Negli anni Sessanta il western, genere identitario per eccellenza del cinema e della cultura americana, muta profondamente, seguendo direzioni le più diverse. La rimodulazione coinvolge persino maestri che avevano contribuito a definirne la sintassi classica. Come John Ford, che firma L‘Uomo Che Uccise Liberty Valance (1962), giustamente citatissimo per lo smontaggio della leggenda del west, di cui rivela la sostanza artefatta e falsata. L’irruzione di un frutto spurio come lo spaghetti western italiano ha pure conseguenze rilevanti, in autori come Sam Peckinpah, che ne tiene conto per intraprendere una sgradevole ma necessaria riflessione sul tema della violenza che è quanto di più demitizzante, pensiamo a Il Mucchio Selvaggio (1969), il western abbia prodotto in quegli anni.
Poi c’è il filone della revisione storico-ideologica, che, timidamente a partire dagli anni Cinquanta de L’Amante Indiana, ma in forme ben più consapevoli nei Sessanta, ripensa il rapporto tra l’uomo bianco e l’indiano americano, denunciando la spoliazione colonialista del primo ai danni del secondo. Nascono persino versioni del west astratte e metafisiche (Le Colline Blu e La Sparatoria di Monte Hellman, entrambi del 1966) e, dall’altro lato, riletture comiche e farsesche, ai limiti della parodia (Cat Ballou, 1965; Butch Cassidy, 1969).
Così può accadere che all’altezza del 1970, in cui escono western importanti come lo scioccante atto d’accusa antimilitarista Soldato Blu e lo smontaggio ideologico di Piccolo Grande Uomo di Arthur Penn, compaia anche uno dei film più eterodossi di quella stagione, Uomini E Cobra. Firmato da un autore, Joseph Leo Mankiewicz, che appartiene alla Hollywood classica (nato nel 1909) e ha un curriculum lontanissimo dal western.
Sono sue alcune delle più taglienti commedie americane, spinte ai confini della satira sociale (Lettera A Tre Mogli), il fantastico (Il Fantasma E La Signora Muir), il melodramma (il capolavoro Eva Contro Eva), il racconto morale (La Gente Mormora). Nella sua filmografia c’è spazio anche per noir (Il Bandito Senza Nome), versioni shakespeariane palesi (l’epocale Giulio Cesare con Marlon Brando) e occulte (Amaro Destino), pateracchi colossali (Cleopatra, che definì “i tre film più tosti che abbia mai fatto”), musical (Bulli E Pupe).
La cosa più interessante di Uomini E Cobra è che Mankiewicz prende il western e, rispettandone le forme, lo svuota dall’interno per adattarlo al suo tono. Ci sono cowboy, furfanti matricolati e sceriffi, ma il sapore è quello di una commedia giocata sul potere manipolatorio della parola, uno dei temi centrali del suo cinema. Come ha scritto Goffredo Fofi, “nell’ottica del regista, la parola è uno strumento per difendersi dalla realtà, per nascondersi e non per dichiararsi, per perdere l’altro e non per trovarlo: è sempre, in definitiva, strumento di menzogna”.
Siamo nel 1883: Paris Pitman (Kirk Douglas), dietro i suoi modi garbati, gli occhialini da intellettuale e la risata da sbruffone, è un criminale spietato. Dopo aver fatto una rapina da 500mila dollari uccide a sangue freddo i membri della banda per tenersi tutto il bottino. Lo nasconde in una tana infestata di serpenti, ma viene arrestato e destinato a un carcere fortezza nel mezzo del deserto. In cui arriva, a dirigerlo, uno sceriffo integerrimo dalle idee riformiste, Loperman (Henry Fonda). Pitman vuole scappare per godersi il malloppo. Per riuscirci finge di assecondare i progetti del direttore, che però non è uno stupido, e nel frattempo cerca alleati tra i carcerati per organizzare la fuga.
Uomini E Cobra è un film sul confronto affilato tra due intelligenze e sul potere fascinatorio della parola, un trattato pessimista sul cinismo costitutivo degli esseri umani e sul mascheramento come forma fondamentale attraverso cui gli individui si relazionano tra loro. Pitman è un seduttore seriale, un maestro della falsificazione e della manipolazione emotiva. Intorno a lui, Mankiewicz dispone dei personaggi nei quali si diverte a ribaltare forme di rappresentazione consolidate. Come la coppia di vecchi truffatori omosessuali (Hume Cronyn e John Randolph), che nessuno aveva mai descritto in un western, o l’anziano ex pericolo numero uno (Burgess Meredith) che dopo decenni in galera s’è infiacchito riducendosi, per non impazzire, a lavorare la terra d’una fattoria che esiste solo nella sua mente.
A ognuno di loro, l’imbonitore Pitman ha un sogno da vendere, una leva motivazionale che li spinga a divenire suoi alleati. Anche se siamo in mezzo a brutti ceffi, pistoleri e cavalli, l’atmosfera è la stessa di altri film di Mankiewicz di quel giro d’anni, come Masquerade (1967), che sotto le buone maniere e i bei vestiti è una storia di burattinai che si sfidano all’ultima dissimulazione, o Gli Insospettabili, virtuosistico gioco d’attori tra Laurence Olivier e Michael Caine, che indossano mille maschere.
A proposito di Uomini E Cobra, Mankiewicz si dichiarava orgoglioso del fatto che, per la prima volta, in un western si vedessero delle cacche di cavallo. Ma sono ben altri i meriti di un film originalissimo, che sotto la confezione picaresca conferma il pessimismo del suo autore. Non si salva nessuno in questo film: sono tutti o truffatori o truffati. E anche il più furbo di tutti rischia all’ultima curva di vedere sfumare i propri progetti, come in un altro suo capolavoro, Operazione Cicero (1952). E sulla schiena dritta dei pochi onesti, è meglio non scommettere troppo. Un film magnifico di scrittura sopraffina (la sceneggiatura e di Robert Benton e David Newman). E un cinema adulto che nessuno oggi sembra più in grado di fare.