Per colpa di Paola Maugeri non credo negli esseri umani, oggi più che mai

C’è che ho visto il video di Paola Maugeri nel quale lancia la sua creatura “Humans, professione essere umano”


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Gira uno spot, in questi giorni, in questi mesi, che usa la canzone di Mengoni, Esseri umani, come colonna sonora. Credo negli esseri umani, ripete, convintamente. Credere negli esseri umani, avere fiducia nell’altro, sentirsi parte di una comunità, una società, o, addirittura, sentirsi parte del mondo, della natura, dell’universo.

Qualcosa non mi torna. Provo a condividere con voi un ragionamento, a riguardo.

C’è una scena di Palombella Rossa, uno dei più bei film di Nanni Moretti, e a mio parere anche del cinema italiano tutto, che mi ha sempre colpito molto.  E se dico “mi ha sempre colpito molto” è perché questo film, così come Aprile e Caro Diario, li ho visti un numero piuttosto alto di volte. La scena nella quale l’attaccante coi baffi da vichingo della squadra avversaria della squadra di Michele, il personaggio interpretato in molti film da Nanni Moretti, Palombella Rossa prende il nome da un tiro della pallanuoto e si svolge durante una interminabile partita di pallanuoto, un tipo massiccio, un vichingo appunto, molto forte e muscoloso, dice a Nanni Moretti, anzi, al Michele che Nanni Moretti interpreta, “il tuo problema, è che pensi troppo”.

Su questa faccenda del pensare troppo c’è tutta una letteratura, letteratura che tende a dire, in sostanza, che meno si pensa, meno si è intelligenti, anche, meglio si sta, perché non si capisce quanto sia complicata la vita, questo il sottotesto, perché si soffre di conseguenza meno, e su questo esiste tutta una altra letteratura che vuole i suicidi, stupidamente non presi come spesso conseguenza della depressione, una malattia, come qualcosa che sia frutto di quel pensare, di quella sensibilità anche intellettuale lì, suicidi quindi assai più presenti nelle società in cui il tasso di benessere è apparentemente alto, almeno da un punto di vista economico, come dire, “se sei ignorante e morto di fame neanche ci pensi a ammazzarti, anche avendone tutte le ragioni”.

Il tuo problema è che pensi troppo, quindi.

Un modo carino, quello del vichingo avversario del Michele interpretato da Nanni Moretti, per invitarlo a prendere la vita un po’ più alla leggera, a non pensare, anche, a farsi passare i problemi addosso senza permettere loro di lasciare traccia, il tutto dentro mentre i due tornano verso la metà campo, lì immersi fino al collo nell’acqua della piscina.

In quel caso, in Palombella Rossa, la scena mi colpisce perché a pronunciarla è un tipo, il vichingo enorme e muscoloso, che sulla carta nessuno riterrebbe particolarmente intelligente, per quella sovrastruttura carica di pregiudizi che vuole quelli muscolosi scemi, tanto quelli emaciati sensibili e quelli mingherlini e un po’ sfigati intelligenti, tutte cazzate, evidentemente, ma cazzate ben evidenti a Moretti, che su quel contrasto ha costruito un momento topico del film, per altro pieno di tanti momenti topici, probabilmente è qui che si trova una delle due frasi più famose dei suoi film, “Le parole sono importanti, che parla male, pensa male, e vive male”, pronunciata da Michele, il personaggio interpretato da Nanni Moretti, nel momento in cui una giornalista, non a caso bionda, altro stereotipo, gli pone domande stupide con un linguaggio, se possibile, ancora più stupido, un sonoro schiaffone a accompagnare questo che diventerà una sorta di slogan, al pari del “continuiamo così, facciamoci del male”, spesso applicato anche a sproposito, con gli slogan succede così, in realtà inserito in un discorso sulla Mont Blanc e la Sacher Torte, stavolta contenuto in Bianca. Toh, ce ne sono altre due di frasi topiche, entrambe prese da Ecce Bombo, una è “faccio cose, incontro gente”, in realtà pronunciate nel film sotto altra forma, ma così rimaste impigliate nella memoria collettiva, e l’altra il classico “mi si nota di più se non vengo o se vengo e sto in un angolo”. Frasi entrate nel nostro linguaggio comune, al pari di alcuni versi estrapolati da canzoni famose, tipo i “siccome è facile incontrarsi anche in una grande città” o “lo scopriremo solo vivendo” di battistiana memoria.

