Stare chiusi in casa per un periodo di tempo molto lungo, lunghissimo possiamo serenamente dire, immagino comporterà tutta una serie di disturbi psicologici che, prima o poi, ci dovremo preoccupare di identificare e provare a curare.
Vi avevo raccontato, ormai un numero imprecisato di giorni fa di come La Stampa avesse riportato un mero dato di fatto, a Torino nelle prime due settimane di lock down si erano già raggiunti i TSO dell’intero anno precedente, non oso pensare a che punto siamo arrivati ora. Del resto, in tutta quella serie di messaggi complottistici che ci ha invaso in questi mesi di clausura, uno tra quelli che ritengo meno improbabili è quello che vuole che tutte le ambulanze che di colpo abbiamo iniziato a sentire in giro per la città non siano relative a casi di Covid19, ma piuttosto di tentati suicidi, perché poi i suicidi riusciti, ovviamente, non richiedono dispiegamento di sirene, e questi dati qui, quanta gente si sia suicidata in questo periodo così oscuro e complicato, è in effetti un dato che ci manca, così come ci mancano dati relativi ai disturbi depressivi giunti dopo la pandemia, o quelli relativi a quanti soffrivano di depressione già prima, come stanno, sono ancora vivi, come li stanno curando in remoto, roba di questo genere.
Sappiamo, ma le notizie sono rare e immagino occultate da una stampa che mai come in questo caso si sta dimostrando stampa di regime, con tutto quel voler dar seguito alle volontà del governo (o dell’opposizione, a seconda di che giornale si prenda in considerazione), pensiamo alla faccenda dei presunti casi in aumento in Germania, inventati di sana pianta a casa nostra, o al discorso anti-vecchi di Boris Johnson, ricordate, no?, quel “preparatevi a perdere i vostri cari” da noi letto come un “chi cazzo se ne frega se moriranno un po’ di vecchi di merda”, laddove Johnson, che magari non sarà un genio, intendeva ripercorrere una tradizione di discorsi epici alla nazione non certo a manifestare menefreghismo, discorso distorto a nostro beneficio, o meglio, a beneficio dei nostri politici, insomma, roba da terzo o quarto mondo, sappiamo, comunque, che ci sono casi di violenza domestica, ma quelli c’erano anche prima, e Dio solo sa quante donne avranno patito il dover stare con a fianco compagni violenti 24 ore su 24, ma anche gente che è letteralmente andata fuori di testa, dal tizio che si è dato fuoco in strada, a poche centinaia di metri da casa mia, a quella che è salita nuda sulla macchina della polizia, passando per il tizio che si aggirava nudo per Corso Buenos Aires perché, diceva, lo avevano rapinato anche delle mutande, ma suppongo che il quadro sia assai più grave, con tutta una serie di disturbi mentali peggiorati nel mentre, e chissà quanti sopraggiunti proprio a causa della reclusione e del terrore, anche quello gentilmente impartito dai media.
Io stesso, ma credo che ognuno di noi potrebbe dire qualcosa a riguardo, mi accorgo di non essere esattamente il solito.
Intendiamoci, non che in genere io mi ritenga esattamente normale, anzi, non mi ritengo affatto normale, sul non essere normale ho costruito la mia professione, posso anche serenamente ammettere, oggi, salvo poi negarlo una volta che tutto questo sarà finito, sempre che prima o poi tutto questo sarà finito, che sul non essere normale ho costruito anche la mia carriera, almeno quella recente, da critico musicale eccentrico, quello coi codini alla Frank Zappa, uno che sicuramente normale non era e non voleva essere, anche se so bene che giocare sull’eccentricità per passare per genio, come Zappa, è correre su un terreno scivoloso, scivolosissimo, quello coi codini alla Frank Zappa e gli occhialoni rosa, come il Bono di Achtung Baby, quindi, solo che il rosa a stemperare il nero dei suoi occhialoni da mosca, quello che fa le interviste in costume alle terme, nonostante la panzona prominente, quello che lancia hashtag irriverenti come #LaFigaLaPortoIo, quello che parla dei buchi di culo dei cavalli, quello che cita nella stessa frase John Barth e le Las Ketchup, che scrive frasi con cento relative, che scrive pezzi, guai a chiamarli articoli, lunghi quanto dodici articoli normali, appunto, io che ci gongolo a non essere normale, me ne vanto, evidenzio tutti i dettagli che mi differenzino da quella che in genere viene ritenuta la normalità, ho insegnato ai miei figli che la diversità è una delle più grandi ricchezze che abbiamo a disposizione, certo non calcando la mano a favore dell’eccentricità, non è quello il discorso, ovviamente, ma comunque mai pensato che essere normali sia un valore, un pregio, oggetto di una qualche ricerca o specificità, ma con questo non intendo dire che io abbia un qualche tipo di disturbo psicologico, quella è una lettura della parola normale, spesso contrapposta a pazzo, matto, mattarello, eccentrico, appunto, che ovviamente rifuggo come la peste, espressione, questa, che decisamente oggi non credo si possa più usare senza correre il rischio di essere guardato non tanto come un pazzo ma come un pezzo di merda, una sola lettere, a volte, può fare una certa differenza.
