Ho cominciato a scrivere e poi a scrivere di musica nel Novecento.
Segnatevelo e andiamo oltre.
Ho scelto, immagino assecondando la mia natura, un mestiere individuale e individualista, che non preveda, cioè, la mia interazione con gli altri, se non saltuaria e mirata a progetti specifici, e che, di conseguenza, non includa anche il corporativismo e un’idea di consorteria quale un sindacato, una associazione di categoria o cose di quel genere. Questo senza neanche prendere in considerazione l’interazione coi lettori, stortura recente, figlia della rete e soprattutto dei social, chi scrive scrive, chi legge legge, il fatto che possa commentare, entrare in contatto con chi scrive, spesso, troppo spesso, mettere in dubbio quello che ha letto, è appunto qualcosa di poco attinente al lavoro, fa parte di quel modo sbagliato di intendere le competenze e i mestieri, uno non è mai valso uno, figuriamoci se può essere applicata questa stupida regoletta in un contesto in cui le competenze sono così difficili da mettere insieme, la credibilità o reputazione che dir si voglia, così costantemente messa in discussione.
L’ho scelto, dicevo, assecondando ipoteticamente la mia natura, ma in realtà, e qui sto andando incontro a un argomento forse troppo grande da essere affrontato all’ottantaquattresimo giorno di pandemia, nell’ottantaquattresimo capitolo del diario del contagio che sto scrivendo, in realtà non è che abbia avuto una grande scelta, questo è il mio talento, quello che biblicamente non va tenuto sotterrato sperando che frutti, e questo è il luogo, metaforico, nel quale quel talento può operare.
E attenzione, la citazione anche piuttosto banalotta estrapolata dalla Bibbia non sta affatto lì per caso.
So scrivere, l’ho appreso anche in tarda età, nel senso che non sono tra quanti da bambino scriveva storie fantastiche o appuntava la propria vita sfigata su un diario, non mi è mai fregato molto di fare ciò. L’ho scoperto quando avevo finito le scuole dell’obbligo, ve l’ho già raccontato, è inutile lo faccia di nuovo. Ho iniziato a scrivere, sono stato da subito identificato come uno scrittore, mi è stato proposto di affiancare a quel lavoro quello di critico musicale, ho risposto “presente”, poi ho avuto modo di scrivere per altre discipline e altri media, si trattasse del teatro, della radio, della tv e recentemente anche del cinema, sono stato io l’autore delle interviste del film Vasco Non Stop 018-019, diciamo che ho assecondato il mio talento, riconosciuto come tale dal sistema che quel tipo di talenti in qualche modo accoglie e coordina, facendo del mio essere spirito libero, poco incline a stare sotto padrone, affatto incline a stare dentro caselle circoscritte, asfittiche, andando quindi a fare una vita che agli occhi di alcuni, immagino quelli che fanno una vita su altri alvei, apparirà affascinante, da spot della Nestlè, il tizio che scrive di notte guardando il mare dal faro solitario nel quale vive, o da dopo sbronza passato sul sedile di dietro della limousine, occhiali da mosca, giacca di strass, un concerto via l’altro, mentre nei fatti è più inquadrabile in quel contesto che viene genericamente chiamato “vita di merda”, costantemente in bilico tra l’avere la giusta intuizione e non averne affatto, sempre costretto alla performance vincente, sempre con la testa a girare, a prendere appunti a mente, rendendo vera la già citata massima di Conrad che guardava dalla finestra, incapace di staccare davvero perché impossibilitato a staccare davvero.
Ciò nondimeno l’ho fatto, con ostinazione, con anarchia, con costanza.
E sono arrivato fin qui.
Ho cominciato a scrivere e pò a scrivere di musica nel Novecento, però.
E non è un dettaglio da niente, irrilevante.
Il Novecento, cazzo.
Una vita fa.
Giorni fa ho sentito Paolo Mieli, in una chiacchiera in realtà avvenuta diverse settimane fa con Cesare Cremonini, asserire che il Coronavirus ha sancito la fine del Novecento, esattamente come la Prima Guerra Mondiale aveva fatto con l’Ottocento.
Non siamo più nel Novecento, quindi. Lo dice Paolo Mieli. E non essendo più nel Novecento, mi dico e vi dico, credo che siano da prendere in considerazione alcuni cambiamenti che dovrebbero indurci a rivedere alcuni passaggi della nostra quotidianità, parlando per me, del mio mestiere.
