Renato Pozzetto compie ottant’anni, una vita tra cabaret, cinema e tv

Il 14 luglio è il compleanno dell’attore nato nel 1940, alfiere d’una comicità stralunata e surreale di stampo milanese. Al cabaret e in tv ha fatto coppia fissa con Cochi Ponzoni. Al cinema, da solo, è stato uno degli interpreti di maggior successo degli anni Ottanta

Renato Pozzetto

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Per definire la comicità di Renato Pozzetto, che il 14 luglio compie 80 anni (è nato a Milano nel 1940), un ottimo punto di partenza è una delle sue gag più famose, frutto tra l’altro di una sua idea. È la sequenza di Sono Fotogenico (1980) di Dino Risi in cui il personaggio che interpreta, il sempliciotto Antonio Barozzi che sogna di sfondare nel cinema, va dal fotografo per gli scatti del portfolio. Quello gli dice di fare la faccia da arrabbiato, e poi innamorato, minaccioso, triste. E Antonio mantiene sempre esattamente lo stesso sguardo: immoto, imperscrutabile, lontanissimo.

Ecco, il segreto della comicità di Renato Pozzetto è in gran parte qui: l’aria imbambolata, la surrealtà di un personaggio che diverte perché sembra implacabilmente fuori sincrono con una realtà che non riesce a capire. Un grande ingenuo, un innocente Candido che con la sua estraneità riesce a mostrare quanto il vero paradosso non sia lui, ma tutto ciò che gli ruota intorno.

“Tu hai una di quelle facce che viste una volta non si ricordano più!”

In un altro dei suoi primi film, Oh Serafina (1976) di Alberto Lattuada, la bellissima Dalila Di Lazzaro gli chiede “Vuoi fare l’amore con me?”. Lui risponde “Non ho capito la domanda”. È il tipo di battuta che può venire in mente solo a Renato Pozzetto, che fa ridere per lo sfasamento tra mondo e personaggio. Perciò il suo volto resta impassibile. Non perché non abbia emozioni o desideri. Come tanti autentici comici, Pozzetto è un indifeso, a disagio tra le cose, troppo lento per comprenderle, troppo buono per trarne profitto. Così resta un carattere lunare, tenero, e per questo anche premoderno, tutt’altro che un animale metropolitano. Infatti risulta in parte in film come Il Ragazzo Di Campagna (1984) di Castellano e Pipolo, uno dei suoi maggiori successi, in cui è un contadino che va a Milano a cercar fortuna, restando scottato da una città tentacolare che corre troppo più veloce di lui.

Il cabaret con Cochi Ponzoni

La comicità stralunata di Renato Pozzetto però viene da lontano. Molto prima del cinema degli anni Settanta e Ottanta s’è esercitata nella dimensione del cabaret, anzi prima ancora dell’osteria, quando a Milano c’erano le osterie e i bar in cui si potevano incontrare artisti e curiosi perdigiorno. Tutta questa prima parte della carriera vissuta accanto al sodale d’una vita, Cochi Ponzoni, amici sin da ragazzini, quando le loro famiglie erano sfollate durante la guerra, quella di Pozzetto a Laveno, quella di Cochi a Gemonio.

Cochi e Renato negli anni Sessanta

Il legame tra i due si cementa nel segno della voglia di fare spettacolo, anche per reagire alla noia della scuola all’istituto Cattaneo. Così cominciano a strimpellare canzoni tra bar e osterie, il Gattullo, il Giamaica, l’Oca d’oro. Posti dove s’incrociavano artisti come Piero Manzoni, con le sue opere tra provocazione e ironia (la Merda d’Artista, il Fiato d’Artista), Lucio Fontana che con loro si divertiva moltissimo, lo scrittore irregolare, e provinciale a Milano, Luciano Bianciardi. Quella originale compagnia probabilmente stimola il repertorio di Cochi e Renato, fatto di idee da teatro dell’assurdo che si divertono a mandare a gambe all’aria il buon senso e l’ordine delle cose.

Subito dopo, intorno al ’64-’65 arriva il cabaret: il Cab 64, con un contratto capestro in cui sono pagati solo se ci sono almeno 10 spettatori a sera e poi, grazie all’incontro con Enzo Jannacci che ne è il direttore artistico, il Derby di Tiziano Bongiovanni. Il Derby è destinato a diventare il tempio della comicità milanese, dove s’esibisce una squadra di artisti che decide di chiamarsi Gruppo Motore (“per l’energia sprigionata” dice Pozzetto), con Lino Toffolo, Felice Andreasi, Bruno Lauzi. E soprattutto Jannacci, con cui Cochi e Renato scrivono a sei mani canzoni come Un Pezzo Di Pane e La Domenica, o del quale interpretano brani surreali alzando buffonescamente la gambetta e intonando A Me Mi Piace Il Mare (che Pozzetto presenta dicendo “a Genova ho incontrato un signore che con un giro di parole mi ha fatto capire che a Genova c’è il mare. Il mare l’abbiamo avuto anche a noi a Milano, tutto cosparso del suo bell’ondeggìo che esso ci ha dentro”) o l’enigmatica La Gallina (che “non è un animale / intelligente. / Lo si capisce, / lo si capisce / da come guarda la gente”).