Non rientro probabilmente nella categoria dei cosiddetti normali, io con vanto direi degli ordinari, ma che io sappia non ho mai sofferto di disturbi psicologici, ma in questa fase della mia vita, la fase caratterizzata dalla reclusione autoindotta o coatta a casa, mi accorgo di avere un umore decisamente più ballerino del solito. Ho, in sostanza, quelli che ormai tutti associamo al Coronavirus ma che, l’italiano prima di tutto, in realtà sono applicabili a tanti altri campi dello scibile, i cosiddetti picchi, passo velocemente dall’inedia all’iperattività, iperattività che sono sempre costretto a sopprimere sul nascere, perché in casa non è che abbia chissà quante cose da fare, dalla malinconia alla rabbia, passo giornate in cui ho una gran voglia di menare le mani, metaforicamente, sui social, a giorni che neanche li guardo, giorni nei quali vorrei parlare di continuo con Marina, che però lavora spesso in call coi suoi colleghi in giro per l’Europa, e giustamente non asseconda questa mia volontà, o i miei figli, che non sono in call, ma mi cagano poco, perché hanno sempre cose più interessanti da fare, anche quando possono staccare la spina da quella cagata di didattica a distanza, a giorni nei quali non vorrei staccare lo sguardo dall’iPad, lì a guardarmi qualche serie su Netlfix o Amazon Prime TV, ascolto spesso musica rock, del passato, ma lungi da me l’idea di imbracciare la chitarra, per non dire di come oggi mi sia ostile l’idea di mettermi a leggere un libro, non riuscirei neanche mi pagassero lautamente per farlo.
Su tutto, poi, c’è che dormo poco e male, sempre meno, stanco sin da quando la mattina mi alzo, e con nessuna voglia, poi, di mettere il naso fuori di casa, faccenda che continuo a gestire una volta la settimana per andare a fare la spesa, tanto per noi in casa con la Fase 2 nulla è cambiato.
Parlo anche meno al telefono, le videochiamate collettive con gli amici si sono rarefatte, tutti evidentemente un po’ più stanchi e scazzati.
Non credo di potermi definire depresso, perché so bene cos’è la depressione e ho grande rispetto per le parole, ma sicuramente non sto in splendida forma, e non sono in splendida forma neanche i miei familiari, ognuno con qualche prova provata di un malessere più che altro generale, si tratti di sbroccare alzando la voce immotivatamente o di rifugiarsi, parlo dei gemelli, in un linguaggio da bambini piccoli, come a volersi far coccolare più di quanto i loro otto anni non prevederebbe.
Continuo a non sognare, per dire, ma questo non è assolutamente un cambiamento rispetto al resto della mia vita, come vi ho già raccontato non sogno mai o mai ricordo i miei sogni, ma ogni tanto, in quella sorta di dormiveglia agitato nel quale mi ritrovo a passare le notti, lì a rigirarmi nel letto controllando ogni due per tre che ora sia, mi ritrovo a fare una strana forma di incubo lucido, corrispettivo andato a male dei sogni lucidi di jodorowksiana memoria, potrei dire se sapessi di che cazzo si parla quando si parla di sogni lucidi, ogni tanto, in quella sorta di dormiveglia agitato nel quale mi ritrovo a passare le notti sogno che mi cascano i denti, la bocca piena di sangue, la lingua a rigirarmeli in bocca come fossero caramelle, manco fossi Shawn McGowan dei Pogues. So bene che i denti, in psicologia, scienza nei confronti della quale credo di aver a sufficienza esternato il mio scetticismo, rappresentano i propri cari, e la perdita dei denti, il cadere dei denti, quindi, esterna la paura per un lutto in famiglia, fatto che potrebbe anche essere naturale durante una pandemia, parlo della paura, intendiamoci, non del lutto, lutto nei confronti dell’idea del quale, fossi persona scaramantica, ora starei facendo gesti ancestrali quali toccarmi i coglioni, per intendersi, ma il sapere, quando mi sveglio agitato dal dormiveglia agitato, sempre che si dica svegliarsi anche nel caso del dormiveglia, il sapere che si tratta di una proiezione del mio subconscio fatto in cinemascope nel mio cervello della mia paura di perdere uno dei miei cari non è che renda il tutto né più piacevole né meno angosciante, anzi, è un po’ come ritrovarsi a rimestare la merda per poter dire che si sente odore di merda, non mi viene in mente una immagine più coerente e attinente, dormo male, abbiate pietà.
