Homemade, su Netflix i registi raccontano il lockdown, da Larraín a Sorrentino

Un progetto in 17 corti ideato dai fratelli Larraín e Lorenzo Mieli, per raccontare l’isolamento da Coronavirus in piccoli film “fatti in casa”. E per dimostrare che il cinema è più forte dell’assenza di budget. Sorprendente l’episodio con pupazzi di Sorrentino

Homemade

INTERAZIONI: 978

Appena scattati emergenza Coronavirus e confinamento, si sono moltiplicati gli annunci di progetti cinematografici intesi a riflettere su isolamento e paura del contagio, dal Gabriele Salvatores di Viaggio In Italia, in cui il regista curerà la costruzione di un lavoro collettivo a partire dai materiali amatoriali girati dalla gente comune durante il lockdown, a Il Grande Caos di Gabriele Muccino, che ha chiesto agli italiani di inviargli riflessioni e testimonianze, per consentirgli, a partire da questo magma di storie ed emozioni, di ricavarne un film che sappia filtrare angosce, aspettative e speranze che questo periodo ha generato nella comunità.

Accomuna molti di questi progetti l’idea dello sguardo plurale. Come se si percepisse che, per offrire una rappresentazione verosimile e compiuta della pandemia, il punto di vista del singolo – che in questo momento è per forza di cose limitato, chiuso nelle quattro mura del proprio appartamento – non basti, e sia invece necessario indagare il fenomeno attraverso una polifonia di voci. Nasce esattamente da questo bisogno di comprensione Homemade, nato dalla collaborazione tra Fabula, la casa di produzione dei fratelli Jaun de Dios e Pablo Larraín, la The Apartment di Lorenzo Mieli e Netflix, che dal 30 giugno ha reso disponibile la serie di corti sulla piattaforma.

Sono 17 i registi coinvolti, da Paolo Sorrentino a Kristen Stewart, da Sebastián Lelio a Ana Lily Amirpour – compreso naturalmente lo stesso Larraín –, per altrettanti brevi film che non superano mai i dieci minuti, girati ognuno a casa propria, per una mappatura globale della pandemia, con immagini che giungono da Clichy Montfermeil in Francia (il corto di Ladj Ly), la Glasgow di David Mackenzie, la Città del Messico di Natalia Beristáin. Ogni autore ha colto la sfida legata a una creatività ingabbiata e perciò obbligata a ripensare sé stessa, costretta a misurarsi con l’assenza di budget e di tecnologie adeguate (spesso sono film realizzati con lo smartphone), senza troupe e quasi sempre senza attori.

Prologo: il drone di Lady Lj

Apre le danze Lady Lj, che torna nella banlieu al centro del suo I Miserabili, ritrovando un personaggio del film, Buzz, armato del suo drone. Le inquadrature dall’alto perdono in parte la loro natura voyeristica per farsi desiderio di un racconto capace di sottrarsi alla costrizione delle quattro mura. E costituiscono anche l’occasione per un’indagine sulla difficoltà di vita in un territorio complesso, nel quale l’incidenza del Coronavirus, come ricorda la didascalia conclusiva, è assai più feroce che nelle zone della Parigi affluente. Così i limiti della vita in casa e di uno sguardo che fatica a varcare la soglia del proprio appartamento si fanno metafora di gabbie – materiali, sociali, culturali – che precedono l’emergenza sanitaria.

Il diario dell’isolamento

Prevedibili appaiono i corti che raccontano il lockdown in chiave diaristica. L’impossibilità di movimento diventa occasione per uno scandaglio sul quotidiano a breve raggio, su emozioni che emergono in un vuoto di esperienze che si riempie però di ricordi, riflessioni esistenziali, memorie familiari. La Ricetta Dei Ravioli Di Mamma di Johnny Ma s’incentra sullo scontato minimalismo sentimentale di una lettera in forma di appunti visivi che un figlio scrive alla madre lontana, con cui ha un difficile rapporto.

Cosa Conta Davvero di David Mackenzie

La regista di origini indiane che vive a Londra Gurinder Chadha in Un Dono Inaspettato racconta un quotidiano in cui l’inazione fa sentire con forza l’intensità delle origini e dei legami familiari, soprattutto in un momento funestato da lutti che è costretta a vivere a distanza. Allora la vita di ogni giorno coi propri figli, i gesti semplici, le tradizioni culinarie come le tecnologie che raccordano voci ed emozioni lontane si rivelano l’unico antidoto possibile al dolore, che resta comunque un elemento inaggirabile. Appunti d’un coming of age sono quelli di Cosa Conta Davvero di David Mackenzie, che ha una struttura di finzione ma è come un piccolo diario del vuoto vissute da due ragazzini a Glasgow durante il lockdown. Un evento che, in ultima analisi, amplifica soltanto ansie, aspettative e fragilità connaturate all’età.