Il tuo problema è che pensi troppo, però, mi sembra particolarmente adatta a questo periodo così anomalo, carico di preoccupazione e apprensioni, senza certezze sul presente e, men che meno, sul futuro, destabilizzante per noi e ovviamente per i più giovani.

È in condizioni come queste, uniche, certo, ce lo stiamo ripetendo e ce lo stanno ripetendo allo sfinimento che questa è una situazione senza precedenti, da che esiste la Repubblica, cioè dal dopoguerra, che guardiamo a chi chiaramente non pensa troppo da una parte con il solito carico di odio che riserviamo a chi riteniamo diverso da noi, e noi siamo quelli che pensano, è indubbio, loro a mettere a rischio le nostre esistenze coi loro comportamenti da non pensanti, appunto, ma anche con una piccola dose di invidia, l’invidia che ti fa esclamare, ah, se fossi anche io un coglione di quelli che se ne vanno in giro senza mascherina a bere Spritz, per dire, stando alla nuova moda da sceriffi, coglioni senza pensieri per la testa, quindi immuni, loro sì, non tanto al Coronavirus, in cuor nostro un po’ glielo auguriamo, di ammalarsi, così da capire che hanno sbagliato, sto ovviamente praticando un paradosso, non cagatemi il cazzo, non augurerei a nessuno di ammalarsi di nulla, sicuramente vivrei col cuore più leggero, senza problemi, col sole in fronte, come nella nota canzoncina.

Purtroppo, o per fortuna, vallo a sapere, chi pensa troppo continua a pensare troppo anche nel momento in cui si dice che sta pensando troppo, o nel momento in cui qualcuno gli suggerisce, come il vichingo di cui sopra, di pensare meno, e chi non pensa troppo non pensa troppo, come succede con le caste in India, ognuno ancorato nella sua, senza possibilità di cambi repentini o covati nel tempo.

Non se ne esce.

O meglio, non se ne usciva.

Perché ultimamente, questo volevo raccontarvi oggi, novantaseiesimo giorno di questo diario del contagio, novantasei giorni di reclusione autoimposta, a questo punto mi tocca chiamarla così, visto che tutto intorno a noi è pieno dei suddetti coglioni in giro senza mascherina, alla riscossa stupidi, i fiumi sono in piena, potete stare a galla, prima che i coglioni di cui sopra non ce la facciano imporre di nuovo, temo, mi sembra evidente che anche gente che pensava ha smesso di farlo.

O magari è successo che, bravi a farci credere non dico di pensare parecchio, ma di essere a un grado più evoluto dell’Homo Ergaster, l’assenza di nuca, il cervello ristretto, incapacità di fare comunità nonostante la scoperta del fuoco, di colpo non ne siano stati più capaci, ecco un coglione che si mostra per quel che è, un coglione, o hanno semplicemente deciso che di farci credere che erano persone che pensavano non gliene frega più nulla, si fotta l’apparenza e l’ipocrisia, orgoglio coglione.

Chiaramente, tra le ultime due ipotesi messe sul panno verde da gioco è chiaro che solo la prima abbia ragion d’essere, perché nessuno decide di sua spontanea volontà di mostrarsi non pensante, stupido o come volete chiamarlo. Si sarà inceppato qualche meccanismo in una macchina che non aveva dato problemi e ecco che abbiamo tutti visto Tizio per quello che era, il trucco che cola e ci mostra la vera faccia che si nasconde troppo, un colpo di vento che fa volare via il parrucchino, insomma, ci siamo capiti.

Ora, chiaramente, se io adesso mi mettessi a fare nomi, cioè se appioppassi nomi e volti a chi fino a poche righe sopra descrivevo come coglioni correrei dei rischi anche da un punto di vista legale, perché dare del coglione a qualcuno, anche che fosse comprovatamente coglione, è passibile di querela, e io non ho voglia di essere querelato, quindi ora metterò in atto un artificio retorico che mi farà passare oltre, fingendo che il discorso del pensare meno sia finito qui, restando quindi sul generico, salvo poi tirare fuori quei nomi e quelle facce, nomi e facce che voi capirete, siete come me tra quanti pensano, sono i nomi e le facce dei coglioni di cui sopra.

