Anche un bambino sa che agli zombie devi tagliargli la testa

Ebbene, fatelo anche con me, staccatemi la testa, se mai vi capitasse di vedermi in giro a bordo di un monopattino elettrico

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Oggi è la Giornata Internazionale del Bambino.

I bambini sono i veri dimenticati di questi ultimi mesi, reclusi in casa, mai neanche nominati nei decreti, impossibilitati a fare tutto quello che, fino a tre mesi fa, era la loro quotidianità, lontani da scuola, dagli amichetti, dalle maestre, dai nonni.

Mi adeguo al comune sentire, e invece di parlarvi di loro, dei bambini, parlerò di un argomento che, in teoria, non dovrebbe proprio riguardarli, ma che, nei fatti, anche loro maneggiano con una certa abilità, perché è chiaro che i bambini sanno molte più cose di quante pensiamo noi adulti. Ho ben chiara in mente, nella memoria, le reazione dei miei gemelli di fronte a quei video buffi che pretendevano di spiegar loro cosa fosse il Coronavirus, col pupazzetto buffo che interpretava, appunto, il virus e parlava loro con parole elementari. Loro che avevano visto con noi i telegiornali, le immagini dei malati a pancia sotto, i tubi che escono dalla bocca, le notizie dei morti, gli allarmismi, il loro guardare quei video con la stessa accondiscendenza, appunto, che noi in genere riserviamo ai bambini, poverini, non capiscono. Ripeto, sanno molte più cose di quel che pensiamo, e a loro non dovrei certo spiegare quello che ora spiegherò a voi.

Tutti abbiamo visto film sugli zombie. Anche quelli che sono più facilmente impressionabili, immagino, magari qualcosa di divertente, come iZombie, mentre i colti avranno visto solamente i film di Romero, la critica alla società dei consumi, il capitalismo americano che mostra il fianco dentro quei supermercati circondati dal male, i consumatori come morti viventi senza ratio e sempre affamati. Del resto, Romero non poteva certo saperlo, ma anche durante questa pandemia ci siamo dimostrati tutti vagamente lobotomizzati, lì a fare acquisti che non ci servivano un cazzo su Amazon, e nello scrivere questo, lo so, è un po’ come se avessi ostentato uno status sociale che, per altro, non ho, come Bocelli che ci dice di essersi tuffato in piscina subito dopo aver saputo che era positivo al Coronavirus, nessuno in grado di farsi tamponi, manco i medici del pronto soccorso, a marzo, quando l’aneddoto ha avuto luogo, ma lui sì, e del resto lui ha la piscina dove tuffarsi per cercare conforto, il Coronavirus è una livella solo nella testa di certi opinionisti alla Federico Rampini, mica nella realtà, la gente ha faticato a mettere insieme il pranzo con la cena e io me ne esco con questa cosa di Amazon, per altro, ripeto, fatto che non è un fatto, nel mio caso specifico, perché dopo aver ricevuto per due giorni di fila rispettivamente una crema desfoliante della Dove e un flaconcino di integratori al posto di due smartphone, smartphone che avevo dovuto comprare in fretta e furia non per smanie capitalistiche o perché vittima dello shopping compulsivo, ma semplicemente perché senza smartphone mia figlia Lucia non avrebbe potuto fare didattica a distanza, didattica a distanza merda sempre e comunque, il suo smartphone morto di colpo, lo schermo diventato improvvisamente viola, fottiti Aranzulla, dopo aver ricevuto quei due prodotti del valore di pochi euro al posto di due smartphone decisamente più cari, col cazzo che poi ho comprato altro online, si fottano anche se poi ci hanno reso il dovuto, era per spostare il discorso della società dei consumi anche nella contemporaneità, che Amazon abbia avuto un boom durante il lock down ce l’hanno detto tutti i media, unici a beneficiare di questo nostro starcene in casa oltre che i supermercati, la spesa che diventava anche scorta, i prezzi che nel mentre aumentavano subdolamente, neanche di poco, per altro, i supermercati, le banche, quelle che non hanno fatto l’atto d’amore richiesto da Conte e gli operatori telefonici, che col cazzo che hanno regalato giga e connessione come ipotizzato all’inizio, tutti connessi e a far fruttare danari, per loro, per chi ci ha portato luce e gas in casa, le tariffe pensate per chi in casa ci sta solo la sera e nei weekend di colpo inadeguate, carissime, maledetti anche voi, voi che ci trattate come gli zombie di Romero, o come quelli di The Walking Dead, quali in effetti siamo.