Gli anni della televisione

Il passo successivo è la televisione, che all’altezza del 1967 ha bisogno di volti nuovi per sintonizzarsi sui giovani in tempi di fermento che sfoceranno nel movimento studentesco l’anno dopo. Notati da Enrico Vaime, Cochi e Renato sono perfetti, perché, pur non essendo la loro una comicità impegnata politicamente, è talmente fuori dai canoni da risultare moderna nel linguaggio e blandamente sovversiva nella sostanza. Il nuovo contenitore della Rai si chiama Quelli Della Domenica, in onda dal febbraio del ’68, una ventata d’aria fresca nella paludata programmazione televisiva, con tempi, ritmi e contenuti lontani dalla tradizione. Il vero mattatore è Paolo Villaggio. Il gradimento di Cochi e Renato all’inizio è più incerto, col loro repertorio di canzoni e sketch tra cui, La Scuola, che imporrà il tormentone “bene, bravo 7+”, finito su uno dei loro 45 giri (nel 1969 esce anche il primo album del duo, Una Serata Con Cochi E Renato).

Nel 1969 è la volta di È Domenica, Ma Senza Impegno, scritto da Maurizio Costanzo e Umberto Simonetta, con anche Villaggio, Jannacci, Toffolo e un programma di prosa, Riuscirà il Cav. Papà Ubu (1971), dove si misurano con un maestro dell’assuro, Alfred Jarry, adatto alle loro corde. Il successo giunge con i varietà Il Buono e Il Cattivo (1972) e Il Poeta e Il Contadino (1973), dei quali sono coautori, presentatori e mattatori, potendo creare delle trasmissioni a loro immagine e somiglianza. Soprattutto il secondo, con la sigla de La Canzone Intelligente (“Mi piacerebbe cantar / una canzone intelligente / che segua un filo logico importante / e che sia piena di bei ragionamenti / insomma una canzone intelligente / che spieghi un po’ di tutto, / e un po’ di niente”) e una comicità “lombarda” che lì per lì intimorì i dirigenti Rai e che invece andò benissimo, giocata sul contrasto di caratteri di Cochi (il poeta) e Renato (il contadino) e sul nonsense (lo sketch del contadino di Valtrompio, che quando la ricezione della radio comincia a essere disturbata, la cura con copertina e borsa d’acqua calda, mettendosi a parlare con lo speaker radiofonico).

Canzonissima, il signor Vigoroni e il signor Belle Arti

L’apoteosi giunge nel 1974, con la partecipazione all’ammiraglia Canzonissima, accanto a Raffaella Carrà – che pare non li gradisse molto, soprattutto il giovanissimo Massimo Boldi, che qualche volta li accompagnava). Cochi e Renato s’inventano un ruolo da guastatori, il signor Vigoroni e il signor Belle Arti, che vivono in una palestra con tanto di ring situata sotto il palco del teatro delle Vittorie, dalla quale s’inventano numeri strampalati. I monologhi di Pozzetto hanno una logica traballante, continuamente incespicanti, diretti verso il nulla (che, come La Canzone Intelligente, “spiegano un po’ di tutto e un po’ di niente”). Loro è anche la sigla di chiusura, il classico istantaneo E La Vita, La Vita, scritta da Jannacci e Pozzetto, che schizza in testa all’hit parade.

Renato Pozzetto gli anni del cinema

Il percorso naturale dopo osterie, cabaret, canzoni e tv, prevede a questo punto il cinema. Cosa che succede puntualmente. Renato Pozzetto il primo film lo gira contemporaneamente a Canzonissima, chiedendo il permesso a Cochi, e volando in Spagna per girare Per Amare Ofelia di Flavio Mogherini, tornando il giovedi sera a Roma per preparare gli sketch per la trasmissione. Curioso che le carriere di Cochi e Renato sul grande schermo si separino. Era arrivata qualche richiesta per un film insieme, ma il duo non le aveva trovate allettanti. E allora esordiscono divisi, Cochi nel più autoriale Cuore Di Cane (1976) di Alberto Lattuada, anche se poi la sua carriera sarà assai meno importante, e più saltuaria di quella del socio.