Parliamo di recensioni musicali e di recensioni musicali oggi, per dire, quella che dovrebbe essere la base del lavoro del critico musicale, almeno nella versione prêt-à-porter.
Immaginate di stare sul vostro divano, a guardare la vostra serie Tv preferita. O magari no, anche una serie Tv che non vi piace, fa lo stesso. Immaginate di stare lì, la tazza con la tisana allo zenzero appoggiata sul parquet, il pile a coprire le gambe (so che è caldo, primavera inoltrata, ma non nascondiamoci dietro un dito, usate ancora quelle tisane del cazzo e inspiegabilmente vi coprite ancora con quelle orribili coperte). Ecco, poi immaginate che sul bracciolo del divano, quello su cui solitamente appoggiate la testa ci sia io, che vi racconto in tempo reale, giusto con quel ritardo di qualche secondo, il tempo tecnico per farlo, tutto quello che state vedendo. Tizio ha appena detto alla sua fidanzata che la vuole lasciare e lei non sembra poi così sorpresa? Succede e dopo un paio di secondi io ve lo dico, esattamente per come è successo. Caio ha appena detto al suo datore di lavoro che intende licenziarsi per inseguire i propri sogni? Ecco che ve lo racconto. Niente a che vedere, per dire, con il Nanni Moretti che in Caro Diario leggeva nella notte l’orribile recensione incensatoria di Henry Pioggia di Sangue al critico cinematografico, chiedendogliene implicitamente ragione, no, proprio una semplice cronaca dei fatti, tizio ha detto questo alla fidanzata, Caio ha detto quest’altro al suo capo, per altro subito dopo che Tizio ha fatto questo e Caio quest’altro, quindi senza rischi spolier, certo, ma anche senza quel minimo di interesse che il raccontare una storia a qualcuno possa avere.
Posso giusto aggiungere qualche suggestione, provare a ipotizzare i motivi, magari lanciarmi in considerazioni generali sull’amore, sulla caducità dei rapporti in questa epoca frammentaria e iperconnessa, ma che Tizio ha appena detto alla sua fidanzata che la vuole lasciare e che lei non sembra poi così sorpresa resta il succo del discorso, o lanciare la suggestione che se Caio ha deciso di licenziarsi non è tanto perché vuole davvero inseguire il suo sogno di libertà, ma perché ha intuito che di lì a poco sarebbe stato licenziato, perché non è mai stato uno con la schiena piegata sulla scrivania, senza con questo lanciarmi in un qualche dibattito su lavoro pubblico e privato sia chiaro, e relative tutele, e un licenziamento sul cv pesa assai di più di un anno sabbatico. Non esattamente giudizi di merito, quindi, più suggestioni che possano essere utili per la fruizione immediata, non necessarie ma neanche nocive.
Suppongo, senza neanche dovermi sforzare troppo, che sulle prime restereste sorpresi, magari anche divertiti, sempre che vi diverta l’idea di me seduto come Snoopy sul bracciolo del vostro divano, ma alla lunga la cosa diventerebbe stucchevole, noiosa, o più semplicemente inutile. State guardando la Tv, sapete esattamente quel che state vedendo, sta lì, davanti ai vostri occhi.
Ora, azzardare che chi recensisce musica, o qualsiasi altra forma d’arte, si limita a raccontarla è ovviamente un paradosso, e il paradosso è parte integrante del fare recensioni oggi, sia nella sostanza che nella forma, lo vedremo a breve, ma sta di fatto che, da che ho cominciato a scrivere di musica, nel Novecento, a oggi, la faccenda ha assunto sempre più toni simili al raccontino che vi ho appena fatto.
Nel Novecento, va beh, diciamo alla fine del Novecento, quando ho cominciato a scrivere di musica per Tutto Musica e Panorama, succedeva che noi che recensivamo dischi ricevessimo i lavori circa un mese, un mese e mezzo prima che detti lavori uscissero. Li ricevevamo in gran segreto, nel senso che era una sorta di rito tra iniziati, e del resto non è che avessimo chissà che modo di divulgare la cosa. La rete esisteva, ma era più che altro un circolo esclusivo, volendo anche qualcosa di vagamente fantascientifico, cui si accedeva solo se si aveva un conto in banca consistente o conoscenze scientifiche che ai non nerd, all’epoca per altro la parola nerd aveva solo una connotazione negativa, nessuna sfumatura da smanettone digitale, solo da spippolatore di piselli in gran segreto, non ho mai voluto vedere l’omonimo film, perché ero un intellettuale snob già da ragazzino, ma quel concetto mi era piuttosto chiaro, ai non nerd erano negate in partenza.