Stare chiusi in casa per un periodo di tempo molto lungo, lunghissimo possiamo serenamente dire, immagino comporterà tutta una serie di disturbi psicologici che, prima o poi, ci dovremo preoccupare di identificare e provare a curare. Certo, prima dovremo uscire dalla pandemia, e quando dico uscire non intendo niente che abbia a che fare con il concetto di lock down o di Fase 2 o quelle robe lì, figuriamoci, intendo proprio nel senso di lasciarsi alle spalle, archiviare, arrivare al momento in cui, cioè, si può parlare di una determinata situazione, la pandemia da Coronavirus, appunto, usando il passato, andando anche a pescare termini definitivi, senza per questo cadere nello scaramantico, intendiamoci, proprio per una mera faccenda di pragmatismo, si esce da una pandemia quando non ci sono più contagi da un numero sufficiente di giorni per poterla considerare finita, e a quanto ci dicono oggi con quell’imparare a convivere col virus è facile che dalla pandemia in questione usciremo tra mesi, non dico anni, ma quasi, comunque, quando prima o poi usciremo dalla pandemia, e solo dopo essere usciti dalla pandemia, dovremo occuparci anche di quei disturbi lì, che nel mentre saranno aumentati, e provare anche a capire come metterci una pezza, che non è certo un termine scientifico adatto a descrivere il tentativo faticoso di chi dovrà curare i tanti disturbi di cui sopra, ma mi sembrava giusto buttarlo lì proprio in virtù di quella mia assenza di fiducia nei confronti della scienza psicologica, come a voler colorare il tutto di sciatteria e pressapochismo, missione riuscita, immagino.
Oggi però non intendevo addentrarmi nell’irto sentiero, irto sentiero che presumibilmente porta a un burrone, per altro, non intendevo addentrarmi nell’irto sentiero della critica alla psicologia, sai il cazzo che me ne frega a me della psicologia?, dai, non scherziamo, volevo più che altro provare a analizzare il tema dei malesseri che questa clausura, forzata e autoimposta (o autoimposta e forzata) ci sta sicuramente procurando, andando però, questo è il settantasettesimo giorno di quarantena, quindi questo che state leggendo è i settantasettesimo capitolo del mio diario del contagio, sarete pur abituati a questi miei deliri pop e postmoderni, a cercare qualcosa che voli sulla superficie stagnante di questa palude nella quale ci troviamo impantanati portando con sé un minimo di leggerezza.
Faccio una deviazione netta, una sorta di testacoda. Una virata violenta, uno strappo narrativo, ma presto vedrete che è solo apparenza, perché nonostante la stanchezza e la volubilità del mio umore resto sempre in possesso della materia scrittoria, abbiate completa fiducia in me.
Il punk è nato all’inizio degli anni Settanta.
Lo dico senza star qui a ridefinirmi per l’ennesima volta punk prima di voi, e senza dover quindi specificare che sono punk nell’attitudine, non essendolo potuto essere all’epoca in cui il punk è nato, la mia carta di identità recita un laconico 02/06/1969 come data di nascita.
Il punk è nato all’inizio degli anni Settanta e è nato negli USA. Da lì, poi, anche per mezzo di quel genio iconoclasta di Malcolm McLaren, è arrivato in Inghilterra, diventando per tutti quanti il punk per come lo abbiamo conosciuto, quello dei capelli a cresta, degli spilloni sulle guance, delle svastiche usate anche con una certa ignoranza, dell’anarchia sbandierata su dischi pubblicati da multinazionali.
Non è del punk che voglio parlarvi, questa era una deviazione sulle deviazioni.