Com’è stato il rapporto col cinema di Renato Pozzetto? Il successo, soprattutto negli anni Ottanta, fu clamoroso. La qualità decisamente meno: e questo a dire dello stesso Pozzetto, che in tante interviste ha sottolineato che certi film avrebbe potuto risparmiarseli, vergognandosi apertamente di alcuni di essi, in particolare Le Comiche del 1990, accanto a Villaggio e diretto da Neri Parenti.

Per rispondere alla domanda torna utile ancora Sono Fotogenico. Che è l’ultimo film importante, e malevolo, di Dino Risi, uno dei maestri della commedia all’italiana. È una storia piena di amarezza, in cui l’insuccesso del povero Antonio Barozzi è lo specchio di una fabbrica dei sogni di cartapesta, abitata da un sottobosco di cialtroni, in cui anche i senatori Gassman o Tognazzi, in piccoli cameo, “recitano sé stessi con autolesionismo”, per dirla con Paolo Mereghetti.

Sono Fotogenico, insomma, ha il sapore di un racconto terminale, pietra tombale (al pari di altri film di quel giro d’anni, Un Borghese Piccolo Piccolo, I Nuovi Mostri, La Terrazza) della commedia degli anni d’oro. Quella disillusione d’autore è lo specchio di una crisi industriale. Perché dopo la storica sentenza della Corte Costituzionale del 1976, che dichiarò legittime le emittenti locali, nacquero tantissimi nuovi canali televisivi accanto alla Rai. Il cinema perse rapidamente terreno, passando da una produzione media ben oltre i duecento film all’anno fino alla metà dei Settanta ai 143 del 1978, finendo addirittura sotto cifra 100 a metà anni Ottanta. E se nel 1975 i biglietti venduti erano 514 milioni, nel 1985 saranno 123.

Ciò vuol dire che Renato Pozzetto esordisce in un cinema che offre molte meno opportunità, con un’industria che tende a puntare su pochi generi e progetti sicuri, rischiando pochissimo. Fortunatamente per lui ha il tempo di lavorare con registi importanti della generazione precedente, alle loro ultime prove, portando in dote il suo personaggio ancora nuovo e fresco, che, come disse Monicelli, “ha qualcosa di surreale, di astratto, di stralunato, però su basi molto realistiche, persino dialettali”.

Così giungono Per Amare Ofelia, dove è un pubblicitario che entra in crisi quando s’innamora d’una prostituta, in cui innesta la sua comicità “lombarda” e fuori dai canoni (Pozzetto vinse il Nastro d’Argento come miglior attore esordiente); La Poliziotta (1974) di Steno, in cui è il fidanzato che non tiene a freno la voglia d’indipendenza di Mariangela Melato, che entra in polizia; Oh Serafina!, in cui è un industriale amante della natura e sognatore, tradito dalla moglie e spedito in manicomio; Gran Bollito (1977) di Mauro Bolognini, accanto ai mostri sacri Shelley Winters e Max Von Sydow, favola nera e grottesca ispirata alla storia della saponificatrice Cianciulli, in cui Pozzetto interpreta una donna.

Pozzetto al femminile in Gran Bollito

Renato Pozzetto nei primi anni mostra una certa cura nelle scelte, esordendo accanto ad Achille Manzotti anche come produttore, del primo film di Carlo Vanzina, Luna Di Miele In Tre. È un attore meticoloso, ricordava Bruno Corbucci: “Una persona creativa al massimo, le battute se le trova da solo. Prima, insieme, si discute il soggetto. Quando l’ha approvato ci vuole rivedere a sceneggiatura fatta per mettere a punto certe sue necessità di comicità. Sul set gli vengono ancora altre idee”. È una qualità sottolineata anche da Carlo Vanzina: “Il suo apporto sul dialogo è enorme perché è uno spiritoso, uno che bisogna lasciare a briglia sciolta per permettergli di sentirsi a suo agio e di inventare”.

La curiosità verso il cinema lo porta dietro la macchina da presa, per tentativi se non felicissimi, almeno curiosi: un episodio di Io Tigro, Tu Tigri, Egli Tigra (1978), dove ritrova Cochi, dando fondo a gag surreali sul piano visivo (la porta di un’osteria si apre e dietro c’è lo stadio San Siro tutto esaurito per Inter-Milan); e Saxophone (1978), in cui, protagonisti Pozzetto e la Melato, si ricrea quell’ambiente da Derby con tutti i cabarettisti dell’epoca, Cochi, Andreasi, Boldi, Teocoli, un giovanissimo Abatantuono.