Non c’erano, e qui sta davvero il punto, i siti dove condividere musica, perché magari oggi ce lo siamo scordati ma per un po’ di tempo c’era chi prendeva la musica, spesso scaricata a sua volta illegalmente, e la condivideva gratuitamente con gli altri su siti illegali, e più in generale esisteva una etica legata anche al fatto che a scrivere di musica fossimo in pochi, e tutti in qualche maniera selezionati da editori e direttori di riviste e giornali. Quindi ricevevamo i dischi con ampio anticipo, li ascoltavamo più e più volte, li analizzavamo coi pochi mezzi che avevamo a nostra disposizione, non c’era né Google né Wikipedia, per intendersi, facendo quindi leva prevalentemente su quella faccenduola della nostra cultura musicale, ahi, le competenze, più che altro, e a quel punto scrivevamo una recensione che sarebbe uscita, Tutto Musica, per andare nel concreto era un mensile, qualche settimana dopo, e che in tutti i casi avrebbe anticipato di qualche giorno l’uscita reale del disco nei negozi preposti a venderlo. Tutte cose strane, lette oggi, intendendo non oggi in era pandemica e emergenziale, ma un più generico oggi orientato sul calendario, anno del Signore 2020. E la faccenda ancora più strana era che chi avesse voluto poi ascoltare quel disco, quello che chi faceva il mio mestiere aveva ascoltato con largo anticipo e del quale aveva scritto con un certo anticipo, avrebbe potuto fare una cosa e una cosa soltanto, andare nel negozio preposto a venderlo e comprarlo. Non c’erano neanche lo streaming, Spotify e affini, allora, sempre che ci siano ancora, vallo a capire, non c’era neppure Youtube, nada de nada.
Lo scopo di chi, come me, scriveva recensioni era quindi, parafraso, quello di raccontare la trama del disco, potendosi permettere, anzi, dovendosi permettere tutti gli spoiler possibili, vedi alla parola cultura musicale applicata alla narrazione, chiunque all’epoca avesse usato la parola storytelling sarebbe passato per uno strano, alla Massarini, immagino.
Dovevamo, in sostanza, convincere chi ci leggeva, e chi leggendoci aveva stretto un patto di fiducia con noi, che un determinato disco valesse o meno, che valesse, quindi, o meno la pena di spendere dei soldi per comprarlo. Di più, valesse la pena di uscire di casa, andare in un negozio di dischi e comprarlo, e quando dico comprarlo intendo quel gesto atavico di tirare fuori soldi dal portafogli, all’epoca le carte di credito, di debito, le prepagate non erano così diffuse, e darle a un negoziante, il padrone del negozio di dischi, o il commesso del negozio di dischi, che in cambio ti avrebbe dato il disco, nello specifico il cd, i vinili erano all’epoca dati per morti. Tutte cose oggi fantascientifiche.
Succedeva, quindi, che chi, come me, scriveva recensioni, diventasse in qualche modo un punto di riferimento per chi leggeva di musica, magari anche un punto di riferimento negativo, non importa, sempre e comunque una voce da tenere in conto, sia per seguirla con fiducia sia per fare esattamente il contrario di quel che diceva.
Avevo detto che il disco X era bellissimo, lo avevi comprato e a te non era piaciuto? Non ti saresti più fidato di me. O magari mi avresti concesso un altro paio di chance, ma non di più, perché i dischi costavano parecchio. Erano soldi mal spesi, magari i soli che avevi da spendere per quel mese.
Ti avevo consigliato un disco di un artista che non conoscevi? Bene, da quel momento avresti seguito i miei consigli, e se anche successivamente i miei consigli si fossero dimostrati azzeccati, beh, a quel punto sarei stato il tuo faro nella notte, motivo per il quale, immagino, ancora oggi, a distanza di venti e passa anni, ti senti in dovere di dirmi che mi leggevi sempre ai tempi di Tutto Musica, citandomi questa o quella stroncatura, o questa o quella geniale intuizione, perché difficilmente se ti stavo sul cazzo all’epoca ora ti senti in diritto o dovere di scrivermi, lo so bene, e me ne compiaccio. Un legame, quindi, che dura nel tempo, come certe storie d’amore che ci piace ricordare a distanza di decine d’anni, e parlo, in questo caso, per sentito dire, perché ho avuto una sola storia d’amore in vita mia, quella con Marina, mia compagna da oltre trentadue anni.