Tutti abbiamo visto film sugli zombie, anche solo affacciandoci alla finestra o guardando dai balconi in questi mesi di pandemia. Ben sappiamo, quindi, che quando si ha a che fare con gli zombie l’importante è non farsi infettare da loro, concetto che oggi potrebbe e dovrebbe sinistramente suonarci familiare. Ma non è certo un parallelismo tra zombietudine e Coronavirus che voglio improntare, figuriamoci, sono una persona seria, io. No. Ma è fondamentale che sappiate, nel caso non foste tra quanti hanno visto film o serie tv sugli zombie, che se uno zombie ti graffia, o, peggio, ti morde, non c’è speranza, ti trasformerai a a tua volta in uno zombie. A seconda delle teorie, e degli sceneggiatori, ciò può avvenire all’istante, o dopo qualche ora, qualche ora passata di merda, tra febbri e deliri, ma la fine è sempre la medesima, ti morde uno zombie?, ti trasformerai in uno zombie.

Per questo, in questo le serie Tv hanno ovviamente un gioco più facile, perché lavorando sulla lunga distanza hanno la possibilità di fidelizzare lo spettatore assai più del singolo film, seppur avendo per contro il grande rischio della noia o delle stagioni più deboli, perché avere a cuore un determinato personaggio che di colpo viene morso da uno zombie è esattamente quanto prevede la scena che vi sto per raccontare.

Provate a immaginarvi la situazione tipo, appunto, c’è un vostro beniamino, cioè un personaggio di una serie tv di zombie alla quale siete affezionati, che si trova in una situazione rischiosa, pericolosa, pericolosissima. Un agguato da parte di zombie, verrebbe da pensare, non fosse che gli zombie non possono  pensare, quindi non possono fare agguati. Più una situazione sfigata, sfiga alla quale può magari aver contribuito il personaggio in questione stesso o qualche suo compagno di banda, perché una cosa sì il mondo dei film e delle serie Tv dedicate agli zombie ce l’aveva predetto, in stato di emergenze nessuno diventa migliore, si formano bande, ci si ammazza tra sopravvissuti, si praticano gerarchie al limite del dittatoriale, la tortura è quasi quotidiana, la giustizia sommaria lo è assolutamente, quotidiana. Una merda.

Insomma, il personaggio che amate, quello per il quale, in fondo in fondo, state seguendo quella determinata serie tv si trova di colpo in grande difficoltà, non faccio esempi concreti, per non praticare l’arte malefica dello spoiler, anche se ho visto ogni singola puntata di The Walking Dead ho ben in mente quello di cui sto parlando.

Il personaggio in questione è in questa cazzo di situazione di pericolo quando, dopo aver ammazzato un numero imprecisato di zombie, sempre alla stessa maniera, così si ammazzano gli zombie, spaccandogli la testa, spesso infilando una sorta di lancia in una delle orbite facciali, sangue e materia cerebrale sparsa ovunque, anche addosso al personaggio di cui sopra, tanto quella non è infetta, quando a un certo punto, di colpo, la situazione peggiora.

Succede quasi sempre verso la fine di un episodio, spesso lasciando la faccenda in sospesa per la puntata dopo, per la settimana successiva, addirittura, sceneggiatori bastardi. Non sono così stronzo, io. La situazione precipita e gli zombie circondano il nostro amato personaggio, lui si dimena, si dibatte, ma ecco che uno zombie lo morde a un braccio, questo poco prima che lui riesca a liberarsi e scappare, raggiungendo la sua banda, o almeno quelli che sono usciti vivi da quella situazione sfigata.