Deviazione dovuta a una caratteristica che il punk si porta dietro ancora oggi a distanza di oltre quarant’anni, qualcosa che attinge al pozzo della verità, certo, ma che è stata un po’ esasperata in virtù di una presunta incapacità di suonare da parte dei punk stessi, di una urgenza quasi selvaggia che si esternava in giri di chitarra elementari e mal suonati, in giri di basso sghembi e in cantati non certo intonati, spesso sguaiati, volutamente sporchi.
Sappiamo tutti di cosa sto parlando, non credo servano didascalie a piè di pagina a riguardo.
Il punk è una musica basica, fatta da musicisti in genere spacciati per non virtuosi, alcuni in effetti sicuramente incapaci di suonare, improvvisati, il tutto contrapposto a un certo modo di fare rock che, figlio di quanto si stava sviluppando già nella seconda metà degli anni Sessanta, faceva del virtuosismo il proprio punto di forza, la leva con la quale sollevare il mondo.
Tutti conoscono la famosa t-shirt di Johnny Rotten, all’epoca così era chiamato John Lydon, cantante dei Sex Pistols, che esternava il proprio odio nei confronti dei Pink Floyd e più in generale la contrapposizione tra punk e progressive, termine generico col quale si intendeva tutta quella parte della musica rock che attingeva a piene mani dalla classica, scivolando chiaramente nella psichedelica, ma che comunque aveva nel saper suonare e nel saper suonare anche molto bene un suo punto fondamentale di partenza, eclettismo che sposa il virtuosismo, potremmo riassumere per i frettolosi.
Come dire, se amavi il punk, se eri punk, per meglio dire, non potevi che odiare tutto quanto fosse considerata musica colta, e il prog e quasi tutto il rock per come lo si intendeva prima del punk era colto, non credo sia necessario citare i tanti e lunghi assoli di organo o chitarra, soprattutto di chitarra che infarcivano brani non a caso spesso presentati come suite, termine pescato a piene mani da quella musica classica che neanche veniva presa in considerazione dai punk, figuriamoci.
La taglio con la falce, provando poi a passare oltre, al vero oggetto di questo mio narrare di oggi, se fino a quel momento era stato il blues la matrice del rock, dal prog in poi sarà la classica a fare da base, come a voler elevare il discorso su un piano più complesso, tutto questo, ovviamente, l’impersonificazione del Male per chiunque vedesse nell’urgenza espressiva e selvaggiamente anarchica della musica la sua sola ragion d’essere, leggi alla voce punk.
Ora, devio di nuovo.
Forse no, non sto deviando.
Vallo a capire.
Mi sono sempre definito punk. Facendo anche incazzare non poca gente, perché mi definisco punk mentre parlo della Pausini o di musica che col punk nulla ha a che vedere.
Parlo di attitudine, e sicuramente alcuni aspetti della mia poetica sono inquadrabili in ambito punk. C’è dell’anarchia, ovviamente, c’è quella volontà iconoclasta di provocare e urticare, c’è anche una furia selvaggia, per altro presente anche in generi musicali che non siano il punk, penso al metal, per dire, o all’industrial. Parlo di attitudine punk, soprattutto, contrapponendola all’essere parte del sistema, dando quindi al termine punk una lettura candida, antisistema, in qualche modo libera. Non voglio, cioè, dar seguito alla Grande Truffa del Rock’n’Roll, parlare dei Clash che firmarono con le major, tutta roba già detta e già letta, una sorta di vaschiana contrapposizione tra loro e noi, con ben chiaro in mente chi si intende con loro, un po’ meno se l’io sia parte di un qualche noi, sono iconoclasta e punk, ma sono sempre stato un anarchico individualista.
Sono quindi punk per attitudine antisistema e per volontà eversiva, ma tutto posso dire tranne di essere punk esteticamente, e so che mentre lo dico qualcuno storcerà il naso.
Anzi, so che storceranno il naso due categorie di lettori, per motivi in apparenza contrapposti. Da una parte quanti leggendo la parola estetica saranno subito corsi con la mente al mio aspetto esteriore, non cogliendo che non era di look che stavo parlando, seppure io non sia esattamente ascrivibile al punk come aspetto, magari più al rock tour court, dall’altra quanti finalmente, sempre che esista davvero qualcuno a cui stia a cuore il mio definirmi in qualsiasi modo e che, standogli a cuore il mio definirmi in qualsiasi modo, abbia sin da subito adottato una posizione del tipo “quanto mi sta sul cazzo il tuo dirti punk, fottuto prog di merda”, dall’altra quanti finalmente, avendo colto di che estetica stavo parlando e avendo sin da subito identificato nell’altra estetica, il look, un diversivo studiato a tavolino, a vederla male, o quantomeno una reiterata volontà di confondere, anche qui siamo dalle parti di chi la vede male, ma un po’ meno, comunque un mostrarsi come qualcosa di diverso da quel che si è, come Roby Facchinetti o Max Pezzali che dicono di essere un fan dei Venom, per intendersi, fatto vero ma che nulla cambia rispetto alla musica che poi i due propongono e hanno proposto nelle rispettive carriere, dall’altra, quindi, quanti finalmente potranno lasciarsi andare a lai e lamenti nei miei confronti, reo di aver mentito da sempre sapendo di mentire: punk una sega.