Poi è successo quel che sapete.
Il Cd.
L’MP3.
Napster.
Emule.
Torrent.
La discografia allo sbaraglio.
I talent ultima ancora.
Lo streaming.
La morte delle riviste di carta nel mezzo, più verso l’inizio di questa linea temporale che verso la fine.
La rete divenuta non solo piattaforma unica in cui ascoltare musica, ma in cui leggerne.
La rete che ha concesso voce a tutti, in qualche modo rendendo più difficile essere credibili, in mezzo a questo oceano.
Raccontare la trama di una serie Tv che stai vedendo non serve, ce lo siamo già detti.
Recensire un album che chi recensisce ha ascoltato nello stesso momento in cui lo hai ascoltato tu, forse, neanche.
Di qui, potenzialmente, la fine della critica musicale, o quantomeno della critica musicale per come la conoscevamo noi.
Perché se da una parte è vero e ovvio che la critica non è il racconto della trama di una serie Tv, ma, restando su quel segmento d’arte, l’analisi della trama, la connessione tra quella serie Tv e le altre serie Tv, precedenti e contemporanee, il parallelismo tra la serie Tv e la contemporaneità, l’iscrizione di quella serie Tv nel percorso artistico del regista, dell’autore, degli attori che la interpretano, la decifrazione, in sostanza, delle sovrastrutture e i linguaggi, degli stilemi e dei messaggi, e mi voglio fermare qui solo perché delle serie Tv mi frega molto relativamente, dall’altra è anche vero che se la rete ha contribuito a rendere la musica tutta ascoltabile subito, è anche vero che ne ha resa ascoltabile subito una tale quantità che qualcuno che ci guidi potrebbe aver senso averlo di fronte.
Questo, però, potrebbe non valere per quel che riguarda gli artisti che già conosciamo, e di cui sappiamo è appena uscito un album.
Nel senso, ovvio, grazie al critico X che mi ha segnalato un disco di una tribù Masai del Kenya che magari non avrei mai scoperto da solo, ma se esce il nuovo Mixtape della Machete lo so da me, non ho bisogno che X me lo venga a dire, me lo dice la radio, me lo dicono i social, se sono tra quanti usufruiscono della musica attraverso lo streaming me lo suggerisce direttamente colui al quale ho delegato di scegliere per me la musica che ascolto, sia Spotify o Amazon poco cambia.
Allora X, che nello specifico sarei io, deve o dovrebbe fare altro, non fosse altro perché del disco della tribù Masai del Kenya nulla so e nulla mi interessa.
Innanzitutto deve/dovrebbe fare quello che è il lavoro del critico, analizzare, spiegare, fornire mezzi per analizzare e comprendere a chi, teoricamente, non è tenuto a averne, e poi, ma questa è la mia visione del mio mestiere, deve/dovrebbe anche provare a fare altro, cioè iscrivere un determinato lavoro nella contemporaneità, quindi occuparsi in qualche modo del mondo che ci circonda, volendo anche del sistema musica che ha partorito, inglobato e respinto un determinato prodotto.
Potrebbe quindi succedere, succede spesso, che X, che poi sarei io, viene a dirvi che l’album uscito alla mezzanotte di qualche giorno prima, perché se X è coscienzioso, in genere, non ne scrive subito, quello lo fanno gli acchiappaclick, quello che avete già adorato alla follia, sia nei fatti aberrante. Il che, magari, non è cosa gradevolissima, perché se state a tavola e vi abbuffate sul vostro piatto preferito l’ultima cosa che volete o vorreste è che arrivi vostra madre a dirvi che vi farà venire l’acne, che vi sballerà il colesterolo, che tutto quello che vi sta facendo godere vi finirà sulle maniglie dell’amore, o più semplicemente, perché a volte non serve neanche addentrarsi in analisi troppo complesse, che quello che state adorando è la classica e fantozziana “cagata pazzesca”.
Ma tant’è.
Il critico musicale non deve compiacere chi legge, come magari erroneamente qualcuno pensa, quel qualcuno che in genere compare nei commenti sotto le recensioni online con frasi come “se non ti piace Tizio non ascoltarlo e soprattutto non scriverne” e, peggio, “ricordati che se campi è grazie a noi che ti leggiamo e se scrivi cose che non ci piacciono non ti leggeremo più”. Non funziona così, per fortuna.