Ora, come detto, la fine è sicura. Ti ha morso uno zombie, diventerai uno zombie.

Siccome non ci sono cure per la faccenda che se ti morde uno zombie diventi uno zombie, la situazione si mette davvero male. In condizioni normali uno si dispererebbe, invocherebbe un aiuto divino, andrebbe su Google a cercare una qualche cura, guarderebbe Le Iene. Siamo però nel mondo post-apocalittico degli zombie, nulla di ciò avrebbe un senso. Così il nostro personaggio adorato, lo adoriamo anche per quel suo carattere forte, sicuro, eroico, chiede al suo migliore amico, o alla sua amata, è indifferente, di fare la sola cosa possibile. La sola cosa, cioè, che gli impedirà di diventare a sua volta uno zombie, un morto vivente costretto a vagare in cerca di carne fresca da mangiare, la camminata sgangherata, i rantoli, l’aspetto di merda.

Il nostro amato chiede al suo migliore amico, alla sua amata, o a chi si trova nei paraggi e non sia a sua volta uno zombie, è chiaro, di ucciderlo, possibilmente sfondandogli la testa, tagliandogliela, insomma, assicurandosi che non ci sarà un risveglio in quella zombesca condizione. Un atto d’amore, quello sì, di amicizia, di pietà umana. Meglio la morte che diventare un cazzo di fottuto zombie.

Ecco, si sta avvicinando la vera fine del lock down, anche per chi, come me, Marina, i nostri quattro figli, mia suocera, la squadra che ha vissuto questi novantanove giorni in casa con me, non ha sentito questo grande cambiamento nella Fase 2, si tratti delle prime aperture del 4 maggio, o quelle un po’ più ampie del 18, costretti in casa dallo smart working, dalla malefica didattica a distanza e, soprattutto, dal non poter andare fuori a fare praticamente un cazzo, men che meno poter ipotizzare una estate prossima al mare, in Ancona, visto che ancora non è chiaro se, come e quando potremo lasciare l’infetta Lombardia.

Domani saranno cento giorni di questa clausura, prima imposta, poi un po’ anche autoimposta, perché io, almeno, volendo potrei andare in giro a fare passeggiate, quando le maestre non mi tengono in ostaggio e quando non scrivo, ma onestamente non ho gran voglia di farlo, domani è anche il mio cinquantunesimo compleanno, nonché la quasi fine di questo diario del contagio, arrivato davvero troppo in là, sia come narrazione, lo confesso, che come ampiezza, duemilioniduecentocinquantamila battute una dietro l’altra, e che cazzo, il 3 scatta una nuova fase per l’Italia, ci dicono da giorni, proviamo per una volta a fidarci di questi cialtroni, a credere a questi imbonitori da rete privata, materassi, batterie di pentole e bici con guide Shimano.

Il futuro è ancora incerto, incertissimo, ma in qualche modo dobbiamo provare a pensarlo, ipotizzarlo, se non per noi, ormai rassegnati, almeno per i nostri figli, per quei bambini che in tutti questi giorni sono stati abbandonati da tutti, le istituzioni in festa, oggi poi è anche la Giornata Internazionale del Bambino, pensa l’ironia della sorte. Il futuro ci appare fatto di piccoli passi, cauti, sicuramente orientato verso il green, un riconciliarsi con la natura, la lentezza vista con un po’ meno ostilità di prima. La Lombardia, regione che ho scelto, più o meno, anni fa, convinto fosse il posto più evoluto, sicuro, moderno in Italia, e che oggi appare come il posto sbagliato al momento sbagliato, metà dei morti e dei contagiati di tutta Italia, un tasso di morti per abitante come neanche Wuhan, desolazione e disagio, che prova a pensarsi non più e non solo come la locomotiva d’Italia, ma come qualcosa di davvero europeo, ecocompatibile, le piste ciclabili guardate con meno spocchia, i parchi cittadini di colpo tornati a essere frequentati come fossero luoghi di villeggiatura, mentre la villeggiatura altrove ci è negata, vedi il caso Solinas o ci è al momento impossibile, il lavoro da poco ripreso, per chi è ripreso, le ferie consumate per far passare il lock down.