Vi spiego un trucchetto da maghi.

Non sono un mago, non sto tradendo nessun patto non scritto in auge tra maghi, e il trucchetto che sto per spiegarvi, per altro, siete persone che purtroppo pensano molto, come me, probabilmente già lo conoscete. Quando volete fare un trucco con le carte, per dire, o magari far sparire qualcosa, avete una sola possibilità, distrarre chi vi sta di fronte spostando la sua attenzione da un’altra parte. Per intendersi, se volete infilare un asso nella manica sinistra della vostra giacca, stiamo sul semplice, non per assenza di fiducia nei vostri confronti, intendiamoci, anche se magari un coglione sta erroneamente leggendo, ovviamente senza aver capito che si sta parlando di lui, coi coglioni funziona sempre così, se volete infilare un asso nella manica sinistra della vostra giacca da maghi non dovete far altro che gesticolare in maniera palese e molto evidente, troppo evidente, con la mano destra, spostare sulla mano destra tutta l’attenzione, così da avere campo libero con la sinistra.

Fossi il professore de La casa di carta direi che occorre un diversivo, ma non sono il professore de La casa di carta, quindi uso la metafora del gesticolare eccessivo atto a sviare l’attenzione.

A questo punto, immagino, ho distratto i coglioni in ascolto, posso anche passare a fare i nomi, ma avendo io ora scritto quanto ho scritto è come se avessi annullato l’effetto di questo mio inciso, un inciso nel quale applicavo alla lettera la lezione di John Barth sulla meta-narrativa, io che spiego cosa voglio fare, poi racconto come lo sto facendo e, una volta fatto, arrivo addirittura a metterci le didascalie, specificando che l’ho appena fatto, e anche qui, questo nuovo inciso sarebbe potuto essere sufficiente al medesimo scopo, e nel dirlo ho aperto quello che si potrebbe chiamare un loop, o una scala di Esher, che in realtà si chiamerebbe scala infinita o scala di Penrose, illusione ottica descritta dai due matematici Lionel e Roger Penrose, rispettivamente padre e figlio, scala poi riprodotta nell’opera Ascending and descending dal pittore olandese Maurits Cornelis Escher, di qui l’erroneo nome di scala di Escher, un loop ottico, nel caso di Escher, cazzo, devo trovare un modo plausibile per passare al passaggio successivo, quello nel quale faccio i nomi e descrivo i volti di chi non pensa più, o non ha mai pensato e ora non si mostra più come uno che pensa, perché se no non ne esco fuori, incastrato nel loop, nella scala di Penrose, nel quadro di Escher, e questa faccenda della matematica applicata alla letteratura, per altro, credo di aver già parlato di ciò in queste pagine, è un grande classico, un tempo gli intellettuali si applicavano con la medesima costanza sia alle materie umanistiche che a quelle scientifiche, più recentemente, per dire, per quanto si possa parlare di recente parlando di uno scrittore che è ormai morto da dodici anni, anche lui morto per sua mano, anche lui uno che, universalmente, veniva considerato uno che pensava troppo, sto ovviamente parlando di David Fosetr Wallace, la cui scrittura complessa e costruita su architetture multistrati molto deve alla matematica, senza dubbio, recentemente, dicevo, David Foster Wallace ha pubblicato un saggio sul segno dell’infinito e quel che l’infinito rappresenta in matematica, “Tutto, e di più. Storia compatta dell’infinito”, uscito nel 2003, quindi parliamo di diciassette anni fa, recentemente un cazzo, anche se io usavo come metro il lasso di tempo che parte dell’Illuminismo e arriva fino a noi, quindi, sì, recentemente, libro di difficile lettura, per quanto la scrittura di David Foster Wallace, come certe composizioni di Frank Zappa, rimanga bella anche nel momento in cui quel che sta dicendo ci risultasse ostile, incomprensibile, ostico.

