Ho decisamente sbagliato mira.
O più probabilmente ho detto una cazzata, anche atta a sdrammatizzare una situazione che in effetti di drammatico ha parecchio, intendiamoci, ma pur sempre una cazzata che in quanto cazzata è subito stata smentita dalla cronaca, cronaca che ci ha passato una linea di evidenziatore fluo, tipo quelli della Stabilo Boss, come a dire: tana per Michele.
Perché se proprio ieri ero qui a ipotizzare che una vita smodata, alla Dave Gahan o Keith Richards, potesse in qualche modo rendere immuni dal Coronavirus, oltre che da una serie incredibili di altre malattie e complicazioni, tirando in ballo il vecchio film di Robert Rodriguez, The Faculty, ecco che arriva la notizia della morte, per Coronavirus, di Dave Greenfield degli Stranglers, una delle mie band culto di tutti i tempi, lui a suonare le tastiere, Hugh Cornwell alla voce e alle chitarre, Jean Jacques Burnel al basso e alla voce, Jet Black alla batteria, questa la formazione che ho fisicamente amato alla follia, da Rattus Norvegicus del 1977 a Dreamtime, tutti album fondamentali, folli, geniali, come del resto anche quelli arrivati dopo, nelle varie successive formazioni, fino all’ultima che vedeva Baz Warne al posto che fu di Cornwell. Una band, gli Stranglers, punk e post-punk al tempo stesso, padri spirituali della new wave inglese, proprio le tastiere di Greenfield a intessere catene di note capaci di farci pogare come di farci sognare, unici nel loro stile e per questo inimitabili ma anche imitatissimi.
La notizia arriva per bocca, o meglio per post, dei suoi compagni di band, attraverso i social, settantuno anni, ricoverato per problemi cardiaci, Dave Greenfield, come par di capire molti in questi mesi, ha preso il Coronavirus in ospedale e il suo fisico già malconcio non ha retto. Non l’ho mai visto dal vivo, non ho mai avuto questo piacere, ahimé, ma so per certo che dal vivo, non avendo chitarre da farsi passare dagli assistenti di palco, i roadies, era solito farsi portare con una grande frequenza boccali di birra, che beveva ininterrottamente per tutta la durata del concerto, nonostante appunto il fisico malconcio, meglio vivere che morire aspettando, per questo dicevo che la teoria di The Faculty, nel suo caso, non regge.
Io ricordo di averli scoperti, gli Stranglers, nella maniera con cui, un tempo, si conoscevano artisti e gruppi fino a quel momento per noi sconosciuti, attraverso le parole di un artista che li stimava e ai quali si ispirava che noi, a nostra volta, stimavamo. L’artista che me li ha fatti conoscere è Enrico Ruggeri, e nello specifico non li ha fatti conoscere solo a me, all’epoca non ci conoscevamo, ma li ha citati in un’intervista che lessi non ricordo più dove, forse su Ciao 2001, vattelo a ricordare, o una di quelle riviste specializzate. Enrico Ruggeri, all’epoca ancora con occhialoni dalla montatura bianca e i capelli con taglio da punk in testa, lo avevo conosciuto grazie a un mio compagno di scuola, Luca, che mi aveva passato sotto il banco un nastro che conteneva anche Nuovo Swing, da poco presentata al Festival della Canzone Italiana di Sanremo, anno del signore 1984. Io stavo facendo il primo anno alle scuole superiori, a ragioneria, uno dei tanti sbagli della mia vita, sbaglio cui avrei cercato di mettere una pezza a fine anno, mollandolo per iscrivermi alla quarta ginnasio, uno dei cinque promossi in una classe di oltre venticinque alunni, tutti i professori a suggerirmi all’unisono di cambiare strada, che ci fai qui?, manco fossi davvero uno portato per le lettere.