Chi scrive e chi fa critica in modo particolare, non è pagato dai lettori, è pagato dagli editori, proprio per quello che scrive e per come lo scrive. Non quindi perché compiace i lettori, ma perché fornisce un punto di vista importante, che l’editore evidentemente ritiene opportuno mettere a disposizione dei lettori, magari anche non condividendolo, perché gli editori, specie quelli illuminati, dovrebbero anche generare dibattito, contrapponendo visioni anche contrastandi tra loro, per dire, io scrivo per lo stesso magazine per il quale scrive Red Ronnie, novanta volte su cento su posizioni diverse dalle mie.
E qui passiamo forse all’ultimo dettaglio di questo discorso, a quel “Ho cominciato a scrivere di musica nel Novecento.” da cui tutto questo mio scritto è partito, sapete bene quanto io ami la scrittura concentrica, a tessere di domino, scrittura che oggi ho tenuto a bada, converrete, scrivendo frasi non troppo lunghe, senza cioè quel centinaio e più di relative che di solito vi danno l’idea del flusso di coscienza, flusso di coscienza che in realtà è assai distante dalla mia idea di scrittura, tutto molto controllato, tutto molto ragionato e ponderato, centinaia di relative oggi assente, se non in questa frase, posta qui proprio per contrasto, come a volervi dire, ricordatevi che fin qui ho praticato questo stilema qui, questa cifra qui, oggi non l’ho fatto perché non mi andava, sicuramente, e perché ritenevo che l’argomento affrontato, con quel mio voler affondare le radici, i piedi, magari, nel Novecento, richiedesse un linguaggio più piano, per quanto possa essere piano il mio linguaggio, più controllato, appunto, linguaggio da critico musicale più che da scrittore, sempre che si sia tra quanti pensano che il critico musicale dovrebbe non essere presente nei suoi scritti, visione che rigetto e rimando al mittente, con fermezza, perché penso invece che la presenza del critico musicale nelle critiche che scrive sia necessaria, e, per contro, che la sua assenza denoti una totale incapacità di svolgere il proprio mestiere, mestiere che, spoilero il finale di questo mio capitolo, è mio, posso fare il cazzo che voglio, credo non sia più così parte del mio percorso narrativo, percorso d’acqua ormai inaridito, desertificato, non certo da me, ma dal contesto esterno, ora poi basta, torno a scrivere come ho fatto oggi fin qui.
Il critico musicale, questa è la mia visione del mio mestiere, o di quello che è stato una parte del mio lavoro negli ultimi anni, non può limitarsi a scrivere analisi interessanti di musica, dovrebbe anche scriverle particolarmente bene. Dovrebbe, cioè, avere uno stile proprio, letterario, in tutte le accezioni di questo termine, capace di essere riconoscibile a prima vista già nella forma, ancor prima che nei contenuti.
La critica musicale non è giornalismo, è critica. Il giornalismo musicale è quello praticato dal 99% di quelli che, erroneamente, vengono considerati miei colleghi, e non lo dico per prenderne le distanze, le distanze le hanno già prese loro, ma proprio perché io nulla ho a che fare con il giornalismo, seppur tecnicamente è nel mondo del giornalismo che opero, e nulla ho a che spartire con il loro modo di intendere la musica, la comunicazione in musica, il veicolare informazioni e nozioni. Dando quindi per assodato che tutte quelle sciocchezze tipo “la critica deve essere costruttiva”, inventate dal mondo dei talent anche per depotenziare la voce dei critici, non sono altro che sciocchezze, appunto, resta che chi la pratica debba essere una voce autorevole, capace quindi di essere presa sul serio nel momento in cui ci sta dicendo che il nostro piatto preferito è in realtà una porcheria, ma ancor prima deve essere una voce.
Per parte mia, non posso che partire da me, non per narcisismo ma per praticità, come sempre, pragmatico in un mondo di evanescenti, ho deciso di eliminare dai miei scritti i toni medi, quindi uso enfasi e terrore, ho un registro di voti, fossimo a scuola, che va dallo zero al tre e dal sette al dieci, senza quelli nel mezzo. E questo mio eliminare i toni medi è esplicitato ancor prima che nei contenuti nello stile, nella cifra.
