Philadelphia, il film sull’Aids è un mirabile saggio sulla malattia del pregiudizio

Stasera su La7 alle 21.15 c’è uno dei film più belli di Jonathan Demme, autore di cui ormai si parla troppo poco. Un racconto rigoroso e commovente, con due interpreti, Tom Hanks e Denzel Washington, al loro meglio

Philadelphia

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Prima di Philadelphia, pochi film avevano parlato di Aids nel cinema americano. C’era stato Una Gelata Precoce, un tv movie nel 1985, non disprezzabile, che fece scalpore e incetta di premi. E poi un piccolo film indipendente del 1990, Che Mi Dici Di Willy? Perciò, quando Jonathan Demme, reduce dal successo de Il Silenzio Degli Innocenti, decise che il suo film successivo sarebbe stato sul tema dell’Aids, non si può dire che la notizia venisse accolta con giubilo dai produttori hollywoodiani. I quali si resero conto che la presunta nuova gallina dalle uova d’oro sarebbe restato quello che era sempre stato, un cineasta d’indole indipendente, cresciuto alla scuola di Roger Corman e fedele alla sua autonomia.

I produttori in verità ebbero ben poco di che lamentarsi. Costato 26 milioni di dollari, Philadelphia ne incassò globalmente oltre duecento, portando a casa anche due premi Oscar, quello per la miglior canzone, Streets of Philadelphia di Bruce Springsteen (bisognerebbe aprire un capitolo a parte sul rapporto viscerale tra Demme e la musica) e quello per il protagonista Tom Hanks, consacrato da quel ruolo come nuovo grande attore americano (l’anno successivo avrebbe vinto ancora, meritatamente, la statuetta con Forrest Gump).

Contrariamente alle attese, Philadelphia non subì neanche attacchi particolari, che se giunsero non vennero dalle lobby reazionarie, come previsto, bensì dalla comunità omosessuale, che avrebbe desiderato un film più apertamente militante (per Demme le contestazioni non erano una novità, due anni prima con Il Silenzio Degli Innocenti aveva subito sia quelle delle femministe, che trovarono il film sessista, che degli attivisti gay, i quali denunciarono l’omofobia insita a loro dire nel personaggio del serial killer Buffalo Bill).

Il videoclip, diretto da Demme, di Streets Of Philadelphia

Philadelphia, è vero, non è un film militante. Non lo è, però, non perché Jonathan Demme avesse scelto di smussare i toni strumentalmente, per risparmiarsi polemiche, ma perché il film rispondeva a un’esigenza diversa. Consapevole di star facendo il primo film mainstream sull’Aids, il regista capì di dover mantenere un tono quasi didattico, per parlare all’opinione pubblica di un argomento sul quale la reazione abituale era quella di voltare lo sguardo da un’altra parte.

È da qui che originano scene che possono apparire didascaliche, come quella in cui l’avvocato Miller (Denzel Washington) va dal medico perché è preoccupato per la sua salute dopo aver incontrato Andrew Beckett (Hanks), un legale malato di Aids in cerca di un patrocinatore. Allora il dottore gli spiega pazientemente che non basta stringere una mano per contrarre la malattia: e queste cose le dice inquadrato frontalmente, guardando in camera, facendo un ripasso necessario, all’altezza del 1993, non solo per Miller, ma per il pubblico americano e non solo.

In Philadelphia, ispirato alla storia vera di Geoffrey Bowers, Beckett è un brillantissimo giovane avvocato impiegato nel più prestigioso studio legale della “città dell’amore fraterno”. Quando però i suoi superiori, da alcune lesioni sul volto, sospettano abbia l’Aids, lo licenziano, adducendo come motivazione la grave negligenza dimostrata da Beckett in una causa importantissima. Certo del fatto che si tratti semplicemente di una scusa per coprire l’atto di discriminazione, l’avvocato vuole fare causa allo studio. Difficile però trovare un legale disposto a difenderlo.