L’ho già raccontata, questa storia, mi ero iscritto a ragioneria come a seguire una strada segnata, come i binari di un treno, da sempre si diceva che avrei fatto ragionerie e ragioneria ero andato a fare. Unico guizzo l’indirizzo informatico, una novità di quegli anni, che però poco cambiava l’errore clamoroso che avevo commesso, evidentemente più portato per le materie umanistiche, questo almeno sostenevano i professori. A mia memoria, anche questo ho già raccontato, nessuno mi aveva chiesto che scuola volessi fare, e siccome all’epoca non c’erano gli open day, non c’era l’orientamento, non c’era un cazzo di niente e non c’era neanche l’usanza di discutere di queste cose in casa, che so?, a tavola, di sera, tipo, “che scuola ti piacerebbe fare?”, ecco che mi ero trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato, zac, eccomi a ragioneria.
Ero un pesce fuor d’acqua, talmente un pesce fuor d’acqua che il primo giorno di scuola non mi presentai, convinto che le lezioni iniziassero l’indomani, e quando in effetti l’indomani mi presentai in classe, per altro in un quartiere che conoscevo poco, il Piano San Lazzaro, e solo perché per un paio d’anni avevo militato con scarsi risultati nelle giovanili della squadra di calcio di quartiere, che si allenava nel campo a poche decine di metri da quella succursale di ragioneria, un campo indegno, fatto di terra senza neanche un filo d’erba, oggi giustamente diventato un parcheggio (cazzo, tutti i campi di calcio dove giocavo da piccolo in Ancona sono diventati un parcheggio, a ben pensarci), quando l’indomani mi presentai in classe feci il mio ingresso glamour, con una assenza già al secondo giorno di scuola.
In classe con me, constatai, c’era solo un mio compagno delle medie, Cristiano Baldoni, un gradassetto che, in quanto gradassetto, mi stava pure parecchio sul cazzo, fatto che mi spinse a mettermi di banco con il primo che mi capitò a tiro, appunto il Luca di cui sopra, un ragazzo che mi sembrava pacifico e che non aveva la faccia da delinquente. Erano anni tosti, quelli, e l’idea di dover andare in una scuola che mi faceva oggettivamente cagare, ma questo lo scoprii un po’ alla volta, con gente che non conoscevo, non è che mi agevolasse molto il mandare giù la medicina. Per questo, ricordo, provai a distrarmi costantemente con situazioni che con la scuola nulla avevano a che fare, la musica, sicuramente, e la letteratura. Oltre a questa, ma qui entriamo in un discorso che immagino faticherete a seguire, perché capisco che non sia proprio di una coerenza impeccabile con l’immaginario che negli anni ho teso a costruire, c’era la religione. Come vi ho già raccontato sono figlio di un diacono, un diacono che è diventato tale proprio in quegli anni, per altro, ma che già prima di diventare diacono era molto praticante e anche molto addentro alla chiesa anconetana, al punto che l’allora vescovo di Ancona, Maccari, gli proposte di diventare diacono. L’essere figlio di un diacono, comunque l’appartenere a una famiglia molto religiosa mi ha spinto, ai tempi ero molto giovane, e come tutti i giovani mi interrogavo molto su quello che sarebbe stato il mio futuro, a chiedermi se avevo o meno una vocazione per il sacerdozio. Ora, so che messa così suona strana, perché non è che chiunque abbia una famiglia particolarmente religiosa si sarà interrogato su una propria eventuale vocazione al sacerdozio, ma per me andò così. Al punto che i miei, che frequentavano un gruppo interno alla famiglia San Paolo, quelli per intendersi che editorialmente pubblicano Famiglia Cristiana, gruppo dedicato alle famiglie che si chiamava, appunto, Santa Famiglia, gruppo del quale saranno a lungo responsabili nazionali, fatto che li porterà a girare in lungo e in largo l’Italia per convegni e esercizi spirituali, ma questo avverrà in seguito, al punto che i miei, che frequentavano il gruppo della Santa Famiglia, per assecondare questo mio interrogarmi, o magari anche un po’ per spingermi verso questa idea, vallo a sapere, mi spingeranno a prendere parte a una vacanza con un gruppo di seminaristi legati ai paolini, a Tonezza, in veneto, vacanza che in qualche modo segnerà definitivamente la mia vita, per motivi che, a breve ci arrivo, con Ruggeri e gli Stranglers molto hanno a che fare.
