L’uccisione di George Floyd ha risvegliato lo spirito rivoluzionario americano: artisti, registi, attori, sportivi afroamericani e non, tutti a chiedere giustizia

In Italia, a parole, sui social, tutti siamo più o meno rivoluzionari. Tutti evochiamo una giustizia sociale che non c’è, reclamiamo la libertà, alziamo i toni, usiamo slogan, ci armiamo e ci diciamo pronti a partire. Poi non partiamo

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Avrei voluto una rivoluzione, per il momento faccio movimento per il movimento.

Questa barra, parte del brano In Movimento degli Assalti Frontali, mi ha sempre lasciato immalinconito, assai più di una canzone malinconica nelle intenzioni, quella sì, e nella resa di Cesaria Evora. Perché, così l’ho sempre interpretata io, mi sembrava una dichiarazione di resa incondizionata. È vero, c’era quel “per il momento”, ma non stiamo a prenderci in giro, tra rivoluzione e movimento c’è una tale differenza da rendere il passaggio dalla seconda alla prima è praticamente impossibile.

E dire che a dichiarare quella resa incondizionata era proprio il principale alfiere di una piccola, si fa per dire, rivoluzione culturale, Militant A, prima voce guida dell’Onda Rossa Posse, poi degli Assalti Frontali, la voce più significativa dell’Era delle Posse, chiamiamo per praticità così il primo flusso italiano di rap, passato appunto dalle Posse, crew di rapper che provavano la impervia strada del rap in italiano, su basi approssimative, con rime cariche di messaggi ma stilisticamente piuttosto stoppose, certo, comunque il primo vero ingresso del rap nel nostro immaginario culturale e musicale. Militant A, dal Centro Sociale Autogestito del Forte Prenestino, voce autorevolissima, incondizionata, un puro, lì a alzare in qualche modo le mani di fronte a quella che, ai miei occhi, appariva come una sconfitta.

Perché anche io avrei voluto una rivoluzione, per certi versi la voglio ancora, esattamente come Militant A, sarei disposto a scommetterci tutto quel che ho di più caro.

Avrei voluto una rivoluzione, ma la rivoluzione non c’è stata, ora sembra non esserci più neanche il rap, a dirla tutta.

Passo apparentemente di palo in frasca, ma è evidentemente solo apparenza, il calore che sale dal terreno e sfuma i contorni di quello che abbiamo, avete, di fronte.

In USA sta succedendo di tutto. Noi siamo qui dietro le nostre mascherine a cercar di capire come rialzarci davvero mentre là, oltre centomila morti da Covid19, questo ci arriva dai social e dai media, sta davvero andando in scena la rivoluzione. O quantomeno un tentativo di rivoluzione, qualcosa che a una rivoluzione assomiglia davvero, vedremo poi se con risultati più o meno efficaci, più o meno permanente. I fatti li conoscete tutti, a Minneapolis, in Minnesota, un poliziotto ha ucciso un cittadino che, per qualcosa come nove minuti, lo ha implorato di non ucciderlo. Lui, il cittadino, George Floyd, steso in terra, ammanettato, l’altro, il poliziotto, di cui neanche ho voglia di scrivere il nome, perché la merda non merita di essere descritta troppo nel dettaglio, che lo tiene a terra, il ginocchio a schiacciare il collo, le mani in tasca, lo sguardo spiritato a fissare i passanti che hanno immortalato la scena con gli smartphone, contribuendo poi a farla diventare di pubblico dominio.

I can’t breathe.

Non riesco a respirare.

Questa la supplica di George Floyd. Cittadino afroamericano, un dettaglio, questo che non può e non deve essere taciuto, perché è evidente che ancora oggi, nel 2020, durante la pandemia e a prescindere dalla pandemia, un afroamericano si ritrovi a vivere, negli USA e probabilmente in buona parte del resto del mondo, in una condizione di pericolo costante.

I can’t breathe.

Non riesco a respirare.