Ci siamo, o meglio, ci siamo quasi, la prossima volta passerò a fare quei nomi senza farvi neanche un cenno col capo, così, di punto in bianco, siete lì che leggete e dopo un a capo, sensato, eh, niente di buttato sulla pagina senza un motivo plausibile, niente di quel che leggete è senza un motivo plausibile, anche quello che potrebbe apparirvi come un flusso di coscienza, e che quindi come flusso di coscienza potrebbe presentare delle parole il cui scopo è solo quello di riempire il corso d’acqua della narrazione, fatto che non ha nessun supporto nella realtà, non scrivo seguendo un flusso di coscienza, anzi, cesello ogni singola parola, seppur io sia ormai così abituato a scrivere che posso farlo anche senza guardare la tastiera e lo schermo del pc dal quale abitualmente scrivo, magari guardando fuori dalla finestra o, come spesso capita quando si è sovrappensiero, e io mentre scrivo non sono esattamente sovrappensiero, sto pensando a quello che scrivo, ma non al fatto che lo sto scrivendo, sia chiaro, come di chi vuole dipingere un autoritratto e nel mostrarsi in posa naturale, apparentemente casuale, sta invece lavorando di tecnica e mestiere, oltre che attingendo a piene mai al proprio incolmabile talento, frase, questa, che suppongo avrà vanificato ogni mio tentativo di sembrarvi una persona che, in effetti, pensa e che ha anche una certa cultura, ho citato scrittori, matematici, pittori olandesi, Frank Zappa, mica il primo coglione che ha imbracciato una chitarra elettrica, e c’è quella foto di Frank Zappa con di fianco una giovane e bellissima Claudia Cardinale, attrice che poi si è sposata con un regista di destra, Pasquale Squittieri, a dimostrazione che si può apparire alti, intelligenti, magari anche non essendolo, sempre che essere una brava attrice e una bella donna comporti in sé l’essere intelligenti, a me l’unico indizio serio di intelligenza appariva proprio quella foto a fianco di Frank Zappa, uno che però aveva spesso belle donne intorno, si pensi che le sue groupie fondarono pure una band, le GTO, Girls Together Otrageously, in realtà non solo groupie di Zappa, ma anche, e il cui primo e unico album, Permanet Damage, anno del signore 1989, proprio da Zappa venne prodotto, per cui posso azzardare che a Zappa interessasse parecchio l’intelligenza, ma a volte si concentrasse più su altri dettagli, non sempre necessariamente legati all’intelligenza, e ancora una volta ho mandato tutto a puttane, e chissà quante volte mi posso permettere di mandare tutto a puttane senza incorrere nel rischio, poi, di non riuscire nell’impresa di cancellare il filo del discorso e poter passare agilmente a quel che in effetti volevo dire qualcosa come novemila battute fa, perché a furia di ripetere la stessa cosa, suppongo, si genera una sorta di riflesso condizionato, tipo il cane di Pavlov, e so che aver parlato del cane di Pavlov dopo aver citato la scala di Penrose è un passo indietro, perché è come uno che vuole far colpo su qualcuno giocandosi la carta dei libri, spacciarsi per uomo colto, o dimostrare di essere un uomo colto, anche se chi è in effetti colto in genere, per formazione, tende a non volerlo dimostrare così, pena il passare da radical chic, che è un po’ la risposta di chi colto non è a chi è colto e glielo sta dimostrando, una reazione pavloviana, questa sì, risentita, tu mi dimostri di essere intellettualmente superiore a me, perché, camerati, sappiatelo, si può essere culturalmente superiori o inferiori a qualcuno, come si può essere più alti e più bassi di qualcuno, più grassi o più magri, anche se, mentre se si è più bassi si possono indossare i tacchi, se si è magri o grassi si può ricorrere a un dietologo, in genere se si è troppo ignoranti non ce n’è, capre si è e capre si rimane, affermazione, questa, che sicuramente mi vale la carica di radical chic, del resto sono un fan sfegatato di Tom Wolfe, quello che quel termine ha coniato, e nel dire fan sfegatato, lo so, l’ho fatto ribaltare nella tomba, chissà se anche nella bara si è fatto seppellire con uno dei suoi abiti bianchi, con tanto di scarpe di vernice con le ghette, come quelle di Paperon de Paperoni, e panama calato in testa, pensa te a cosa devo andare a pensare io durante questo mio capitolo del diario, giunto al novantaseiesimo giorno di clausura.

