per la conversione all’Islam di Alì –, assassinato per ragioni oscure che forse solo dopo decenni cominciano a essere rivelate.

Per questo aveva ragione l’influente critico Roger Ebert quando, recensendo il film, diceva che Alì di Michael Mann più che una celebrazione sembra un elogio funebre. Will Smith rende alla perfezione il personaggio, andando ben oltre la semplice mimesi fisica e della cadenza di quella funambolica lingua lunga che era Muhammad Ali, per aderire alla sostanza di un carattere complesso e solo apparentemente gaglioffo e spavaldo. Quella spavalderia, appunto, è la patina scintillante sotto la quale si srotola una vicenda in cui nemmeno il destino manifesto della sua grandezza di vincente riesce a trasformare il film in una storia di successo. Nel mezzo ci sono gli anni senza combattimenti, a causa della renitenza alla leva di Muhammad Ali che si rifiuto di andare in Vietnam. Le sue dichiarazioni di allora – “Perché dovrei sparargli? Non mi hanno chiamato negro né mi hanno linciato” – sono rimaste così proverbiali e scioccanti nella storia americana da essere recentemente poste da Spike Lee all’inizio del suo ultimo film, Da 5 Bloods, riprese da un filmato d’epoca di Alì.


Muhammad Ali e Will Smith

Questo un altro degli elementi di cui il film di Michael Mann tiene consapevolmente conto. Il fatto, cioè, che quella di Muhammad Ali non è la biografia di un personaggio minore di un’epoca lontana, bensì la vita sotto i riflettori, costantemente ritratta e filmata, di una delle icone del ventesimo secolo – infatti in ogni sequenza si vede il suo fotografo di fiducia scattare immagini. Il che significa che un film come Alì non può nemmeno aspirare a dire qualcosa di nuovo, a raccontare la storia autentica e privata di un uomo che è stato sempre, integralmente e volutamente, personaggio pubblico. Il film sa di poter al massimo costituire una versione, per quanto d’autore, di una vicenda riprodotta in migliaia di foto sui rotocalchi, ripresa in tutte le salse dalle televisioni (da qui la centralità del rapporto tra Alì e l’anchorman Howard Cosell interpretato da Jon Voight) e ricostruita anche da documentari ricchi di ottimi materiali d’archivio come Quando Eravamo Re di Leon Gast.

Michael Mann non s’affanna né s’illude di accedere a qualche più profonda verità sul personaggio, né si preoccupa, pur rispettando la cronologia, di ricostruire dettagliatamente tutti i momenti salienti della vita di Muhammad Ali. Nell’economia del racconto è normale che Sam Cooke appaia a stento, una volta espletata la sua funzione simbolica e testimoniale, o che il tema della fede islamica di Alì e il suo coinvolgimento nella battaglia dei diritti civili, quasi scompaiano nella seconda metà del film. Mentre, parlando di pugilato, il racconto glissa sul secondo e terzo scontro con Joe Frazer (col quale il momento più intenso non è un combattimento, ma un dialogo in automobile quasi fraterno tra i due), e non menziona nemmeno Ken Norton, con cui Ali duellò in tre incontri. E nella parte finale c’è un salto netto, di anni, che arriva direttamente nel 1974 a Kinshasa, col celebre rumble in the jungle in cui un Alì 32enne sfida da netto sfavorito il nuovo campione George Foreman.

Ali'-Combo-(Br+Dv)"Il Collezionista"
  • Will Smith, Jamie Foxx, Jon Voight (Actors)

Alle prese con una vicenda a tutti nota, Michael Mann ne approfitta per muoversi liberamente e rapsodicamente attraverso la biografia del pugile, senza assilli di esaustività. Se il film riesce a raccontare qualcosa di autentico su Muhammad Ali non è attraverso la ricostruzione puntuale della sua vita, bensì tramite la veridicità di singoli momenti che assumono un valore paradigmatico. Da qui una straordinaria attenzione a certi dettagli, che è la strategia del film per scavare dentro e sotto le immagini pubbliche di Ali riprodotte all’infinito.

Su tutto c’è la resa filmica dei combattimenti, in cui lo spettatore è quasi gettato sul ring per cogliere la martellante, disorientante, spossante fisicità dei match. Alì è un film su un mito indiscusso, ma senza mitologia. Michael Mann segue una sua ispirazione imperscrutabile, che può risultare fredda e poco coinvolgente agli occhi del pubblico, che difficilmente griderà al capolavoro di fronte a un racconto poco emotivo e piuttosto cerebrale. Il quale, sotto la parvenza del biopic tradizionale, cela un approccio quasi teorico al racconto e all’uso delle immagini (e in un virtuoso dell’impaginazione visiva come Mann questo alla fine non sorprende).