Homemade, la tentazione dell’autobiografia

In vari corti la dimensione domestica si fonde con l’autobiografia, in una chiave che gioca sul crinale tra documentario e finzione. In Grilli, Kristen Stewart punta sempre la macchina da presa su sé stessa, mappando la geografia del suo volto di star, che però s’angoscia, preda di un’ansia sul punto di diventare allucinazione. “È come se i miei sogni sognassero”, dice, in un progressivo smarrirsi di lucidità. E la cornice da diario intimo si trasforma in racconto fantastico, vagamente orrifico, sulla perdita d’identità, sempre sorretto dalla consapevolezza divistica. Sebastian Schipper in Casino invece radiografa senza originalità il suo quotidiano, descrivendo in forma di abbozzo i momenti di trascurabile alienazione di gesti che si ripetono ciclicamente.

Kristen Stewart nel suo corto, Grilli

Uno sguardo sull’infanzia

Un’altra linea narrativa all’interno di Homemade è quella dell’infanzia. Bambini raccontati per coglierne paure non dette, per supportarli nel momento difficile, per immaginare traiettorie fantastiche che liberino dalla costrizione domestica. The Lucky Ones di Rachel Morrison è una breve lettera al figlio di cinque anni, una sinfonia minimalista e indigesta da cinema indipendente, con le riprese fintamente amatoriali, ralenti, controluce e troppa ansia di recapitare un messaggio ottimista.

In Spazi, Natalia Beristáin punta la camera su sua figlia. La regista dichiara di averlo girato “sperando di poter immaginare un futuro migliore per le nuove generazioni”, ma la positività dell’assunto è in qualche modo contraddetta dalla descrizione del quotidiano della piccola protagonista, che si gestisce la vita in autonomia, restituendo un senso di solitudine non esattamente tranquillizzante.

Spazi, di Natalia Beristáin

Nadine Labaki e Khaled Mouzanar in Mayroun e l’Unicorno riprendono la propria figlia che sembra la protagonista di un’avventura solitaria dalle tinte sempre più drammatiche. La quale si rivela, come spiega la didascalia finale, un’improvvisazione del tutto estemporanea della bimba. Un piccolo film che ricorda la incredibile resilienza creativa dell’infanzia, più incisiva di quella di autori che, in questo caso, si limitano ad assecondare e filmare. Le pareti di casa, insomma, possono trasformarsi impercettibilmente in un universo fantastico.

Un futuro distopico

L’angoscia è una delle cifre inaggirabili del lockdown. Per questo sono diversi i corti di Homemade che prendono generi consolidati, tra horror, thriller e fantascienza distopica, per dare forma a un sentimento di smarrimento. In Annex di Antonio Campos una bambina porta in casa un uomo ritrovato su una spiaggia. L’enigmatico intruso diventa una presenza inquietante da racconto paranormale, che rimanda in modo scontato all’inquietudine legata a un virus che può annidarsi, letteralmente, nelle pareti di casa.

Penelope, esperimento registico dell’attrice Maggie Gyllenhaal

In Penelope, inedito esperimento registico dell’attrice Maggie Gyllenhaal, s’immagina un futuro distopico in cui i morti sono centinaia di milioni, per un virus misterioso che s’è diffuso nell’intero sistema solare, a cui un uomo, che vive in totale solitudine in una baita, oppone soltanto la ripetizione ostinata della sua vita quotidiana. Sembra distopica anche la cornice de L’Ultimo Messaggio di Naomi Kawase: una pandemia richiamata dalle cupe pagine dei giornali, i clangori della colonna sonora, primissimi piani e respiri affannosi che restituiscono un senso di angoscia senza uscita di un mondo che si è costretti a osservare da dietro il confine di una finestra. Poi la cornice afflittiva si rompe. Nella nuova dimensione del tempo vissuta dal giovane protagonista affiora un diverso modo di vivere le cose. Un piccolo film che nell’approccio poetico, antinarrativo e contemplativo ribadisce la capacità del cinema di scandire altri sguardi possibili.

Homemade e la commedia umana

C’è anche chi, nella difficoltà, sa trovare risvolti da commedia. E se Una Coppia Si Lascia Durante Il Lockdown di Rungano Nyoni è un inutile embrione di rom-com con scontato contorno di linguaggio social, Larraín e Sorrentino firmano due corti che sono i momenti migliori di Homemade.