Subito assurti a grido di dolore collettivo, globalizzato.

Ovviamente a molti è venuto alla mente il caso di Rodney King. E i conseguenti moti di Los Angeles. A altri, in Italia, è venuto in mente il caso di Federico Adrovandi, ucciso a diciassette anni alla medesima maniera da poliziotti che lo hanno fermato nella notte, mentre tornava a casa dai genitori, a Ferrara. O come le immagini che in tanti abbiamo imparato a conoscere, come si fa con le cicatrici sulle quali passiamo le dita a distanza di anni, ricordando il dolore, del G8 di Genova.

Come nel caso di Rodney King, però, George Floyd è diventato un simbolo, una spinta a alzare, almeno momentaneamente, il capo, a ribellarsi, a accendere la miccia.

È stato lui stesso la miccia, a volerla dire tutta.

Anni fa, tanti anni fa, ho scritto un libro che, seppur in altro contesto, parlava di questo, di alzare la testa, di ribellarsi, di non permettere più a nessuno di tenerci con la testa sotto.

Era il mio primo romanzo, e prendeva il titolo da un romanzo che molto avevo amato, di James Baldwin.

La prossima volta il fuoco, si intitolava quel libro.

Questa volta il fuoco, il mio.

Questa volta il fuoco è arrivato davvero.

A Minneapolis, inizialmente, e non solo a Minneapolis. Non un fuoco metaforico, immaginifico, quello che fa ardere i cuori, che fa tenere alti gli sguardi, no, un fuoco reale, le fiamme che ardono, distruggono, purificano, certo, perché il fuoco è anche capace di farsi metafora, pure quello reale.

La fotografia del commissariato di polizia di Minneapolis che arde è diventata manifesto di questa rivolta, di questa rivoluzione. Come quella degli atleti che, in ginocchio, fanno il verso all’assassino. I flashmob, a volte, sono dannatamente efficaci.

Una rivoluzione che ha trovato il suo implicito appoggio nelle dichiarazioni di artisti, registi, attori, sportivi afroamericani e non, tutti a chiedere giustizia. Non una giustizia sommaria, intendiamoci, ma di quelle con la G maiuscole, che si trovano incise nelle frasi in latino nelle pareti dei tribunali.

Parole e fiamme cui ha risposto Trump, col suo solito stile goffo e assurdo, minacciando la guerra, evocando l’esercito, la tolleranza zero, i proiettili a altezza uomo. Tutti, più o meno, abbiamo esultato sapendo del ban da parte di Twitter. Tutti in qualche modo ci siamo anche schierati dalla parte dei riottosi, l’hashtag #MinneapolisRiot diventato trend topic, le foto condivise, i video di Public Enemy, Rage Against the Machine e via discorrendo condivisi come proclami in musica.

Non basta, Anonymous, il collettivo di hacker che da tempo si mostra dietro la maschera alanmooriana di Guy Fawkes, ha lanciato a sua volta un attacco all’impero, sputtanando in ogni modo e in ogni luogo i potenti della terra, da Trump alla famiglia reale inglese, passando per le lobby, i potentati, vip e multimiliardari, mettendo in rete documenti che provano loro traffici, truffe, fatti di cronaca nera, la merda. Un attacco senza precedenti, fantascientifico, violento, impietoso. Per di più condito, perché questi sono dettagli, ma dettagli succosi, di quelli che fanno battere il cuore di chi, come me, è da sempre un convinto antimilitarista, con l’hackeraggio congiunto del sito della polizia di Minneapolis e della radio della polizia, attraverso la quale ha suonato a tutto volume il classico Fuck The Police dei N.W.A., ragazzi miei, quanta poesia.

Torno da noi, in Italia.

Torno alla rivoluzione che avrei voluto, quella che avrebbe voluto anche Militant A, ma che non c’è stata.