Questo succederà subito dopo finito il primo anno di ragioneria, quindi un po’ dopo il mio incontro con Enrico Ruggeri e la sua Nuovo Swing e quindi con l’articolo credo di Ciao 2001 e di conseguenza gli Stranglers.
Durante questa vacanza, poi giuro che tornerò a raccontarvi di quell’incontro, uno dei seminaristi, candido come un fiore, mi inviterà a provare a suonare una chitarra elettrica, una imitazione della diavoletto, pensa a volte quanto il destino ami prenderci per il culo. Non ne avevo mai viste da così vicine, di chitarre elettriche, avevo quindici anni appena, ma sapevo suonare la chitarra perché avevo studiato violoncello alla scuola di musica di Ancona affiliata al Conservatorio di Pesaro, l’Istituto Pergolesi, e perché poi mi ero anche messo a strimpellare in solitaria la chitarra classica di mio fratello Marco, dopo aver mollato gli studi musicali per poter finalmente giocare al calcio, impossibilitato a farlo per tutti gli anni in cui avevo suonato violoncello, per non correre rischi di farmi male inavvertitamente e rovinare una delle mie preziosissime mani o delle mie preziosissime cartilagini, fatto che è puntualmente avvenuto quando ho smesso di studiare violoncello, mani e cartilagini andate a puttane, mandando in sostanza a cagare il maestro Moscardelli, Dio quanto odiavo le sue lezioni che puzzavano di chiuso, le finestre e le persiane della sua sala costantemente chiuse, nel suo appartamento in Via Veneto 2, esattamente davanti al mio palazzo, io abitavo in Via Veneto 1, puzza di chiuso che si univa alla puzza della pece che si doveva continuamente passare sull’archetto, dopo averlo mandato a cagare di fronte a precisa domanda “preferisci studiare musica o andare a giocare a calcio coi tuoi amici?”, domanda suppongo retorica nella sua testa che a me invece suonò più che altro salvifica, comunque, quando il giovane seminarista mi ha posto di fronte la chitarra elettrica, un seminarista che mi porge una imitazione di una diavoletto, attaccata a un amplificatore ho chiaramente visto il mio futuro, e il mio futuro era lì, in quella chitarra. Credevo anche nel sacerdozio, penso, perché tornato chiesi ai miei di cambiare scuola e mi iscrissero al Liceo Ginnasio Cappuccini, quello che in Ancona era frequentato dai seminaristi del seminario di Ancona e Osimo, ma ben presto sarebbe stata proprio la mia passione per la musica a spingermi lontano da quell’idea, poi arriverà Marina e il discorso si chiuderà definitivamente, è storia.
Comunque, un giorno di primavera del 1984, forse era ancora inverno, Luca, il mio compagno di banco a ragioneria, mi passa questa cassetta con su incisa Nuovo Swing di Enrico Ruggeri, e per me cambia tutto. Capisco, non saprei dire esattamente perché, che si può fare una musica completamente differente da quella che ho sentito fino a quel momento, in casa, e la musica che ho sentito fino a quel momento in casa è prevalentemente quella che ascoltava mio padre, Domenico Modugno, quella che ascoltava mio fratello Marco, un mix che spaziava tra Le Orme e la PFM e la musica della west coast, da Jackson Browne agli Eagles, passando per Crosby, Stills, Nash e Young, e quella che ascoltava mia sorella Caterina, Claudio Baglioni, oltre a quella che ovviamente mi capitava di ascoltare in radio, il pop dei primi anni Ottanta.