Last Call di Pablo Larraín è in assoluto il corto scritto meglio, senza nulla d’episodico. Il che non sorprende, vista la metodicità che traspare da tutto il cinema dell’autore cileno. In una conversazione su Skype l’anziano ospite d’una casa di riposo chiama una sua vecchia fiamma, cui dichiara tardivamente il suo amore, immutato dopo tanti anni. È acceso da una passione che non ci si aspetterebbe a quell’età, e anche impudico, entrando in dettagli spinti.

Last Call, l’episodio di Pablo Larraín

Un inno alla forza dell’amore nonostante il lockdown, l’età, la malattia? Forse l’anatomico Larraín si è trasformato in un narratore al calor bianco? Tutt’altro. Non vogliamo togliere allo spettatore il piacere del colpo di scena di questo corto, che conferma la propensione del regista a raccontare personaggi che indossano delle maschere per manipolare gli altri e sé stessi. In più, rispetto, al suo cinema, qui c’è un’aria da commedia al vetriolo, una voglia di ilarità, pur intinta in sfumature nere, che non ci si aspetterebbe da un autore così serio e serioso. Ed è una bella sorpresa.

Nel corto più soprendente del lotto, Voyage Au Bout De La Nuit, Paolo Sorrentino conferma l’ormai totale controllo stilistico sul suo cinema. I protagonisti sono due statuine da presepe di papa Francesco e della regina Elisabetta, obbligate dall’emergenza a passare settimane insieme (la regina dice: “vivo in lockdown da 94 anni”). Nelle loro schermaglie, che si svolgono nel salotto di casa Sorrentino trasformato in un set da Roma papalina (“vuota disperata e sola” dice Francesco), va in scena l’eterna recita del potere e della maschera, venata dalla malinconia e la paradossalità che il regista e sceneggiatore inocula nei suoi calibratissimi dialoghi.

È chiaramente un divertissement – c’è pure il drugo Lebowski. Ma non ci si faccia ingannare. Perché Sorrentino, grazie al riparo della cornice ludica offerta dai pupazzetti, è capace di liberare un massimo di sincerità, con un’attitudine non lontana dai film d’animazione di Wes Anderson. E riesce a ironizzare persino sul suo cinema. Fondamentali le voci di Javier Cámara e Olivia Williams. Un piccolo gioiello.

Il cinema allo specchio

Le limitazioni imposte dal Coronavirus hanno spinto alcuni autori di Homemade a riflettere sul senso del fare cinema in condizioni d’emergenza. Sebastián Lelio in Algoritmo mette in scena un microscopico musical fatto con mezzi di fortuna, che si chiede se sia il caso fare un musical durante una pandemia. “Sarebbe stato meglio realizzare una tragedia o un saggio sofisticato”, dice l’attrice protagonista. Puro metacinema insomma, che pone interrogativi su tutta l’operazione Homemade.

Che, esattamente, come questo corto, potrebbe rivelarsi inopportuna, velleitaria ed egocentrica, dato che tutti i cineasti ripensano la pandemia da un punto di vista privilegiato. Lelio afferma che il musical e il canto sono giustificati non dal bisogno di evadere, ma da quello molto più urgente di sopravvivere. E quando si richiama a “un Cile che si è svegliato”, facendo risuonare le voci di manifestazioni di piazza, sembra alludere politicamente a ben altri lockdown vissuti dal Cile, in un improvviso raccordo tra attualità, storia e memoria.

Pedala E Passerà, l’episodio conclusivo di Ana Lily Amirpour

La chiusura di Homemade è coerentemente posta nel diciassettesimo episodio firmato da Ana Lily Amirpour, Pedala E Passerà, con la voce di Cate Blachett, che col suo tono autorevole è come se restituisse ordine e serenità a un tempo turbolento. Sintomatico che il viaggio intorno al mondo finisca nella casa del cinema, a Los Angeles. Una ragazza va in bici per strade deserte. Passa per l’Hollywood Boulevard, la strada in cui le celebrità della storia del cinema hanno il loro nome inciso sul pavimento. Ma il cinema in questo momento è muto, come il Chinese Theatre, sala leggendaria che ha ospitato le più esclusive prèmiere e che ora è un guscio angosciosamente vuoto.

L’industria è silenziosa, ma non lo è l’arte. Che, ricorda la Blanchett, “serve ad adottare una nuova prospettiva verso qualcosa che è familiare”. Distruggere e ridefinire è il lavoro dell’artista, per guardare alle nostre vite in un modo nuovo. Come aveva appena detto anche Lelio, l’arte è una forma di sopravvivenza. Il senso di un’operazione come Homemade è esattamente qui. E pur tra gli alti e bassi del risultato finale, è una missione condotta a compimento.