Milano, la Milano che si è fermata, che non è stata in grado di affrontare come ci si aspettava la pandemia, che è crollata sotto i colpi della malagestione degli amministratori regionali, ma anche, forse, vittima di una arroganza che ha in parte accecato anche gli amministratori locali, che prova davvero a dialogare con le altre capitali europee, e lo so che Milano non è la capitale d’Italia, non cagatemi il cazzo, sto parlando d’altro, suvvia.

Insomma, seppur al momento coi mezzi pubblici ridotti all’osso, dieci persone per carrozza della metropolitana, i treni dei pendolari che non sono partiti e non si sa come e quando partiranno, gli autobus semideserti, l’Area C e l’Area B momentaneamente in stand-by, perché in qualche modo la gente ci deve andare a lavorare e a fare la spesa, ma soprattutto, siamo a Milano, a la-vo-ra-re, e non per vezzo, seppur quindi si dica verde ma si tenda a dipingere il cielo di grigio e nero asfalto, Milano prova a scommettere tutto sul green, fare proprie le istanze di Greta Thumberg, assecondare le tante sciure con le bici coi fiori nel cestello davanti, i runner li abbiamo imparati a odiare tutti, non parliamone neanche.

Questo lo scenario che ci si sta cominciando a parare davanti, ma non è neanche un parallelismo tra un mondo nel quale la macchina è il male, lo smog ha sicuramente favorito l’attecchimento del Covid19, oltre che la demenza di Gallera e Fontana, ma per ora le macchine sono di nuovo ovunque e quello degli zombie, un mondo, cioè, nel quale l’uomo è tornato a uno stato primitivo, animalesco, non solo sotto forma di zombie, ma anche per quel che riguarda i sani, lì a ammazzarsi a vicenda tra bande, Negan e la sua Lucille, Alpha e i sussurratori, non fatemi dire altro, no, non è lì che volevo accompagnarvi, non oggi.

No.

Volevo solo chiedervi, perché vi ho in fondo tenuto compagnia per novantanove giorni, domani fanno cento, per qualcosa come trecentosettantasettemila parole, vi ho parlato di me e della mia famiglia in un momento particolare, dedicato, ho abbattuto il pudore sotto i colpi di una mazza da baseball, anche parlandovi del mio pudore stesso, insomma, spero mi vogliate almeno un po’ di bene, almeno quanto io ne voglio a voi, volevo solo chiedervi un atto d’amore.

Fermi, non sono Conte e voi non siete una banca.

Non voglio spillarvi soldi senza garanzie di nessun tipo che poi tornerete a averli.

Non voglio proprio spillarvi soldi, figuratevi.

Fanculo i soldi.

No, vi voglio chiedere una cortesia, come se foste miei amici, miei parenti, o più semplicemente quel che siete, persone che come me hanno vissuto una pandemia, una situazione senza precedenti, unica e, mi auguro, irripetibile, legati a me da questo, come i commilitoni.

Se mai vi capitasse, quindi, di vedermi in giro con un monopattino elettrico, perché è sul monopattino elettrico che sembra si stia puntando parecchio per un futuro green nelle metropoli, centoventi milioni di euro per i bonus destinati proprio a chi comprerà il monopattino elettrico, le piste ciclabili fatte anche per i monopattini elettrici, un mezzo innovativo, moderno, facilmente piegabile, potete anche arrivare in città da fuori col monopattino elettrico nel bagagliaio, ci dicono, e poi lasciare la macchina in un parcheggio periferico di raccordo per raggiungere il centro in monopattino elettrico, come a Amsterdam, come a Londra, come a Stoccolma.

