Il 7 luglio 2006 la morte di Syd Barrett arrivò come un destino già scritto, tristemente prevedibile. Diamante pazzo era l’ossimoro acido che i suoi vecchi compagni di banda gli avevano attribuito per dargli quella carezza infinita. Lo avevano visto l’ultima volta il 5 luglio 1975 agli Abbey Road Studios durante le sessioni di Wish You Were Here, tra i migliori album consigliati da Optimagazine. Si era presentato come un fantasma distorto e irriconoscibile e Richard Wright e Roger Waters avevano fatto fatica a riconoscerlo.
Pranzò con i suoi vecchi amici un’ultima volta e se ne andò senza dire nulla. I Pink Floyd erano una sua creatura, il figlio ribelle di un padre altrettanto sfuggente. Da quando David Gilmour fece il suo ingresso nella band, ingaggiato come semplice solista, Syd Barrett capì che quel capitolo stava per chiudersi.
Il 18 marzo 1968 tutto era cambiato: Barrett era una mina vagante e la band si era stancata dei suoi blackout. Per questo sul palco del Middle Earth di Richmond Syd non vi salì: al suo posto c’era Gilmour e Barrett, incapace di credervi, trascorse l’intero concerto tra il pubblico a fissare Gilmour negli occhi.
Il 6 aprile lasciò i Pink Floyd. Lasciò tutto, rinunciò a tutto e tornò a Cambridge da sua madre, dove cominciò a dipingere. Tentò la carriera solista con due dischi pubblicati nel 1970 – The Madcap Laughs e Barrett – ma anche alla sua musica rinunciò.
Trascorse il resto della sua vita lontano dai riflettori, nel silenzio più totale. Lui, il ragazzo bello e dannato, il genio e il folle che aveva dato vita a una delle band più rivoluzionarie del Novecento. Il 7 luglio 2006 perse per sempre la sua battaglia contro un tumore al pancreas.
Si spense nella sua casa a Cambridge. La morte di Syd Barrett arrivò così, nel silenzio e nel rumore: il primo era fatto di solitudine, il secondo esiste ancora.