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La docuserie Netflix su Jeffrey Epstein è una potente ricostruzione di ingiustizie a catena (recensione)

Perché la docuserie su Jeffrey Epstein risulta di grande impatto, disturbante ed affascinante al tempo stesso, assolutamente da vedere

di Claudia Gagliardi
19/06/2020
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INTERAZIONI: 411

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Arrivata su Netflix a maggio 2020, in sole quattro parti la docuserie su Jeffrey Epstein riesce a restituire un vivido mosaico dei fatti e delle conseguenze di questo caso clamoroso, inquietante e sotto certi aspetti irrisolto. Ispirata al libro Jeffrey Epstein: soldi, potere e perversione di James Patterson, la docuserie su Jeffrey Epstein risulta di grande impatto, disturbante ed affascinante al tempo stesso. E non solo per la figura detestabile di Epstein, per la sua chiara ed evidente colpevolezza, ma soprattutto perché la sua vicenda giudiziaria è anche la dimostrazione di quanto il sistema giudiziario americano sia iniquo e sbilanciato in favore delle classi dominanti.

Jeffrey Epstein: Flirty Rich è il racconto di una serie di ingiustizie a catena: non solo quelle perpetrate nei confronti di giovani donne, perlopiù minorenni, indotte a prostituirsi per Epstein e i suoi sodali, ma anche quelle rappresentate dal modo in cui quest’uomo è riuscito a farla franca per molti anni nonostante prove evidenti e testimonianze inoppugnabili.

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La docuserie su Jeffrey Epstein dà voce alle vittime del misterioso finanziere e filantropo, ai loro racconti tutti molto simili, alle implicazioni psicologiche degli abusi subiti, ma non ne fa un santino: sono ragazze che hanno accettato inizialmente in modo volontario di frequentare la casa di Epstein in cambio di soldi per massaggi e sono poi finite stritolate in un meccanismo di prostituzione che gli inquirenti e gli investigatori privati a lavoro sul caso definiscono “piramidale”. Ogni ragazza era indotta a procurarne altre, queste ultime ne ingaggiavano altre ancora e così via. Molte di loro avevano tra i 12 e i 17 anni, ben al di sotto della soglia del consenso per i rapporti sessuali in Florida, dove si sono tenuti la maggior parte degli episodi di abusi. Ma non c’è solo la villa di Epstein a Palm Beach come teatro dei suoi crimini: ci sono anche due intere isole di sua proprietà nell’arcipelago delle Vergini (ribattezzate “Orgy Island” per motivi intuibili), frequentata da politici, nobili, finanzieri e dirigenti d’impresa, invitati a beneficiare di un numero enorme di ragazze messe a loro disposizione. E poi c’è la casa di New York, dal valore milionario, in cui furono ritrovate enormi quantità di materiale pedopornografico. Non a caso dall’iniziale accusa di induzione alla prostituzione (anche minorile), da cui Epstein riesce ad uscire con un contestato accordo, il caso si amplia fino ad includere l’accusa di traffico internazionale di minori.

La serie diretta da Lisa Bryant approfondisce meno le figure che ruotano intorno ad Epstein, a partire dalla sua compagna ufficiale Ghislaine Maxwell e il suo coinvolgimento nel sistema di prostituzione (la donna si è sempre dichiarata innocente), ma riesce comunque a tracciare un quadro inquietante e piuttosto chiaro dell’ambiente che lo circondava e proteggeva.

Questa serie ha moltissimi pregi, sia per la precisione della ricostruzione che per la scelta di casi emblematici, come quello delle due sorelle che per prime hanno denunciato – inascoltate – gli abusi sessuali subiti da Epstein e quello più celebre di Virginia Giuffré, sfociato nell’accusa al principe Andrea di York di aver avuto rapporti sessuali con lei a Londra, quando era diciassettenne. Ma quel che paradossalmente colpisce ancor più del racconto del sistema di prostituzione architettato da Epstein e nascosto abilmente grazie al suo sistema di relazioni con i potenti del mondo e ad una manipolazione psicologica delle sue vittime, è il filone giudiziario del racconto: di fronte ad un caso molto solido, ricco di prove e testimonianze, istruito dalla polizia locale di Palm Beach e poi passato all’FBI, i procuratori che avrebbero dovuto trascinare il finanziere in tribunale si sono rivelati un ostacolo insormontabile. Accordi sottobanco, patteggiamenti dalle condizioni ridicole, pene minime con una detenzione solo formale (Epstein entrava e usciva dal carcere quando voleva, continuando a fare affari e incontrare chiunque volesse), domiciliari violati sotto gli occhi di tutti senza che nessun tribunale muovesse un dito.

L’inspiegabile (ad un osservatore esterno) potere negoziale di Epstein, misterioso investitore che si è fatto largo in modi discutibili raccontati dalla serie attraverso coloro che hanno lavorato con lui, è reso plasticamente evidente dal modo in cui è riuscito a sfuggire alle sue colpe per anni dimostrando di avere in pugno anche figure di vertice del sistema giudiziario. La vicenda del procuratore Acosta, che ha firmato un accordo di patteggiamento tenendo all’oscuro le vittime e permettendo ad Epstein di evitare un processo che lo avrebbe distrutto, è una storia che pone molte domande sul sistema della giustizia negli Stati Uniti, sulla sua politicizzazione (Acosta è diventato poi un membro del governo Trump) e della sua assoluta permeabilità alle influenze di personaggi potenti come Epstein, legato a doppio filo a grandi investitori, politici – dal presidente degli Stati Uniti in giù – e uomini d’affari d’ogni risma.

Il finale della serie racconta in modo emozionante la svolta che ha portato poi Epstein ad affrontare le sue vittime in tribunale, finendo in carcere a New York, ma soprattutto apre ulteriori inquietanti interrogativi sul suicidio di un uomo che avrebbe potuto ricattare decine di suoi sodali e ha portato nella tomba molti, troppi segreti, lasciando alle vittime un senso di ingiustizia per una pena mai scontata.

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Questo viaggio nei misteri di Epstein, figura che resta comunque enigmatica e perlopiù sconosciuta nonostante la grande risonanza mediatica del caso, fa riflettere su una serie di questioni che vanno ben oltre il pur gravissimo tema della pedofilia e della violenza di genere. Quello che questa docuserie su Jeffrey Epstein lascia nello spettatore è soprattutto un grande senso di rabbia per l’arroganza del potere, l’ingiustizia sociale che si fa sistema, la corruzione endemica, ma apre anche all’idea che qualcosa stia cambiando, che le voci delle donne e dei movimenti si battono per la parità di genere, a partire dal #MeToo, stiano scrivendo pagine nuove della storia del femminismo e dei diritti umani che sarebbero state inimmaginabili solo pochi anni fa.

Tags: Harvey Weinstein

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