Ecco, se mai vi capitasse, quindi, di vedermi in giro con un monopattino elettrico, e nonostante la mascherina che non potrò non indossare vi capitasse di riconoscermi, vi vorrei chiedere una cortesia, premesso che la mascherina, certo faticosa, certo asfissiante, certo innaturale, è per me, per certi versi, anche un vantaggio.

Sì, perché nel caso non ve ne foste accorti io ho dei denti di merda. Sono sempre stata la parte del mio corpo che mi fa più schifo, quella che, potessi cambiare qualcosa del mio corpo, cambierei, anche se non ho mai fatto molto per cambiare, i dentisti, se possibile, mi fanno ancora più cagare dei miei denti, come categoria. Li ho storti, rovinati, sembro un Shawn McGowan sobrio, forse neanche troppo sobrio. Insomma, ci siamo capiti. Porto barba e baffi che in parte li coprono. Non che li porti apposta, intendiamoci, li porto perché mi piacciono, ma prima ancora per pigrizia, mai avuto voglia di radermi, non certo per nascondere denti di merda. Ma li nascondono, e ho comunque dei denti di merda.

La mascherina è quindi in qualche modo qualcosa che mi dà sollievo, almeno da questo punto di vista, seppur facendomi respirare a fatica, come tutti. Mi copre la bocca, e di conseguenza mi copre i denti.

Intendiamoci, non è il solo difetto fisico che ho, la mascherina non mi copre questa pelle che mi ritrovo, sin da quando ero un ragazzino, un ragazzino che soffriva in maniera devastante di acne giovanile, l’ho già raccontato. Per certi versi ne soffro anche oggi, anche se ovviamente molto di meno, il che consegna alla parola “giovanile” un significato molto contemporaneo, visto che farò cinquantuno anni, ma non è dell’oggi che voglio parlarvi, o almeno non ancora. Da ragazzino soffrivo di acne, e ne soffrivo molto. Avevo una pelle di merda, diciamo le cose come stanno, e probabilmente la mia alimentazione, sono sempre stato un grande appassionato di dolci, non mi aiutava. Anche per i denti, per altro. Ma di base avevo una pelle di merda.

I miei mi avevano mandato già da diversi dermatologi, anche da un paio di luminari della mia città, ma a parte fornirmi creme grassissime fatte direttamente in farmacie, creme che non servivano sostanzialmente a un cazzo, la mia pelle continuava a essere di merda. Ogni tanto mi si creava una sorta di bubbone, manco fossi Abraham Murray, l’attore che ha interpretato Salieri nell’Amadeus di Milos Forman. Per questo, non ricordo spinto da chi, mi ritrovai a finire per essere un paziente della divisione universitaria di dermatologia dell’Ospedale Umberto I di Ancona, quello dove il dottorino inesperto mi ha tagliato un pezzo di carne togliendomi la fasciatura dei punti di cui vi parlavo giorni fa.

Una volta alla settimana, di mattina, uscivo prima da scuola e andavo  su su, fino al reparto di dermatologia dell’Umberto I, dove una equipe di studenti mi prelevava una certa quantità di sangue, per poi fornirmi un farmaco che era in sperimentazione. Anni dopo, quando ormai ero a Milano, non ricordo se Report o che altro programma di inchiesta tirò fuori la notizia che quel farmaco era poi stato ritirato dal mercato, perché dopo essere stato sperimentato su di me e su altre cavie, diciamo le cose col loro nome, era stato immesso sul mercato, perché nocivo. Dicevano, lì in televisione, che avrebbe potuto indurre tutta una serie di conseguenze, tra le quali la sterilità, per questo mia madre, che segue quel tipo di programmi, mi aveva chiamato allarmata. Oltre che prelevarmi sangue, per monitorare il mio stato di salute, e fornirmi il farmaco sperimentale, i giovani studenti di dermatologia avevano preso questo vizio, che non credo sia in realtà ascrivibile alla categoria dei vizi, di farmi esplodere i bubboni di cui sopra. Ovviamente la parola esplodere non è corretta, lo so, esattamente come la parola vizio. In pratica succedeva questo, arrivavo al reparto con la faccia malconcia, come spesso capitava allora. Mi prelevavano le solite fialette di sangue, controllavano lo stato della mia cute e poi, se vedevano che avevo un bubbone, e anche la parola bubbone non è corretta, perché si tratta di cisti neanche troppo grandi, mi infilavano un ago in loco e iniettavano non so cosa finché la mia pelle esplodeva, lasciando uscire pus e sangue. So che quello che ho appena scritto è schifoso, fa schifo anche a me ricordarlo. E so anche che è poco gradevole descrivere un proprio momento difficile, ma non sono certo qui per creare un santino di me stesso, e sono almeno tre mesi che vi sto raccontando un mio momento difficile, anche se è un mio momento difficile che coincide anche con un vostro momento difficile, in effetti.

