È tutt’altro che in disarmo il vecchio John Huston quando, settantacinquenne, si mette a lavorare alla regia di Fuga per La Vittoria, che esce nel 1981. Negli anni Settanta aveva firmato alcuni suoi capolavori: Città Amara (1972), ritratto desolante del mondo della boxe, sport che lui stesso aveva praticato da giovane; L’Uomo Che Volle Farsi Re (1975), trascinante racconto tratto da Kipling ma con venature anticolonialiste, e una morale desolata sulla vita come gioco a perdere; La Saggezza Nel Sangue (1978), sul fanatismo religioso, credulone e un po’ ridicolo, della provincia americana.
Certo, Fuga Per La Vittoria ha un’atmosfera diversa, col sapore da racconto d’avventure, la retorica dell’eroismo, la cadenza ottimista d’un film a lieto fine. Ma possiede l’intelligenza compositiva del suo autore, che impiega il suo talento per confezionare un grande spettacolo popolare, ingenuo ed emozionante, attraversato da una vena romantica, dalla voglia di divertire e divertirsi, in una storia che parla di cameratismo maschile e senso dell’onore.
Lo spunto di Fuga Per La Vittoria proviene da una storia vera, quella d’una serie di partite di calcio organizzate durante la guerra in Ucraina, allora occupata dai nazisti, tra una rappresentativa locale e alcune squadre tedesche. La vicenda aveva già ispirato due film, Due Tempi All’Inferno (1961) dell’ungherese Zoltán Fábri e il russo Il Terzo Tempo (1962). Huston mantiene l’impianto della vicenda, con l’idea di un match che balena al maggiore tedesco von Steiner (Max von Sydow), ex calciatore della nazionale tedesca, quando incontra un ufficiale inglese prigioniero, John Colby (Michael Caine), un tempo stella del West Ham.
“Vi massacreremmo”, gli risponde Colby, con la sbruffoneria e la spocchia degli inglesi che il calcio l’hanno inventato – ricordiamo che si rifiutarono di giocare i primi tre campionati del mondo, dal 1930 al 1938. Eppure, guasconerie a parte, i due si capiscono perché accomunati da una lingua e da un’etica, quella dello sport, che al di là della guerra resta la loro autentica regola di condotta. La partita sfugge quasi subito di mano ai suoi organizzatori. Il comando tedesco, cogliendo l’opportunità propagandistica del match, lo trasforma in una sfida allo stadio di Colombes a Parigi tra la nazionale tedesca e una compagine di prigionieri non solo inglesi. In maniera speculare gli alleati cercano di approfittare dell’occasione per organizzare una fuga in massa della squadra.
La carta fondamentale di Fuga Per La Vittoria è ovviamente il team all star messo insieme dagli alleati, zeppo di glorie vecchie e nuove della storia del calcio. Guidato nientedimeno che da O Rei Pelé, che per ragioni di veridicità storica è un militare di Trinidad e non del Brasile (che nel 1941 non era ancora entrato in guerra). Accanto a lui, tra i tanti, ci sono Bobby Moore, capitano della nazionale inglese campione dei mondiali del 1966; il fuoriclasse argentino Osvaldo Ardiles, mondiale del 1978; Kazimierz Deyna, centrocampista della grande Polonia che segnò un gol all’Italia ai mondiali del 74; Paul van Himst, leggenda del calcio belga. A loro si aggiunge Sylvester Stallone, che confonde il football americano col calcio, ma è un genio della fuga destinato, col suo inatteso talento da portiere, a farsi valere anche sul campo.
Già, il campo: è la lunga sequenza della partita il climax di Fuga Per La Vittoria. Per l’epoca fu probabilmente la migliore resa che si fosse mai vista al cinema di una partita di calcio, grazie anche alla consulenza di Roger Riger, regista dei programmi sportivi della Abc che applicò al film uno stile di ripresa televisivo, magari non originalissimo, ma fluido e funzionale.
Il match è coinvolgente, soprattutto, perché Huston lo affronta come un racconto epico sull’onore. I cattivi tedeschi giocano sporco. A quel punto la squadra alleata dimentica il motivo per cui è lì, il progetto della fuga e tutto il resto. Se si è uomini per davvero, bisogna giocarsela fino alla fine sul campo: questo impone la regola dello sport, più forte della logica della guerra. Ed è esattamente quello che, come squadra, faranno.
Un’altra cosa non va dimenticata: la bellezza del gesto atletico. Sarà anche prevedibile l’uso del ralenti in certi momenti di Fuga Per La Vittoria. Però la bicicletta di Ardiles o la rovesciata di Pelè sono attimi in cui la narrazione si sospende, l’estetica diventa estasi e lo sport ritrova, al di là del senso utilitaristico della vittoria, quel sottofondo di poesia, di estro senza secondi fini, che è la ragione essenziale del suo fascino. Un fascino che soggioga anche il maggiore von Steiner, che d’istinto ha una reazione che non è quella del nazista, ma dello sportivo e dell’uomo. E a quel punto, di fronte al gesto di cavalleria, è impossibile per lo spettatore non emozionarsi. Eccolo qui, il valore semplice e profondo di un cinema autenticamente popolare, che John Huston maneggia alla perfezione.
Un po’ La Grande Fuga, con una colonna sonora che ammicca a quella del film di Sturges e Stallone a fare le veci dell’inarrivabile Steve McQueen. Un po’ La Grande Illusione, per la sintonia tra i due ufficiali su sponde opposte ma legati dagli stessi valori (nel film di Renoir in virtù della comune origine aristocratica; qui nel nome della più democratica passione calcistica). Riferimenti di genere e citazioni alte: sono questi gli ingredienti che rendono Fuga Per La Vittoria quel piccolo, affettuoso classico che è.