Scrivo prevalentemente in rete, dove tutto è iperveloce e sintetico, e dove si tende a essere anche violenti, spesso, o quantomeno shoccanti, quindi rovescio la regoletta non detta e scrivo solo testi lunghissimi, senza specificare nelle prime righe l’argomento di cui vado a parlare (le famose cinque W che andrebbero specificate nelle prime frasi) e soprattutto faccio mio un linguaggio parlato, gergale, che cerco di mischiare con un linguaggio alto, infarcito di citazioni e di riferimenti presi anche da altre forme d’arte.
Sono una voce.
Sono una voce autorevole.
Scrivo e scrivo di musica sin dal Novecento.
Non credo di voler più scrivere di musica.
Non nel modo in cui l’ho fatto fin qui.
Non scriverò più recensioni, le trovo noiose, superate, se ne compiacciano gli artisti, o sedicenti tali, e i fan degli artisti o sedicenti tali, che ho stroncato nel corso di questi anni, quelli che non hanno mancato di indirizzarmi il proprio odio e l’odio dei propri fan.
Non credo neanche che scriverò più del sistema musica, se ne compiacciano quanti ho smascherato, stigmatizzato, sputtanato, anche, le triadi, i discografici beoti, i promoter truffaldini, gli incapaci allo sbaraglio che hanno portato la musica in fondo al precipizio.
Sticazzi, dirà giustamente qualcuno, ma se per dirlo è arrivato a leggere fin qui, tremilasettecento parole dentro questo capitolo, quasi un milione ottocentomila battute dentro questo diario, beh, quantomeno è uno sticazzi conquistato sul campo, forse un filo autolesionistico, ma meritato.
Questo non cambierà sostanzialmente molto, volendola dire tutta, non ero uno da conferenze stampa, da corse al buffet, da presenze a tutti i costi, ero un outsider prima resto un outsider ora.
Resta tutta la rete di rapporti, più o meno stretti, più o meno amicali, più o meno dotati di stima reciproca e reciproca credibilità che ho costruito negli anni con artisti e addetti ai lavori, anche gli editori, ovviamente, le rughe che ho nella faccia son sempre lì, non intendo mica tirarle con un lifting o una puntura di botox.
Si tratta solo di capire, ma questo è un discorso che devo fare a voce bassa, forse addirittura a mente, che ruolo il mio essere uno scrittore e una voce riconoscibile dentro questo ambito, il mondo della musica, può andare a occupare, perché se un tempo scrittori e musicisti erano parte di uno stesso corollario, adesso la faccenda è un po’ meno definita, è poco definito anche chi sia uno scrittore e chi un musicista, del resto, non potrebbe che essere così. Non è mica un caso che io scriva queste mie parole oggi, dopo la levata di scudi di quanti di colpo si sono accorti che fermare la musica forse era cosa buona e giusta, dopo i tanti, troppi schiamazzi che hanno provato a contrapporre apertura delle chiese a apertura di teatri e cinema, come se fossero due ambiti in qualche modo collegabili, e come se il problema degli artisti, spesso artisti che nei teatri non ci suonavano prima e non andranno a suonarci poi, fosse nell’apertura delle chiese, non nell’incapacità del settore di fare cartello, o meglio, nell’incapacità degli artisti di fare cartello, perché FIMI, AFI, PMI, AssoMusica e compagnia cantante esistono eccome, il tutto mentre è noto, gli artisti e anche gli scrittori, che artisti sono, non sono mai stati cagati di striscio dai vari decreti, come tutti coloro che in questi ambiti, lo spettacolo e l’editoria, lavorano, figli di un Dio minore, forse addirittura senza Dio, non è un caso perché aver provato a dare una indicazione di massima e essermi per contro sentito dire che io, proprio io, avrei dovuto fare di più, o che avrei dovuto fare meglio mi dimostra, non che ce ne fosse bisogno, che spendere energie e competenze non è uno sport che andrebbe fatto gratis e con tutti.
Lo diceva Fossati, lo ripeto ancora una volta, non si regala l’intelligenza e la compagnia, un outsider dovrebbe ben saperlo.
Non credo, quindi, che riprenderò a parlare di musica come prima, se e quando tutto questo che stiamo in qualche modo continuando a vivere finirà.
Non credo, per intendersi, che parlerò più di musica demmerda.
Non so neanche se parlerò più di musica. Sicuramente non sarò vostra madre che vi dice che state mangiando male mentre state mangiando. Anche se, è evidente, quello che state mangiando vi porterà nella tomba.
A me sta bene.
Scriva di quello che le pare, sarà sempre interessante e spesso istruttivo continuare a leggerla.