Parlo di acne dopo avervi descritto i miei denti di merda, direi che esiste un modo più diretto per mettermi a nudo, confesso, non lo conosco.

Torniamo a Dermatologia dell’Umberto I, anni Ottanta.

Ci sono io che ho un giovane studente universitario, laureato in medicina, specializzando in dermatologia, che infila un piccolo ago, tipo quelli da tossico, sulla mia pelle, sotto un brufolo più grande degli altri, e iniettando non so cosa mi fa scoppiare la pelle. Come potete capire, avevo quattordici anni, non è che stessi per altro vivendo quella fase della vita protesa all’ottimismo e alla solarità, leggi al nome “adolescenza”, capitava che me ne tornassi a casa non proprio di splendido umore. Certo, alla stessa età mio figlio da casa non esce proprio, non sto certo qui a pietire la vostra attenzione.

Avevo la musica che mi teneva compagnia, il calcio, gli amici, ma nell’insieme mi sentivo un pochino diverso dal resto dei miei coetanei, non c’erano mica altri miei compagni di classe, da quelle parti, a dermatologia, e mi giravano anche un po’ i coglioni di essere finito a fare la cavia per poter avere la pelle come quella degli altri.

All’epoca la mia famiglia si era appena trasferita nel nostro quartiere di appartenenza, il centro storico, dopo che per qualche anno, vi ho già raccontato questa storia, a causa del sisma del 1972 che aveva distrutto la nostra casa, eravamo finiti in una zona residenziale, sempre in centro, ma nella parte ricca. Io dormivo con mio fratello maggiore Marco, come del resto ho sempre fatto finché non si è sposato, una decina di anni dopo. La moda di stirarsi i capelli, cioè di farsi con una eccessiva frequenza la piastra, alla moda dei cantanti della west coast, sua grandissima passione, lo aveva portato a un principio di calvizie piuttosto aggressiva. Dico questo perché proprio negli stessi anni in cui io ricorrevo al farmaco sperimentale per tornare a avere una pelle non dico bella, ma presentabile, lui ricorreva a certe fialette al rosmarino per rinforzare i capelli, col risultato che camera mia sembrava il laboratorio di un fornaio.

So che non apprezzerà questa parte del racconto, ma avendo io messo in piazza che mi facevano saltare in aria i brufoli con una iniezione, direi che al momento nessuno è in condizione di dirmi cosa posso o non posso scrivere.

Dormivo quindi in camera con mio fratello Marco, otto anni più di me, ancora con tutti i capelli in testa alle soglie dei sessanta, per la cronaca, fialette al rosmarino miracolose. Non gli è quindi sfuggito che il mio umore vacillasse tra il devastato e il nichilista. Nel mentre, proprio a causa di quel farmaco sperimentale, oltre a perdere sangue dal naso con una certa frequenza, avevo cominciato a perdere il sonno, fatto che di lì in poi mi avrebbe accompagnato vita natural durante. Passavo quindi le notti a sentire la radio, ricordo che all’epoca mi dividevo tra i programmi musicali di Radio Rai 2, Planet Rock, Stereodrome o come si chiamavano allora, e la diretta del Maurizio Costanzo Show che andavano, credo, su RDS.