Non sono un punk, quando si tratta di estetica.
Non lo sono, cioè, quando si tratta di creare, nel mio specifico di scrivere.
So che mi sto dilungando in un sentiero, stavolta, non irto, ma circondato da alte frasche, di quelle che oscurano il cielo e il sole, come in un labirinto chiuso e ombreggiato, mentre sta scendendo la notte, una notte senza luna e stelle, pensa te, per cui userò ancora una volta la falce, come il tristo mietitore, perché non era neanche di questo che volevo parlarvi oggi, i titoli si trovano lì mica a cazzo.
Sono punk nell’attitudine, ma sono un cazzo di stiloso virtuoso quando si tratta di scrivere. Detto in parole povere, sono una sorta di virtuoso punk, che so?, un John Zorn che vuole farvi sanguinare gli occhi laddove lui, John Zorn, vuole invece farci sanguinare le orecchie.
Ma non è neanche di John Zorn che volevo parlarvi, ovviamente, ho parlato di punk, si sarà notato, e l’ho contrapposto al prog, non al jazz.
Il fatto è che ci sono personaggi che ho molto amato, e molto amo, che hanno gravitato in territori musicali che, in apparenza, dovrebbero essermi lontani, addirittura invisi. Perché se è normale, per certi versi, che io abbia adorato un Brian Eno, lui del resto è sì partito dai Roxy Music, è vero, ma ha presto spostato altrove le sue attenzioni, e per altro nel suo caso l’altrove è stato quasi il mondo intero, con quell’approccio teorico alla musica, lungi da me tornare a parlarvi del mio approccio teorico alla musica, l’ho già affrontato esaustivamente, credo, che mi ha letteralmente fatto godere, e del resto lui è anche quello di David Bowie e della sua trilogia di Berlino, dei Talking Heads e della compilation No Wave, oltreché quello della Musica da Aeroporti e degli U2 e di Dio solo sa quante altre opere fondamentali, dalle strategie oblique in poi, fondamentali per la mia vita ma anche per la vostra, se non lo sapevate ancora sappiatelo ora, e se è normale che io abbia adorato, che so, un Andy Partridge coi suoi XTC, riascoltare album come Skylarking, per altro copertina gigantesca, o English Settlement dovrebbe essere prescritto dai medici come antidepressivo, tornando a quanto detto prima, perché se è normale, per certi versi, che io abbia adorato un Brian Eno o un Andy Partridge coi suoi XTC, a qualcuno potrebbe anche suonare strano che io abbia anche amato e tuttora molto ami Robert Fripp, artista che col prog ha più che qualcosa a che fare, essendo l’anima dei King Crimson nonché uno dei più validi chitarristi e polistrumenti attivi nel rock degli ultimi cinquant’anni, invece risponde esattamente al vero.
Chiaro, Fripp è anche quello delle linee di chitarra di Heroes, lui che ha inventato uno stile etichettato come Frippertronics, penserà qualcuno, o quello che dopo aver dato il là alla nascita dei Roxy Music ha collaborato proprio con Eno incidendo album sotto il nome Fripp & Eno, penso a (No Pussyfooting) o The Equatorial Stars, e anche quello che ha suonato nel lavoro collettivo Phantom Captain, insieme non solo a Andy Partridge, ma anche a Norman Lovett, Patrick Portella e George Melly, oltre che aver lavorato praticamente con chiunque, da Andy Summers a David Sylvian, passando per Peter Gabriel, Peter Hammill, il già citato John Zorn, Robert Wyatt o addirittura Daryl Hall, quello di Hall & Oates, e solo il fatto che io debba star qui a citare una lista anonima di giganti del rock, lo confesso, mi immalinconisce quasi più del dovermene stare in casa, Dio santo, approfittate di questi giorni per studiare, invece che star lì a seguire le dirette IG di Jovanotti.