L’arringa di Denzel Washington

Demme sceglie uno stile lineare e naturalistico, che all’apparenza può sembrare quasi impersonale, mentre invece, sia sotto il profilo del racconto che dell’impaginazione visiva, mostra scelte assai precise. La prima, fondamentale, consiste nel ribaltamento del punto di vista: Philadelphia non è tanto la storia – che pure c’è – della battaglia legale e del calvario di un omosessuale malato di Aids. Piuttosto è un film sul diffondersi della malattia del pregiudizio in una società che, per paura, emargina impietosamente il diverso. La seconda intuizione è che a incarnare questo modello culturale regressivo non è il solito Wasp ma il nero Miller. Obbligato a riconoscere che i preconcetti usati per discriminare la comunità di colore cui appartiene sono esattamente gli stessi che ora lui adotta nei confronti di un’altra minoranza, quella omosessuale.

Philadelphia è strutturato come un esame di coscienza, chiarissimo nello scoperchiare le ipocrisie di un modello sociale e culturale che a parole si professa democratico e inclusivo. E lo spiega in modo piano, quasi pedante, come se lo spettatore “fosse un bambino di sei anni” – un modo di dire che l’avvocato Miller usa ripetutamente in tribunale. Demme usa perciò uno stile che rilancia sui personaggi delle questioni di etica e giustizia di fronte alle quali nessuno può reagire sostenendo che la cosa “non lo riguardi”.

La prima volta che Miller incontra Beckett, quando questi gli chiede se voglia patrocinare il suo caso, l’avvocato dice di rinunciare per “ragioni personali”. Volta lo sguardo dall’altra parte. Poi lo incrocia casualmente in biblioteca: un commesso cui Beckett ha chiesto un volume con una sentenza sull’Aids gli domanda, mellifluo, se non starebbe più a suo agio in una saletta separata. A quel punto, con semplicità, la camera si avvicina al primissimo piano di Miller, che sta osservando la scena. Demme non vuole amplificare effettisticamente le emozioni in campo, intende invece chiamare in causa l’avvocato e porgli una domanda (rilanciata sullo spettatore) circa il tipo di uomo che è e che intende essere. E lui, a quel punto, sceglie di stare dalla parte di Beckett, ingaggiando un serrato confronto coi suoi, di pregiudizi.

Philadelphia
  • Attributi: DVD, Drammatico
  • Hanks/Washington (Actor)

Le inquadrature frontali e in primo piano di personaggi intenti a osservare o parlare (gli avvocati mentre fanno l’arringa davanti alla corte, per esempio) costituiscono l’asse stilistico portante di Philadelphia. Il film s’ispira a una pacata ma inderogabile etica dello sguardo, in cui la posizione della macchina da presa sottende interrogativi posti a uno spettatore che non è mai lasciato all’esterno del campo di ripresa, ma ne fa idealmente parte. Come fa parte della società e dei suoi modelli discriminatori, rispetto ai quali è chiamato a prendere posizione, perché la cosa lo riguarda eccome.

Il protagonista di Philadelphia, perciò, è Miller. Ma Demme sa raccontare anche il mondo di Beckett: la sua composita famiglia, dalla madre Joan Woodward al compagno Antonio Banderas, in cui ogni componente mostra un’indipendenza di giudizio e una sensibilità umana che sono il cemento alla base della determinazione del personaggio interpretato da Tom Hanks.

Di cui il film fotografa senza infingimenti l’enorme sofferenza in una storia adulta, che non ha nessun lieto fine con cui blandire lo spettatore. Si pensi alla celebre sequenza, l’unica che non ha un andamento realistico, in cui Beckett ascolta rapito l’aria La Mamma Morta dell’Andrea Chénier, interpretata dalla Callas. È un canto che parla di morte, sacrificio, anelito alla vita. È il momento in cui si manifesta il rovello interiore di un uomo chiuso in un senso di disperazione e solitudine integrali. Una soglia che resta interdetta tanto a Miller quanto al cinema di Demme, che la inquadra rispettosamente, senza illudersi di poter spiegare l’enigma del dolore di un essere umano.