Insomma, provavo a tenermi vivo. Lui, Marco, che per questioni legate a una forma innata di romanticismo aveva a sua volta cambiato scuola, mollando lo scientifico per inseguire i suoi sogni hemingwayiani di andare per mare, finendo quindi al Nautico, andando poi a lavorare prima in fabbrica, poi in un ufficio, e infine a fare l’editore, ma questo solo in seguito, era già un grandissimo divoratore di libri. Avevamo la camera piena di libri. Libri che io non leggevo. Credo che a quattordici anni, a parte Salgari, avessi letto solo i libri di scuola, e qualche libro per bambini tipo Tartarin di Tarascona o Pinocchio, in una versione ridotta.

Lui, mio fratello, mi raccontò, con quel tipico gusto macabro che spesso è parte dei rapporti tra fratelli maschi, di aver letto un libro di uno scrittore americano dal nome stranissimo che aveva vissuto una situazione non troppo diversa dalla mia. Non so se il suo raccontarmelo sia stato un modo per farmi capire che, nella sfiga, non ero certo isolato al mondo, o per indicarmi un futuro da butterato, esattamente come lo scrittore dal nome strano. Sia come sia andai in biblioteca, che da quel momento diventò uno dei miei luoghi preferiti, anche essa posta nel centro storico della mia città, a pochi passi dalla casa che il terremoto ci aveva tolto per sempre, e presi un paio di suoi libri, era Charles Bukowski. Pensa che giro lungo ho finito per fare, dai denti rovinati alla pelle rovinata, via via fino a Bukowksi.

Ecco, ora avete un motivo di più per volermi bene, per stare dalla mia parte, per sentirvi a me vicini.

Quindi, torno a dire, siamo sempre lì, se mai vi capitasse di vedermi in giro con un monopattino elettrico, o meglio, se mai vi capitasse di vedermi in giro a bordo di un monopattino elettrico, sempre che si dica a bordo anche per un mezzo di locomozione come il monopattino elettrico, che poi già il chiamare un monopattino elettrico mezzo di locomozione, converrete tutti con me, fa ridere, tutti a meno che non stia leggendo queste mie parole anche l’ex ministro Toninelli, nel qual caso, però, immagino non avrà capito un cazzo di quanto scritto fin qui, credo che già in una frase che oltre al soggetto, predicato verbale e complemento oggetto vada in confusione, io qui ho abbondato di relative, come sempre, ecco, se mai vi capitasse di vedermi in giro con un monopattino elettrico, o meglio, se mai vi capitasse di vedermi in giro a bordo di un monopattino elettrico e, nonostante la mascherina, questa benedetta mascherina che mi copre i denti di merda, dovesse capitarvi di riconoscermi, ho begli occhi, quelli sì che mi piacciono, vi prego, per la stima che spero abbiate nei miei confronti, per l’idolatria della quale sono oggetto, o magari anche perché vi sto sul cazzo ma pensate che un nemico meriti lo stesso rispetto dei nostri amici, l’onore delle armi e quelle cazzate lì, se mai vi capitasse di vedermi in giro con un monopattino elettrico, o meglio, se mai vi capitasse di vedermi in giro a bordo di un monopattino elettrico e dovesse capitarvi di riconoscermi, vi imploro, avvicinatevi lesti e veloci alle mie spalle e datemi un colpo secco alla nuca, staccandomi di netto la testa dal corpo, così che io non abbia possibilità di sopravvivere.

Non lasciatemi, cioè, in balia di me stesso, di quel me stesso futuro che, mi avrete appena visto a bordo di un monopattino elettrico, cazzo, pensa che andare in giro a bordo di un monopattino elettrico non sia ridicolo e vergognoso, ma semmai normale se non addirittura eticamente encomiabile.

Staccatemi la testa, senza neanche un bacio, una carezza, fate come se uno zombie mi avesse morso e un futuro di merda mi aspettasse lì davanti, perché è evidente che quello è il futuro al quale andrei incontro a bordo di un monopattino elettrico, un futuro green, da zombie.