The Residents che coverizzano Dyin’ Dog sono un modo selvaggio e ruvido per metterci faccia a faccia con l’essenza del vivere

Con le sue scelte discografiche e non, la band conferma di non essere normale e continua ad essere circondata da una spessa coltre di mistero


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Leggo la storia dei Residents che decidono di omaggiare il bluesman della Louisiana Alvin Snow, noto, poco, col nome d’arte Dyin’ Dog. Lui, Alvin Snow, sarebbe un bluesman afroamericano e albino che, dopo aver inciso alcuni brani sulla scia del suo idolo Howlin’ Wolf, nel 1976 decide di scomparire, o forse muore, vallo a sapere. Di lui non si sa nulla. Solo mezze notizie. Poche foto, tutte piuttosto ritoccate. Si parla di una vita di vizi, di come si facesse mantenere da signore facoltose del Sud, e questo è perfettamente in linea con l’aura da bluesman maledetto. Tutto molto canonico.

I Residents, che non sono esattamente una band normale, prima lo omaggiano con una raccolta di singoli, The Residents Present Alvin Snow, Aka Dyin’ Dog, questo l’anno scorso, nel 2019 mentre scrivo, e a breve torneranno in scena, si fa per dire, con un doppio album dal titolo Metal, Meat & Bones: The Songs of Dyin’ Dog, album che raccoglie sia le registrazioni originali di Snow, un albino che si chiama neve, guarda te, sia le cover dei suoi brani eseguite dalla band. Band che, seppur storicamente di base nella Bay Area di San Francisco, per questa specifica occasione dichiara di essere a sua volta originaria della Lousiana. È noto, infatti, che The Residents è band da sempre circondata da una spessa coltre di mistero, nessuno conosce i nomi di chi ne fa parte, eccezion fatta per Hardy Fox, da poco scomparso, nessuno conosce le loro facce, niente di niente.

Una cosa però si sa, o almeno, appare abbastanza probabile, Alvin Snow, Aka Dyin’ Dog, in realtà, non è mai esistito.

Se, cioè, si poteva ipotizzare il fatto di trovarsi di fronte a un nuovo caso Sixto Rodriguez, il cantautore americano divenuto popolarissimo grazie al film Searchin’ for Sugar Man, del regista svedese Malik Bendjelloui, tutti conoscete la storia di questo artista divenuto a sua insaputa popolarissimo in Sud Africa essendo divenuto colonna sonora della lotta all’apartheid, questo mentre lui si ritirava a vita privata, andando a fare l’operaio metalmeccanico, salvo poi tornare appunto alla ribalta grazie al film, troppi indizi lasciano pensare che abbiamo per le mani altra faccenda, assai meno edificante (sempre che non si sia tra quanti ritengono la finzione assai più interessante della realtà, e chi scrive è tra questi).

Si tratta, quindi, o meglio, si tratterebbe, di una operazione inventata da quell’accolita di geni americani che rispondo al nome dei The Residents, qualcosa che, discograficamente, ci porta dalle parti del mockumentary, genere narrativo che fonde insieme la parola mock, finto, con quella documentary, documentario.

In un passato anche piuttosto recente ho parlato degli Spinal Tap, finta band heavy metal cui è stato dedicato il film di Rob Reiner This is Spinal Tap, un documentario che racconta, appunto, una storia di finzione. Ma se lì gli Spina Tap, band heavy anni Ottanta, con pantacollant, canotte, capelli cotonati e tutto il corollario tipico del genere, si dimostrarono un colpo di genio di sceneggiatori e regista, un colpo di genio che aprirà un vero e proprio filone hollywoodiano, su tutti l’esempio più noto è The Blair Witch Project, qui siamo addirittura oltre, perché nel decidere di raccontare la storia, di finzione, del bluesman Alvin Snow, la band che abbiamo imparato a vedere rappresentata con maschere mostruose, cilindri e bastoni, si lancia in un doppio binario, creando un repertorio posticcio, credibile, certo, rozzo come il blues anni Settanta di un fan dichiarato di Howlin’ Wolf non potrebbe che essere, ma al tempo stesso procede anche in una rilettura di quel repertorio, con la tipica cifra residentsiana, sempre che si possa parlare di una sola cifra nel caso di una delle band più geniali, iconoclasta e massimaliste del panorama mondiale, e al tempo stesso con un tratto filologico che, complice il momento storico che stiamo vivendo, si fa quasi profetico.

Ora, lo so, parlare di profezia nel raccontare di qualcosa che è stato fatto oggi e che l’oggi racconta, seppur attraverso la lente magica della finzione e di quel recupero che l’operazione Dyin’ Dog prevede, fa sorridere, perché è evidente che chi ci descrive la contemporaneità non ha bisogno di divinazioni, al limite necessita di buone capacità interpretative e di decodifica dell’attualità, ma il piano metaforico che una doppia lettura di brani grezzi, radicali, selvaggi, sia nella versione “originale” che in quella “rivisitata”, entrambe evidentemente a marchio The Residents, è qualcosa di sorprendente proprio perché il non dover aderire perfettamente alla realtà lascia ampio spazio a una visione.

In letteratura siamo stati abituati sin dai classici a libri ritrovati che in realtà non erano tali, si pensi a Robinson Crusoé di Daniel Defoe, al Necronomicon dei H.P. Lovecraft passando per i Promessi Sposi di Manzoni, ancora di più è presente l’escamotage, mi si perdoni un termine probabilmente improprio, di chi infila un romanzo in un romanzo, o un racconto in un racconto (va beh, gli incroci li avete a disposizione, incrociate da voi le parole), in questo caso gli esempi sono troppi, ma citare Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino, immagino, può aiutare, aiutare voi, ma aiutare anche me, perché Calvino è Calvino, e siccome credo di essere il solo essere umano che scrive in lingua italiana a non aver mai citato, neanche per sbaglio, le Lezioni americane, specie quella sulla leggerezza, credo questa potrebbe essere un’ottima occasione per colmare una lacuna.

Quelli che hanno studiato, in genere, parlano di metanarrazione, declinabile in metaromanzo o metaracconto, ma qui finiremmo davvero in un territorio troppo complesso e anche complicato da essere sviscerato in poche righe dentro un articolo che parla, per altro, di un album di prossima uscita. In musica, ovviamente, le possibilità di affidare il racconto a una vera e propria narrazione è in qualche modo precluso, perché trama e svolgimento sono affidati quasi esclusivamente alle canzoni, all’apparato iconografico e a quanto poi viene fatto circolare a livello di comunicazione, nel caso dei Residents, sempre per rimanere concreti, quasi nulla. Ma come le Variazioni Goldberg di Bach dimostrano, la sola musica può, talento e capacità interpretative permettendo, in questo Glenn Gould ci ha dato una mano, dirci tutto quel che c’è da dire (e quando Raymond Queneau farà le sue Lezioni di stile è alla musica di Bach che si ispirerà, non fosse altro perché Bach è vissuto due secoli prima).

Ecco, The Residents che coverizzano l’inesistente Dyin’ Dog sono le Variazioni Goldberg dell’era pandemica, un modo selvaggio e ruvido per metterci faccia a faccia con l’essenza del vivere e con l’effimera volubilità dell’apparire.