“Ogni anno 25 piloti cominciano il campionato di Formula Uno. E ogni anno due di noi muoiono. Che razza di persona fa un lavoro del genere?”. Comincia così Rush (2013) di Ron Howard, con la voice over di Niki Lauda (Daniel Brühl) che spiega cos’è un pilota di Formula Uno. “Ribelli, lunatici, sognatori. Gente che vuole lasciare un segno ed è disposta a morire provandoci”, continua. Chissà se nella paradossale descrizione di questi uomini a trecento all’ora non risuoni la suggestione di un altro grandioso film sullo sport, Million Dollar Baby di Clint Eastwood. Nel quale Morgan Freeman, quando descrive il carattere di un pugile, dice: “La boxe è qualcosa di innaturale, perché si fa sempre tutto al contrario. Invece di allontanarti dal dolore, come farebbe qualunque persona sana, gli vai incontro”.
Per raggiugere l’eccellenza nello sport, insomma, si deve fare l’esatto contrario di ciò che buon senso e istinto di conservazione suggerirebbero: andare verso il dolore, sfidare la morte per ottenere qualcosa di più alto e diverso. Ora, è vero che Rush non possiede la profondità morale e la composta severità formale del capolavoro di Eastwood. Però va riconosciuto a Ron Howard, in quello che insieme a Fuoco Assassino è il suo miglior film, di aver costruito un ritratto dell’automobilismo accorato e partecipe, con un occhio al grande spettacolo che non tradisce la verosimiglianza del racconto.
Che s’affida a una storia vera migliore di qualunque sceneggiatura, con al centro la rivalità perfetta di Niki Lauda e James Hunt (Chris Hemsworth), nel campionato di Formula Uno del 1976. Il racconto è talmento pieno di colpi di scena, che nemmeno il fatto di sapere in anticipo cosa sta per accadere attenua il coinvolgimento dello spettatore, col fiato sospeso davanti a ogni rovescio della trama e a ogni nuova curva della pista.
Il gioco dei caratteri agli antipodi funziona perfettamente. Lauda è il pilota bruttino, metodico, ragioniere della velocità che calcola in percentuale il massimo di rischio tollerabile (“il 20%”, dice), senza pose divistiche o sacri fuochi. Hunt è la rockstar su quattro ruote: sciupafemmine, indisciplinato, un pilota tutto istinto (per non dire altro) che vive ogni giorno come fosse l’ultimo. Per lui l’auto di Formula Uno è “una piccola bara circondata da supercarburante”. E pare quasi sia l’odore della morte a spingerlo oltre l’ostacolo e verso il successo.
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In Rush, inoltre, accade esattamente il contrario di ciò che logica vorrebbe: perché è l’accorto Lauda che rischia di morire nel terribile incidente al Gran Premio di Germania del 1 agosto 1976. Che, incredibilmente, lo terrà fuori gioco per soli 42 giorni – è tutto vero –, alla fine dei quali torna in pista per rintuzzare la corsa del rivale verso il titolo. Ron Howard è bravo nel costruire una grande epica popolare – gli sportivi come gli autentici eroi dei nostri tempi –, i due protagonisti ritratti come moderni cavalieri, con qualche macchia e qualche paura, determinati ma imperfetti, ossessivi e intrattabili.
Ron Howard costruisce un racconto spettacolare ma senza fronzoli e rende funzionale ogni dettaglio al mantenimento di un respiro narrativo maestoso, nel quale l’emozione è insita nei fatti, senza bisogno di esasperazioni. In un cinema contemporaneo che abbonda di effetti visivi, di timelapse e freeze frame, il regista opta per uno stile classico e terso, che restituisce il senso della velocità e del pericolo attraverso la scansione delle inquadrature in primissimo piano e da tantissimi angoli visivi, combinate in un montaggio senza pause che tiene sempre insieme il dettaglio e il volto, la macchina e il pilota che la governa. La concentrazione assoluta sulla storia è dimostrata anche dalla cura scenografica, che è precisa ma senza farsi distrarre dall’ambientazione anni Settanta, di cui altri registi avrebbero approfittato per annegare il film in fastidiosi ammiccamenti vintage alle mode dell’epoca.
Rush racconta una storia che sembra un bromance (le donne infatti restano sullo sfondo), perché è chiarissimo che la rivalità tra Lauda e Hunt è una mai dichiarata amicizia fondata sull’ammirazione reciproca, pur nella differenza integrale dei caratteri. Lauda vince perché è fatto esattamente in quel modo, lo stesso Hunt. Nessuno dei due invidia o desidera la vita dell’altro, che non gli si attaglierebbe, ma non viene mai meno il rispetto. Ed entrambi continuano a vivere (e vincere) a modo loro, senza bisogno o voglia di cambiare.
Rush è la dimostrazione di come, quando si ha una buona storia di partenza, quello che bisogna fare è mettersi al suo servizio per non sciuparla. Howard ci aggiunge una scelta di due protagonisti indovinatissimi, anche somaticamente, brusco e tagliente Brühl, buffone e piacione Hemsworth. E nel calibrare i toni il regista indovina anche l’epilogo, una semplice conversazione più emozionante delle corse a rotta di collo in pista. Perché è chiaro che in una storia arcinota, ciò che trascina e commuove davvero sono i sentimenti dei personaggi ritratti mentre fanno quello che più amano fare.