Clausura che, credo, abbia avuto degli effetti devastanti su qualcuno, sì, mi sono rotto il cazzo di far finta di parlare d’altro per nascondere un asso nella manica sinistra della giacca, fanculo.

Per dire, ci sono diversi addetti ai lavori, parlo di addetti ai lavori del settore musicale, cioè gente che, non avessi in qualche modo maturato la decisione di staccarmi definitivamente da questo ambiente una volta che tutto questo sarà finito, sempre che prima o poi, in effetti, tutto questo sarà finito, gente che ha a che fare con me non dico quotidianamente, ma abbastanza spesso, gente che, questo è un po’ il ruolo che mi sono andato a ritagliare, lo sapete, ve l’ho descritto nei minimi passaggi, si trova molto più spesso nel ruolo di chi mi chiede favori che in quello a cui io devo chiedere favori, favori non ne chiedo poi molti, scrivo del cazzo che mi pare, e intervisto chi voglio, se qualcuno non è interessato a una mia intervista sopravvivo alla cosa, cazzi suoi, è lui che avrà una intervista in meno, non io, io che, lo avrete magari un filo notato, non ho una grandissima difficoltà a trovare argomenti di cui parlare, sono per dire novantasei giorni di fila che scrivo ogni giorno capitoli lunghissimi di questo diario, nonostante il mondo nel quale lavoro, o lavoravo, è praticamente fermo a Sanremo, tutti morti e neanche trasformati in zombie di romeriana memoria, e anche nella mia vita persona non è che sia successo moltissimo, sempre in casa, sempre in casa con la mia famiglia, l’impossibilità di fare cose, vedere gente, Nanni Moretti docet, ho appena superato i duemilionicentoquarantamila caratteri, si fottano tutti quelli che pensano di avermi fatto favori, si fottano questi tipi che, in questi giorni, si sono premurati di rompermi il cazzo, ripetutamente e gratuitamente, sui social. Quindi addetti ai lavori, gente di non altissimo profilo, per capirsi, di quelli che a volte puntano anche sul pietismo, lavorano su progetti del cazzo e solo sul pietismo possono far leva per ottenere un po’ di attenzione, che di colpo sclerano e ti mandano a fare in culo sui social. Uno, addirittura, giorni fa, subito dopo che era tornata in Italia Silvia Romano, roba che sembra successa eoni fa, come quando Morgan sfanculava Bugo sul palco dell’Ariston, e invece sono passati giorni, toh, settimane, ma non ere glaciali, mi ha taggato in un post sessista e razzista, con battute che neanche un leghista di basso profilo al bar, dopo cinque bianchini a stomaco vuoto, salvo poi darmi dell’idiota, e come a me anche a tutta una serie di altri addetti ai lavori, con conseguente ban per tutti e poi cancellazione del post incriminato, amici comuni mandati nel vano tentativo di metterci una pezza.

Insomma, gente che evidentemente non ha retto lo stress, ci sta, ma che ha dimostrato il fatto di non aver retto lo stress ripetutamente, come fosse un vanto, qualcosa di cui andare fieri e da spiattellare sotto gli occhi di tutti.

Una forma di suicidio, quella, non fosse, appunto, che si sottolineava poc’anzi come in genere quella sia prerogativa di gente particolarmente sensibile e intelligente, ovviamente una cazzata, non voglio affrontare il tema del suicidio in un capitolo in cui parlo di coglioni, ma la depressione è una malattia serissima, che si cura non certo infondendo ottimismo o provando a dire “dai, andrà meglio”.

Trovo curioso, per altro, che un numero piuttosto impressionante degli scrittori che amo si siano suicidati, da Hunter S. Thompson a David Foster Wallace, passando per Hemingway, anche se curioso non è il termine giusto, forse avrei dovuto dire sinistro, non fosse che io, in effetti, sono ambidestro.

Sono stanco, scusate.

Ma se è vero come è vero che chi pensa troppo sta peggio di chi pensa poco, credo di averlo approfondito in maniera abbastanza esaustiva, un’altra grande verità, una grande verità qui in versione pret-a-porter è che a volte guardare chi sta peggio di noi è un ottimo deterrente all’autocommiserazione, anzi, un vero incentivo a guardare avanti con maggiore forza d’animo.