La musica che Ruggeri faceva era qualcosa di sorprendente e unico, c’era sicuramente del cantautorato, pensate a come Nuovo Swing inizia, per dire, “Forse il vero amore vuol restare grande/ preferisce chiudersi e morire/ in un colpo, invece che appassire/ ma non puoi accettarlo/ se ne sei coinvolto tu/ corri fuori a cercarlo/ oppure, non voltarti più”, per poi prendere strade anomale, impazzite, nello specifico uno psycho swing cantato con quella voce apparentemente imperfetta, quell’accento milanese così spudoratamente esibito. Ricordo perfettamente, mi sarebbe capitato poi con altri artisti, che quelle parole mi sono entrate dentro come un amo, scritti un po’ ovunque sul retro dei quaderni di scuola, senza lasciarmi possibilità di liberarmene di lì a breve, ancora oggi parte di me.
Ovviamente, all’epoca non c’era internet, scoprire notizie sui cantanti che incrociavamo così, col passaparola, era davvero complicato, cercai subito di sapere tutto quel che potevo su Ruggeri, così venni a sapere del punk, che per me all’epoca aveva la faccia sporca e la cresta arancione di Cut, il ragazzo un po’ più grande di me che stava spesso a bivaccare sulle scale del mio palazzo, causando per altro il malcontento di tutti gli adulti, un punk che, lo avrei scoperto di lì a breve, suonava in diversi gruppi locali, tra i tanti gli SWBZ, scritta che compariva un po’ ovunque nel centro di Ancona, formazione che comprendeva anche Marco Ossidi, poi con Oskar Barrile nei La rivolta dell’Odio, e Glauco Medori, poi nei Via Verdi, qualcosa di anomalo, quindi, il punk, decisamente lontano dal ventre caldo del mio nucleo familiare, ma che grazie a Ruggeri e ai suoi testi colti, alti, e ai suoi occhialoni bianchi e i capelli tagliati a spazzola, mi sembrerà più accessibile, all’epoca ero il ragazzino che andava tutti i giorni alla messa, iniziando a pensare di farmi prete, così a sapere del punk, quindi, ma anche dei Decibel, che a Sanremo ci erano passati poco prima con Contessa, e di conseguenza sentii nominare gli Stranglers, gruppo che di lì a poco, pochissimo i fratelli Bartola, sempre loro, mi avrebbero passato, Paolo aveva due anni e due mesi più di me, era un po’ più evoluto, e nonostante io proprio in quei mesi avrei lasciato casa sopra la loro, tornando a vivere nel mio quartiere di origine, il centro storico, in quella Piazza Malatesta nella quale erano vissuti i miei nonni paterni e che aveva quell’allure oscura dovuta al fatto di essere stata in passato il posto dove il boia ammazzava i condannati a morte, per tutti il Campo della Mostra, avrei continuato a frequentarli e a attingere al loro repertorio discografico decisamente più pingue del mio, tanto punk, tanta new wave, tanto rock in generale, Roberto, il minore dei due fratelli, di lì a breve punk a sua volta, con collare e capelli sparati, lui che sarebbe diventato il bassista degli Epicentro.
Ruggeri diceva, in quell’intervista, che il suono delle tastiere che così caratterizzava i Decibel, di quel periodo parlava, era figlio della passione sua e dei due Decibel, Silvio Capeccia, il tastierista, e Fulzio Muzio, il chitarrista con lui a tirarne le fila, derivava dagli Stranglers, e in effetti sentire Greenfield e sentire Capeccia spiega bene quella parentela artistica, una capacità di entrambi di comporre architetture con le tastiere e gli organi davvero uniche, un modo di essere punk decisamente colto, alto, classicheggiante, quindi ancora più originale degli originali, perché per molti il punk è essere sciatti e approssimativi, ma la punkitudine è un’attitudine, non certo un’incapacità di suonare, ve ne parlavo giusto un paio di giorni fa.
È stato esattamente in quel momento, quando cioè Luca mi ha introdotto a Ruggeri, che mi ha introdotto agli Stranglers, che mi hanno portato a approfondire cosa fosse il punk, il post-punk e la new wave, che ho iniziato a capire che essere fuori dal coro non è necessariamente qualcosa di cui vergognarsi, anzi, può essere davvero interessante.