A parole, sui social, tutti siamo più o meno rivoluzionari. Reazionari a parte, è chiaro. Tutti condividiamo queste immagini, queste parole, queste canzoni. Tutti evochiamo una giustizia sociale che non c’è, reclamiamo la libertà, alziamo i toni, usiamo slogan, ci armiamo e ci diciamo pronti a partire. Poi non partiamo. Non andiamo da nessuna parte. Siamo immobili.

Seppur, in altra canzone, molto epica, lo stesso Militant A cantava “Va bene che non vado a mettere le bombe/ va bene che non sputo sulle vostre tombe/ lotto con me per primo/ ogni uomo a un motivo per svegliarsi al mattino/ e mettersi in cammino” è evidente che il mettersi in cammino è azione più facile da progettare che da fare. Alzare la testa ancora di più. Per tornare a quella canzone, Banditi, per la cronaca, “Mi hanno interrotto i sogni, bandito/ mi muovo coi fratelli un occhio all’immediato uno all’infinito”, per noi è più facile guardare all’infinito che concentrarci sull’immediato, specie se questo concentrarci sull’immediato comprende nel pacchetto anche uscire di casa e metterci la faccia, rischiare, combattere.

Così, mentre dall’altra parte dell’oceano, succede ogni tot di anni, ahinoi, sta andando in scena l’ennesima rivolta popolare, le città messe a fuoco e fiamme, letteralmente, come in un passato recente è successo nella più vicina Parigi con le sue banlieu e poi con i gilet gialli, questi ultimi, a mio parere, da prendere a colpi di idrante, altroché, come sarebbero da prendere a colpi di idrante, intendendo con questo non che gli si debba sparare addosso con gli idranti, ma proprio che si debbano usare gli idranti come armi contundenti, colpi sordi, fortissimi, senza possibilità di scampo, sarebbero da prendere a colpi di idrante i gilet arancioni, trainati nelle piazze, così, senza mascherine e il resto, dall’ex generale dei carabinieri Pappalardo, in compagnia dei tipi di Casapound, che un tempo, giustamente, sarebbero stati come le “carogne che dovevano rientrare nelle fogne”, una non rivolta, la loro, perché senza una giustizia da ripristinare, o un’ingiustizia da mettere in evidenza, l’idea che ci si voglia svendere alla Cina fa già ridere di suo, figuriamoci se ce lo dicono una marea di coglioni vestiti di arancione, orange is the new black, chissà in quanti lo hanno già scritto, da noi il grande nulla. Neanche qualcosa di pacifico, mica solo taniche di benzina e mazze da baseball.

Certo, perché a fianco di chi ha alzato il livello dello scontro, contrapponendo alla morte di George Floyd e alla difesa d’ufficio improntata per il suo assassino la devastazione e il fuoco, appunto, ci sono anche centinaia di migliaia di persone che sono scese in piazza pacificamente, per marciare e protestare, anche lì senza mascherine e distanziamenti, ma comunque cercando di portare avanti istanze pacifiste, istanze che, lo dico per l’ennesima volta, evidentemente stanno comunque mostrando fiato corto, se è vero che a oltre cinquant’anni dalla morte di Martin Luther King siamo ancora dove siamo.

Da noi niente fuoco e niente We Shall Overcome. Il grande nulla, ripeto.

E se risuonano ancora roboanti le parole di Ben Harper, ospite di Zoro a Propaganda Live, durissimo nello stigmatizzare il razzismo ancora lasciato circolare libero negli USA, come quelle di altri artisti, non solo afroamericani, da Ice-T, al momento ancora coi Body Count, a Vernon Reid dei Living Colour, da Tom Morello dei RATM a Chuck D dei Public Enemy, da Beyoncé a Rihanna, durissime sono state anche le parole di artisti pop e bianchi come Lady Gaga, Billy Eilish o Taylor Swift, passando per Ariana Grande, da noi, nel mentre, il silenzio si fa incredibilmente assordante.