Pensa a chi sta peggio di te, ci ripetevano da bambini, a volte anche con intenti vagamente plagiatori, intimidatori, come quando ci dicevano: “Non ti va la frittata?, pensa ai bambini in Africa che non hanno da mangiare”, il che rovesciava gli intenti motivazionali del dire “pensa a chi sta peggio di te”, per il solo fine di ottenere un qualche risultato, le immagini dei bambini del Biafra, così ce li presentavano, le pance gonfie d’aria, le mosche a tormentare la pelle, gli occhi giganteschi, vivi, a guardarci negli occhi, sempre che sia possibile guardare negli occhi qualcuno attraverso una fotografia o da dentro un televisore, le immagini dei bambini del Biafra sono state una costante della mia infanzia, e come della mia anche di quanti sono nati e cresciuti negli anni Settanta, nati negli Sessanta, mica è un caso che poi siamo stati i ragazzi che hanno seguito Live Aid in tv, quelli che hanno comprato il singolo di Band Aid, Do They Know It’S Christimas Time e di USA for Africa, We Are the World, anche se io il concerto mica l’ho visto, in realtà, l’ho recuperato anni dopo in VHS, perché quel pomeriggio, era sabato, ero andato come sempre a giocare a pallone al campo di San Francesco alle Scale, nel centro storico di Ancona, un campo in cemento armato sul quale ho lasciato, in quegli stessi anni Ottanta, un pezzo di carne del mio braccio destro, pezzo di carne che poi mi verrà rattoppato al pronto soccorso dell’Ospedale Umberto I di Ancona, quello che un tempo sorgeva in centro, sopra l’appartamento nel quale Nanni Moretti, sempre lui, ha girato La stanza del figlio, ve ne parlavo giorni fa, col medico che poi si prese carico di togliermi le garze, per le medicazioni, che incautamente mi ha tagliato con le forbici un altro pezzo di carne, sull’incavo del braccio, io che urlavo, dicendo che mi faceva male, e lui, il dottorino del cazzo, ve l’ho detto che non sempre i medici sono stati eroi, che mi diceva che non capiva perché mi lamentassi, salvo poi accorgersi del danno fatto, il sangue a ettolitri, e via altri punti, a farmi fare il cascatone sul cemento armato, al campo di San Francesco alle scale, Barbone, un ragazzo che chiamavamo solo col suo cognome, non ho mai capito se con intenti denigratori, del resto lì c’erano anche ragazzi più piccoli di noi che chiamavamo rispettivamente Donno Lupo o Il Cagatore Folle, anche avessimo avuto intenti denigratori non gli sarebbe andato poi così male, il Cagatore Folle, per la cronaca, così chiamato perché una volta, dopo una discesa sulla fascia, non si era fermato sulla linea di fondo e era corso verso casa, perché, ci avrebbe detto poi, si stava cagando addosso, Barbone che mi aveva steso senza alcun motivo apparente, non credo fosse mentalmente stabilissimo, Barbone, anzi, ne sono certo, lasciandomi a terra, la carne strisciata sul cemento del campo di San Francesco alle Scale, dove quel sabato pomeriggio di metà anni Ottanta io ero andato a giocare, come sempre, mentre andava in onda il Live Aid, a dircelo Stefano, il mio amico che mi aveva fatto conoscere il R.E.M. e gli U2, oltre i tanti altri, che ovviamente aveva rinunciato alla solita partitella per seguire quell’evento epocale.

Ma non è del Biafra o dei bambini del Biafra che voglio parlare, né dell’uso malefico che i nostri genitori hanno fatto della notizia che in Africa c’erano bambini che morivano di fame mentre noi, lì, ci rifiutavamo di mangiare qualcosa che non ci piaceva, a chi cazzo piace la frittata?, mi chiedo ancora oggi, ma più dell’uso consono dell’espressione “però c’è chi sta peggio di noi”. Espressione che, nello specifico, oggi utilizzerò per raccontarvi di chi, in apparenza, sta facendo invece del suo stare particolarmente bene il suo core business, oltre che il punto di forza della propria comunicazione.