Ruggeri era uno strambo, almeno agli occhi di tanti, io non ero affatto uno strambo, non ancora, anche se il cambiare scuola, sarebbe appunto successo dopo poco, avrebbe fatto di me, sicuramente, uno poco stabile, almeno agli occhi dei miei tanti compagni di classe rimandati o bocciati, cazzo, io cambiavo da promosso, per altro decidendo di ricominciare da capo, perché andare al classico da ragioneria così, azzardando l’esame per accedere direttamente alla quinta ginnasio, cioè al secondo anno, era troppo anche per uno strambo come me.
Da lì in poi la musica avrebbe occupato sempre più spazio nella mia vita, la chitarra elettrica che il seminarista mi avrebbe fatto provare durante l’estate tra i due miei primi anni alle superiori sarebbe stata il preludio all’ingresso in casa mia di una chitarra elettrica, una Melody Vintage 2500 acquistata a Castelfidardo, durante una delle tante svendite definitive fatte per uno dei tanti fallimenti della Eko, la fabbrica di strumenti locale, e in questo avrebbe sicuramente giocato molto il fatto che la missione dei paolini, ricordatevi sempre che io ero uno che cercava di capire se farsi prete, quindi se entrare in seminario, era quello di comunicare, in tutte le forme, dalle riviste, appunto Famiglia Cristiana, alla musica, passando per i film.
Che io non mi sia mai fatto prete, beh, credo che sia sotto gli occhi di tutti.
Che io abbia acquisito un’attitudine punk, o che la mia attitudine punk abbia avuto modo di venire alla luce ve l’ho raccontato in precedenza e magari nei prossimi giorni proverò a approfondire la cosa, nei fatti io poi Enrico Ruggeri l’ho conosciuto, ci siamo piaciuti, a me lui in realtà piaceva già molto, e quando ci siamo conosciuti anche io piacevo un po’ a lui, per i primi articoli che avevo ripreso a scrivere con il Fatto Quotidiano, complice la mia amicizia con la sua compagna, Andrea Mirò, con la quale avevo inizialmente collaborato proprio alla prima edizione di Anatomia Femminile, avevamo scritto insieme Quello Che Gli Occhi, canzone che lei avrebbe cantato come manifesto della prima antologia che porta quel nome, e che poi sarebbe diventata una mia carissima amica, io Enrico l’ho conosciuto, ci siamo piaciuti e siamo diventati amici, molto amici, al punto che spesso capita che mi faccia ascoltare i suoi nuovi lavori in studio, prima che escano, anzi, sempre capita che me li faccia ascoltare in studio, prima che escano.
Nel 2016, quindi, mi è capitata la fortuna e l’onore, nonostante l’amicizia e i tanti tantissimi suoi concerti che mi è capitato di vedere, è senza dubbio l’artista che ho visto più volte in vita mia dal vivo, credo che questo 2020 sia per ora uno dei rari anni da che sto a Milano in cui non mi è ancora capitato di sentirlo dal vivo, e chissà se capiterà, se cioè i concerti riprenderanno entro l’anno, domanda retorica senza risposta certa, nel 2016, quindi mi è capitata la fortuna e l’onore di ascoltare in anteprima l’album Un Viaggio Incredibile, all’interno del quale c’era la canzone che avrebbe presentato a Sanremo dal titolo Il Primo Amore Non Si Scorda Mai.