Tutti zitti, il silenzio è d’oro, cantavano ormai una vita fa gli Aeroplani Italiani, anomalo e geniale combo che metteva insieme Alessio Bertallot, Frank Nemola e Roberto Vernetti, e sembra che le parole ironiche portate sul palco dell’Ariston di Sanremo siano decisamente state prese troppo alla lettera. Perché da noi tutto tace.

Parlo proprio degli artisti, i cantanti, gli attori, gli scrittori, i registi.

Tutti muti. O a protestare per i propri diritti, per il mondo dello spettacolo e la cultura messi in un angolo, dimenticati, ma poco altro.

Non c’è stato, negli ultimi mesi, nessuno capace di raccontare quel che stava accadendo. Ci sono state delle brutte canzoncine che volevano instillare in noi ottimismo, le abbiamo sentite, e per altro sono state poche, fortunatamente, ma per il resto non abbiamo sentito nessuno di quelli che invece ci saremmo aspettati dire la propria, raccontare il dolore, il disagio, lo spaesamento, ma anche la rabbia, sì, pure quella, perché che noi si sia stati abbandonati a noi stessi, ormai, è sotto gli occhi di tutti.

I rapper, è di loro che sto parlando, ma anche i cantautori, sembrano aver tirato i remi in barca. A parte aver fatto qualche diretta sui social, infatti, non abbiamo sentito produzioni, quelle sì casalinghe, magari, che ci raccontassero l’oggi. Tutti zitti, muti, immobili.

Molti, specie i rapper giovani, per non dire dei trapper, sono proprio spariti, forse estinti, la speranza è l’ultima a morire, ma sicuramente depotenziati dal lock down, dall’impossibilità di esserci nel loro modo vacuo e fatuo al quale ci avevano tristemente abituato negli ultimi anni.

Difficile essere efficaci mostrando culi e euro nel momento in cui tutti sono con lo sguardo fisso a terra, in casa, impauriti e disperati.

Poi arriva una canzone. Non so neanche se sia una canzone vera e propria, è comunque un brano, e ha un video che l’accompagna, quindi immagino di sì. È di un rapper, in effetti, ma anche di un cantautore, il primo, in Italia, a aver tentato di fondere i due linguaggi, direi con un buon successo, Nesli. Uno che, diciamolo apertamente, viene più spesso indicato come uno bravo a cantare i sentimenti che a fare istantanee della contemporaneità, almeno da chi si concentra sulla superficie delle cose. La canzone, breve, ripeto, si intitola Discorso 1, e ha per sottotitolo Teoria del pensiero comune. Due minuti di strofe appoggiate su una base semplice, una marcetta da colonna sonora di film di Pietro Germi, piano e campane. Strofe che inchiodano chi siamo e come viviamo alla parete, senza possibilità di scampo. Un ritratto impietoso, seppur non freddo, tutt’altro, dell’italiano medio e del suo modo di affrontare la vita, le avversità come la quotidianità, discorso che, però, in alcuni passaggi si apre verso il resto del mondo, alzando anche gli occhi al cielo.

Così Discorso è una sorta di pamphlet in musica nel quale Nesli lancia stoccate al nostro stare sempre sotto, morti, ci descrive così, morti, stoccate a chi ci ha indotto a farlo, a morire, dai politici alla Salvini a Maria De Filippi, bippata ma chiaramente riconoscibile, icona di una televisione che ci ha analfabetizzati, anche la Chiesa e lo stesso Dio hanno la loro, in questa lettura apocalittica che decreta l’avvenuto decesso dell’umanità, lettura apocalittica cui fa da contraltare Piazza Affari di notte, è lì che si svolge il video, semplice ma perfetto, il dito medio di Cattelan, no, non quel Cattelan lì, alle spalle del poeta.

Ecco, avesse chiamato me come regista, Nesli, avrei giusto dato alle fiamme la Borsa, cui il dito medio e la stessa canzone sembra in parte dedicata.

Questa volta il fuoco.

Da questa volta in poi.