Il 20 maggio è il compleanno di Cher, che tutti ricordiamo per quella Believe che alle nostre orecchie ancora digiune di una certa tecnologia suonava così meravigliosamente strana.
74 primavere, oggi, per Cherilyn Sarkisian LaPierre: 28 dischi in studio, tante interpretazioni nel cinema e tanti cambi d’abito che oggi la fanno ricordare come un’artista camaleontica e versatile sia nell’estetica che nei percorsi artistici.
Era il 19 ottobre 1998 quando il singolo Believe divenne il tormentone post-estivo, con quella melodia orecchiabile, quel beat che infiammava i dancefloor e quello strano effetto sulla voce: il 1998 è stato l’anno in cui l’autotune, fino a quel momento usato in maniera più moderata, divenne una vera e propria scuola di pensiero.
L’autotune (auto-intonatore) non è nient’altro che la meccanizzazione melodica delle note registrate con la voce per fare in modo che tutto resti perfettamente dentro il pentagramma e dentro la tonalità del brano. Un filtro correttivo, in pratica, che aggiusta la performance in studio del cantante per rendere perfetto il risultato.
Con Cher fu diverso: fino a quel momento la musica mainstream aveva fatto ricorso al vocoder o all’harmonizer e l’autotune era ancora messo a cuccia nell’armadio degli scheletri scomodi. Believe aveva tracciato un confine tra un prima e un dopo, presentando al pubblico pop un inno amaro all’amore in cui la voce della diva era robotica, con quegli stacci armonici tra una nota e l’altra che rendevano il tutto irreale, più fedele alla macchina che all’uomo.
Oggi l’autotune è peculiarità della trap e lo stesso Sfera Ebbasta sbeffeggia chi critica tale ricorso nel suo album Rockstar col brano Bancomat: “Sfera Ebbasta ha ucciso il rap con la Sprite e l’autotune. Sì, lo so che un po’ ti sca**a perché non l’hai fatto tu”.
Il compleanno di Cher è il genetliaco di un’artista rivoluzionaria: con Believe la diva si rilanciò e lo fece con l’avanguardia che già allora fece storcere il naso a tantissima gente.