Non fosse che ha una immagine un filo meno irriverente di Mike Patton, meno eversiva di un Frank Zappa, o meno eccentrica di uno Jah Wobble, dire, sarebbe stato quasi da affermare urbi et orbi che è anche a Robert Fripp che mi sono sempre ispirato quando parlavo di essere iconoclasta. Solo che avrei praticato una forzatura narrativa, avrei in sostanza barato.
Almeno fino a qualche giorno fa.
Perché se è vero come è vero che stare chiusi in casa per un periodo di tempo molto lungo, lunghissimo possiamo serenamente dire, immagino comporterà tutta una serie di disturbi psicologici che, prima o poi, ci dovremo preoccupare di identificare e provare a curare, è vero che la pandemia ci ha regalato, magra consolazione, momenti altissimi di creatività, capaci di farci ammettere, appunto, in pubblico di essersi sempre venduti per qualcosa che non si era, sono stato punk prima di voi, o almeno di ammettere che non si era solo quello che si stava vendendo, sono stato punk ma non solo, sono anche un cazzo di prog. Chiunque infatti di voi che non abbia passato almeno qualche ora a guardarsi e riguardarsi i video di Roberto Fripp e di sua mogli Toyah, o meglio, i video di Toyah e di suo marito Robert Fripp, video postati sui social e che ce li mostrano folli e surreali, poetici e ironici, sempre e comunque iconoclasti e fuori da qualsiasi, non sa cosa si è perso.
Per dire, il video in cui i due sposi, non dico sposini perché il loro matrimonio risale a oltre trent’anni fa, Fripp ha settantatré anni, badate bene, ballano in tutu nero vestiti il Lago dei Cigni, con tanto di unicorni di pelouche sullo sfondo, il prato della loro villa con vista lago a fare da location, è una delle cose più pazze e poetiche che mi sia capitato di vedere negli ultimi tempi, sicuramente in questi giorni di clausura. Poesia pura, dadaista, del tutto disinteressata a essere a norma, per tornare al discorso da cui sono partito, fuori perché è solo fuori che si può e si deve essere quando siamo tutti costretti a stare dentro. Poesia pura, per altro, perché fatta da chi con quel mondo lì, i tutu, gli unicorni di pelouche, quell’ironia zappiana, apparentemente nulla sembrerebbe avere a che fare. Qualcosa di magico che, se possibile, ci dovrebbe spingere a apprezzare di più anche la sua arte, ma so che ancora una volta sto teorizzando una materia, la musica, che spesso ci viene detto va ascoltata col cuore, figuriamoci se proviamo a sostituire il cuore e quindi le orecchie con la testa.
Io amo Robert Fripp e Toyah, attrice e cantante.
Io amo i loro video, sempre con unicorni nello sfondo, a volte anche con dei coniglietti, come quello in cui ballano il tango, con tanto di casquè e rose in bocca ballato negli spazi rustici della cucina, o quello nel quale la signora Fripp si aggira per il parco della loro villa alla ricerca del rarissimo Legendicurus Progrocktiticus Suitacus, come fosse un ornitologo, intendendo con questa dicitura scientifica suo marito Robert, quelli nel quale, vestiti da api, goffe tute a strisce orizzontali gialle e nere, collant nere e cappucci neri con le antenne, si rincorrono all’aperto, lungi da me spoileraveli tutti.
Al punto che, se in precedenza vedere Neil Gaiman e Amanda Palmer su un palco a bere thè e scambiare chiacchiere e canzoni, letture e improvvisazioni, mi aveva spinto più volte a pensare di fare qualcosa dal vivo con mia moglie Marina, perché voi non avete idee di quanto sia magnificamente espressiva questa donna quando parla, oltre che di una bellezza che immagino non vi sarà sfuggita se vi è capitato di vederla mentre vi facevate bellamente i cazzi miei spulciando i miei social, beh, a vedere questi gioielli la voglia di fare qualcosa di pubblico con lei è tornata ancora più forte, e non è detto che se questo lock down, come temo e come sembra, diventerà non dico una costante, ma quantomeno qualcosa di assai lungo e slabbrato, io e lei non li si faccia davvero.
Credo che questi giorni siano difficili per tutti, anche per le star del prog, ma credo soprattutto che l’arte, anche quella in precedenza non sperimentata in prima persona, perché non ho memoria di un Fripp così surreale, sia una cura assai efficace per lenire le ferite che questi giorni ci stanno infliggendo.
Dio salvi Toyah e Robert Fripp, fanculo la regina.