Ora, provate a mettervi nei miei panni, siete diventati amici di un vostro idolo di gioventù, uno di cui avete divorato i dischi, tutti i dischi, uno che in qualche modo ha segnato il vostro destino, perché non avessi sentito quel giorno Nuovo Swing, non avessi poi letto quell’intervista su Ciao 2001, non mi fossi spinto poi a chiedere a Paolo Bartola di ascoltare gli Stranglers, il tutto poco prima di imbracciare una chitarra elettrica in una vacanza fatta coi seminaristi a Tonezza, poco prima di passare da ragioneria al classico, è capace che a quest’ora sarei un prete da qualche parte, o un ragioniere, chissà, si fa per scherzare, eh, ora, provate a mettervi nei miei panni, siete diventati amici di un vostro idolo, avete anche da poco ripreso a scrivere di musica, è la prima volta che il vostro nuovo amico, nuovo amico che ha cantato una canzone che voi avete scritto in un disco che voi avete prodotto, Quando si parte si parte delle Bikinirama, ma questa davvero è una storia troppo lunga da poter raccontare ora, ma è comunque la prima volta che il vostro nuovo amico vi fa ascoltare un album nuovo in anteprima e in questo album nuovo c’è anche la canzone che di lì a poco presenterà a Sanremo, al Festival della Canzone Italiana targata Carlo Conti, questo è lo scenario, parte la canzone in questione, un ritmo in levare che nulla ha a che fare con la ballata d’amore che il titolo, Il Primo Amore Non si Scorda Mai lascerebbe pensare, canzone in levare che nel ritornello diventa un classico punkettone alla Ruggeri, di quelli che da quel giorno in classe, Luca a passarti il nastro con su Nuovo Swing, avete letteralmente divorato, quando ecco che parte un assolo di tastiere che vi fa dire, a voce alta, compiaciuto, “ma questi sono gli Stranglers”, senza neanche pensarci su un attimo, giusto il tempo di vedere la sua faccia, quella del vostro nuovo amico, illuminarsi, gioire addirittura, “Cavoli, ne ero sicuro, e sono sicuro che non se ne accorgerà nessun altro”. Un viaggio incredibile, il mio, verrebbe da chiosare, giocando sul titolo di quel primo album ascoltato in studio da Enrico, io che poi avrei ascoltato in anteprima anche i nuovi dei Decibel, avrei conosciuto Silvio e Fulvio, che avrei conosciuto anche Midge Ure, sempre a Sanremo, loro ospite per cantare la canzone scritta per omaggiare David Bowie, io che avrei continuato a professarmi punk prima di voi, ma dopo di lui, anche se credo che al momento lo siamo entrambi parecchio.
Oggi, anzi, ieri, perché quando leggerete queste parole oggi sarà per me domani, appena ho letto la notizia della morte di Dave Greenfield ho subito chiamato Enrico, come a voler fare a lui le condoglianze. Mi è venuto naturale, la cosa più normale del mondo pensare a lui, leggendo degli Stranglers, la cosa più naturale dire con lui che nel suo caso, probabilmente, il Coronavirus ha trovato un corpo un po’ minato da una vita sicuramente non vissuta con spirito straight edge. “L’ho visto pochi mesi fa a Torino”, mi ha detto, “ pacche sulle spalle saluti. Anche stavolta ha bevuto in una serata più birra di quella che io potrei bere in un mese,” ha poi chiosato, ma era per sdrammatizzare, sempre che si debba sdrammatizzare la morte di un proprio idolo.
La musica è una parte fondamentale della mia vita. Anche le parole. Ho scelto le parole come mia forma d’arte, come ferri del mio mestiere, e ho scelto di dedicare buona parte delle mie parole alla musica. Anche per colpa di Enrico Ruggeri. Anche per colpa di Dave Greenfield e degli Stranglers.
Questo Coronavirus, sia come sia, mi sta portando a fare costantemente i conti col mio passato remoto e prossimo, ma anche col mio presente, condizione che credo sia comune a un sacco di gente, costretta a una condizione altrimenti innaturale.
Oggi posso sicuramente chiudere la serata sparando proprio Rattus Norvegicus al massimo volume dalle casse del mio stereo, fanculo l’Inno di Mameli che fino a qualche settimana fa si sentiva costantemente dai balconi, il pensiero che corre al caso del destino che li ha spinti a intitolare il loro primo album con il nome scientifico di un topo, animale che immediatamente ci fa venire alla mente la peste nera.
Punk Not Dead si intitola l’ultima preziosa raccolta dei Decibel, raccolta che Enrico mi ha regalato una delle ultime volte che sono andato a trovarlo in studio, quando ancora si andava a trovare gli amici in studio senza dover compilare autocertificazioni e indossare la mascherina.
Il punk non muore.
Ne sono fermamente convinto.