C’è che ho visto il video di Paola Maugeri nel quale lancia la sua creatura “Humans, professione essere umano”.

L’ho visto sui social, condiviso da un mio contatto, e ne sono rimasto colpitissimo, al pari di quello nel quale Gallera, l’assessore al Wellfare della Regione Lombardia, spiega che col contagio a un tasso dello 0,5% per essere contagiati tocca trovarsi tra due infetti, ognuno portatore del proprio 0,5%, appunto, mentre col tasso all’1% ne basta solo uno, roba che neanche Monty Python al top.

C’è Paola Maugeri, le mani giunte come di chi prega, un sorriso smagliante a trentadue denti, i capelli appena fatti dal parrucchiere, che con parole assolutamente deliranti e enfatiche, inizia dicendo che erano anni che attendeva questo momento, ci dice che sta per partire questo suo progetto di mentoring, frutto di anni di studio, a un certo punto ringrazia tutti i suoi insegnanti che le hanno permesso di essere chi è, manco fosse stocazzo, progetto che parte, ci dice sempre Paola Maugeri, una che quando si occupava di musica era considerata all’unanimità una capitata nel posto giusto al momento giusto, senza particolari meriti o talenti, non a caso poi si era buttata sul veganesimo, provando a far fruttare economicamente una sua scelta di vita, tutti ricorderete le sue foto a zizze di fuori, lei che per essere in armonia col mondo aveva deciso di allattare il figlio fino a un numero imprecisato di anni, povero figlio, un percorso che l’ha portata fino a Humans, con le migliaia di richieste di mentoring, ci dice Paola Maugeri, “possiamo essere i tuoi metee?”, le tante domande a lei rivolte ancora senza risposta, la volontà di un contatto diretto con lei da parte di migliaia di persone, persone che ora hanno modo di iscriversi a Humans, professione essere umano, per poter imparare come diventare un essere umano degno di quel nome, ci dice sempre lei, la voce affettata, lo sguardo invasato, affrettatevi a iscrivervi, dice, perché anche se le domande e le richieste sono migliaia e migliaia a poter entrare in Humans saranno solo pochi eletti, questo afferma, prima di salutare, le mani sempre giunte, due anelli sui mignoli, ringraziando.

Ho visto questo video, e come me molti.

A differenza di molti non l’ho condiviso sui social, non me la sono sentita, e non ho lasciato commenti, perché quelli che ho trovato erano già abbastanza crudeli.

Ma me lo sono salvato, perché ogni giorno a venire, spero mai più giorni di clausura, tra quattro giorni arriveremo al centesimo, per altro nel giorno del mio cinquantunesimo compleanno, perché ogni giorno a venire, se mai mi dovessi sentire giù, triste, malinconico, o peggio, sfortunato, in disgrazia, me misero, me tapino, perseguitato da un fato baro e crudele, nessuna speranza per il futuro, la morte nel cuore, potrò sempre pensare che al mondo c’è chi sta peggio di me, tipo Paola Maugeri, una che abusa talmente della parola “resilienza” che la prossima volta che la sento pronunciare a cazzo mi riempio di Mentos e Coca Cola e mi faccio saltare in aria, hai voglia poi a rimettere insieme i pezzi, roba che neanche quando mi si è rotta la porta in vetro temperato della doccia, ho trovato i pezzetti microscopici anche a distanza di mesi, infilati da qualche parte, Paola Maugeri, una che si è ridotta a fare la mentor o le migliaia, che dico?, i milioni, i miliardi di persone che si iscriveranno a Humans, professione essere umano.

Cazzo, professione essere umano, già fatico a far capire alla gente che scrivere è un mestiere, figuriamoci se provassi a spiegare loro che anche essere umano, adesso, è un lavoro, non oso immaginare lei, Paola Maugeri.

Ecco, Mengoni mi ha sempre fatto abbastanza cagare, anzi, parecchio, ma mai come oggi non sopporterei di ascoltare la sua Esseri umani, quella che ripete ossessivamente “credo negli esseri umani/ credo negli esseri umani/ credo negli esseri umani/ che hanno coraggio/ Coraggio di essere umani”.

Ecco, no, non ci credo affatto negli esseri umani. Non più.