C’è ancora il tempo, nella coda degli anni Settanta per altri titoli di qualche valore. Il grande successo di Sturmtruppen (1976) di un regista ormai dimenticato come Salvatore Samperi, in cui, partendo dalle strisce di Bonvi, Cochi, Renato e la solita banda di cabarettisti realizzano un film inclassificabile, senza trama, velleitario ma pieno di idee e con una satira a tratti sulfurea. E, nel 1979, La Patata Bollente di Steno, primo film comico sull’omosessualità né ridicolizzante né macchiettistico, in cui l’operaio Gandhi macho e comunista (Pozzetto), con fidanzata adeguata (Edwige Fenech), salva Claudio (Massimo Ranieri) dai fascisti che lo stanno picchiando, e quando scopre che è gay resta frastornato, ma anche attratto, dalla situazione (un ruolo esilarante in cui Pozzetto funziona benissimo).

La Patata Bollente, la discussione “in sede politica”

Sebbene fortunati al botteghino, gli anni Ottanta, sono decisamente meno felici. Un po’ dipende dalla sua maschera: come capita a certi comici naturali, più che interpretare Pozzetto porta sé stesso sullo schermo, a suo agio con caratteri costruiti su misura, ma inadatto a calarsi in un vero personaggio. Così, anche per la fase industriale critica in cui i produttori certo erano poco inclini a sperimentare, Renato Pozzetto è finito in una serie di film senza estro. Sono quasi tutte commedie esili e ripetitive, sia quelle in cui è protagonista assoluto (Nessuno È Perfetto, Mia Moglie È Una Strega, La Casa Stregata, È Arrivato Mio Fratello), sia quelle in cui è posto accanto ad attori anche diversissimi.

E se funziona l’accoppiata con Adriano Celentano (in Ecco Noi Per Esempio, 1977; Lui È Peggio Di Me, 1985), un cantattore che, al suo meglio, tende decisamente all’assurdo, non può dirsi lo stesso per i film accanto a Tomas Milian in versione para-Monnezza (Uno Contro L’Altro, Praticamente Amici, 1981), l’ambizioso Porca Vacca con Aldo Maccione di Pasquale Festa Campanile (stroncatissima commedia esemplata su La Grande Guerra, addirittura); 7 Chili In 7 Giorni (1986) con Carlo Verdone, Noi Uomini Duri (1987) e Piedipiatti (1991) con Enrico Montesano, il tremendo Ricky & Barabba (1992) accanto a Christian De Sica (con volgarità da cinepanettone che non sono nelle corde di Pozzetto).

Il Ragazzo Di Campagna, il contadino a Milano

Anche i film d’ispirazione lombarda, e dalla morale consolatoria, come Un Povero Ricco (1983) e Il Ragazzo Di Campagna (1984), non vanno molto meglio. E per chi rimpiangesse soprattutto quest’ultimo, diventato col tempo un cult movie, valgano le parole dello stesso Pozzetto: “Un film fatto un po’ sotto gamba, tagliavano via di brutto Castellano e Pipolo”. Più interessanti quei casi nei quali il personaggio mantiene qualcosa in comune con l’attore: Da Grande (1987) di Franco Amurri, in cui la storia del bambino che si ritrova improvvisamente adulto svela la natura infantile della comicità di Pozzetto; o Burro di José Maria Sanchez, scritto da Tonino Guerra e quindi con eccessi poetici, ma giusto per l’attore, nel ruolo d’un ragazzone malcresciuto e con fissazioni amorose ingenue e impossibili.

Sarà anche per questo che Renato Pozzetto ha progressivamente diradato la sua presenza dopo l’inflazione degli anni Ottanta (25 film), fermandosi per un decennio buono dopo il 1996. All’inizio del nuovo millennio è tornato all’antico amore e al vecchio sodale Cochi Ponzoni, riprendendo la via del teatro e del cabaret, ritrovando anche la tv, nel 2007, per Stiamo Lavorando Per Noi (2007), un programma nuovamente tutto loro, e poche altre cose, fatte con parsimonia, tra cui anche un tentativo di ritorno alla regia, Un Amore Su Misura (2007) in cui getta scopertamente un sguardo senile, e sorpassato, sul mondo prossimo venturo.

Renato Pozzetto resta l’alfiere più importante di uno stile comico gentile e sottotraccia, decisamente minoritario nella tradizione italiana, e uno dei rappresentanti di una generazione di mezzo storicamente non fortunatissima, maturata nel bel mezzo della crisi del cinema e schiacciata tra i senatori della commedia e la stagione dei nuovi comici Verdone, Benigni, Troisi, tutti nati oltre un decennio dopo di lui. Il che conduce a un bilancio con qualche rammarico, per certe occasioni che in parte non ha saputo e in parte non ha potuto oggettivamente cogliere.

Cochi e Renato interpretano E La Vita, La Vita nel tributo a Jannacci