Il 2 maggio 2017 debuttava in Spagna la serie che un anno dopo sarebbe diventata la più vista al mondo in lingua spagnola. All’epoca non l’avrebbe immaginato nessuno e i quattro milioni di persone che avevano assistito al debutto de La Casa di Carta su Antena3 si sarebbero presto ridotti a meno della metà. Quando, qualche mese dopo il debutto, Netflix ha notato questa Cenerentola della serialità spagnola e l’ha inserita nel suo catalogo, è arrivata la svolta: raggiungendo un pubblico globale, la storia surreale del Professore e della sua sgangherata banda di ladri coi nomi di città sarebbe diventata il titolo più popolare dell’era della tv in streaming.
La storia dell’improbabile rapina alla Zecca di Stato spagnola messa su da un gruppo di reietti della società senza niente da perdere sarebbe poi proseguita con altre due stagioni per capitalizzare l’enorme successo di pubblico (purtroppo, perché il finale della seconda parte sarebbe stato perfetto così com’era). E così dopo tre anni i personaggi di Tokyo, Nairobi, Rio, Berlino, Denver, Mosca, Oslo, Helsinki e gli altri che si sono aggiunti via via alla trama continuano a tenere incollati milioni di telespettatori a Netflix in tutto il mondo (la quarta stagione è balzata al primo posto tra le più viste in decine di Paesi nel weekend d’uscita).
La Casa di Carta compie dunque tre anni dopo aver attraversato le montagne russe di un buon debutto, una perdita progressiva di ascolti sulla tv generalista e poi il grande boom in streaming: in occasione dell’anniversario, Netflix festeggia il compleanno della sua gallina dalle uova d’oro con un video che racconta 10 curiosità sul soggetto della serie, sui personaggi e sulla trama.
La Casa di Carta – 10 curiosità sulla serieIn una dimensione parallela, stiamo tutti piangendo la scomparsa di Camerun e aspettiamo la nuova stagione de I disperati.
Pubblicato da Netflix su Sabato 2 maggio 2020
Nonostante i numeri siano tutti dalla sua parte, però, non si può non constatare come la quarta stagione abbia mostrato un calo drastico per qualità della scrittura (qui la nostra recensione). Quella che sembrava una serie materializzatasi da un fumetto è diventata una sorta di Rambo con implicazioni alla Beautiful: i personaggi sono ormai schizofrenici, le loro decisioni sono perlopiù illogiche e di conseguenza lo sono anche le principali svolte narrative della trama, il filone sentimentale rasenta ormai il ridicolo, ma soprattutto l’eccessiva diluizione del racconto ha fatto perdere ritmo e coesione. Si è tirato fin troppo la corda, insomma. Eppure ci sarà certamente una quinta – e forse anche una sesta – stagione de La Casa di Carta, visto il finale super aperto della quarta stagione. E nonostante tutto c’è ancora qualche buon motivo per continuare a guardare questa serie partita con tanti buoni spunti – audace, divertente, fumettistica ed estrosa – che si sta avvitando sui suoi difetti dimenticando i suoi pregi.
Dove vogliono arrivare?
Il primo e principale motivo che spingerà comunque a guardare ancora La Casa di Carta nonostante il pasticcio della quarta stagione è quel meccanismo perverso su cui la serie ha sempre giocato: spostare il confine del surreale sempre un po’ più in là e spingere lo spettatore a chiedersi, parafrasando Totò nel celebre sketch con Mario Castellani, chissà questi stupidi dove vogliono arrivare! O meglio, cosa si inventeranno gli sceneggiatori per tirare fuori da situazioni oggettivamente impossibili dei personaggi che fanno di tutto, a volte anche consapevolmente, per mettersi sempre più nei casini grazie alla loro totale mancanza di razionalità. E visto che il presupposto della serie è che il piano del Professore possa far fronte ad ogni imprevisto, lo sfizio da soddisfare è proprio quello di scoprire quale sarà l’ennesima, assurda soluzione all’ennesimo, assurdo colpo di scena. Un ingranaggio che ha funzionato perfettamente per le prime due stagioni, un po’ meno per le successive due, chissà se funzionerà anche per le prossime.
L’iconografia de La Casa di Carta
Piaccia o no, meritoriamente o in modo fortuito, gli sceneggiatori de La Casa di Carta hanno creato una serie caratterizzata da un’iconografia precisa, accattivante, decisamente efficace: non è un caso che le maschere di Dalì, le tute rosse, l’inno Bella Ciao, i nomi dei personaggi siano apparsi nelle piazze, nei cortei, nei video musicali, nei loghi e siano utilizzati dal pubblico per gli scopi più disparati, dalle proteste per i diritti umani alle rapine (sì, anche rapine vere). Nella terza stagione c’è un momento di meta-tv in cui Il Professore mostra alla banda proprio l’impatto che il loro colpo quasi-perfetto ha avuto sull’opinione pubblica, un modo per omaggiare il pubblico che ha portato i simboli de La Casa di Carta in contesti diversi (e talvolta anche ben più impegnati) in tutto il mondo.
La ricerca di un orizzonte ideale
La speranza, dopo quattro stagioni, è che La Casa di Carta finisca – meglio prima che poi, per salvare quel che ne resta – esaudendo l’auspicio del suo protagonista Alvaro Morte: dopo aver trasformato una rapina alla Tarantino condita da drammi personali alla Almodovar in un simbolo di lotta alla corruzione della classe dirigente politica e finanziaria europea, la serie dovrebbe quantomeno darsi un orizzonte ideale più ampio che il solo riuscire a tirar fuori la banda dalla Banca di Spagna con l’oro della riserva nazionale. Se davvero i personaggi sono diventati dei paladini antisistema, nella trama diegetica e per estensione anche nell’immaginario del pubblico, allora bisognerà dare un senso più profondo a quella trama, un fine ultimo che non sia solo la realizzazione del colpo perfetto alla Ocean’s Eleven. I ladri di Alex Pina sono più brutti, sporchi e cattivi di quelli di Soderbergh, ma per questo più veri e più genuinamente divertenti. E allora se Il Professore e i suoi si sentono “la Resistenza”, devono meritarsi questo appellativo e tutto ciò che rappresenta dando una motivazione più alta alle loro azioni criminali. Non basta più l’idea di stampare i propri soldi senza rubarli a nessuno, perché la banda non è più nella Zecca. E nemmeno la giustificazione della ritorsione contro lo Stato che ha arrestato uno di loro negandogli i diritti umani fondamentali. Ora Rio è libero e la banda sta rubando la riserva aurea di Spagna: lo fa – paradossalmente – col sostegno di un’opinione pubblica che osanna i ladri della maggiore ricchezza nazionale, perché confida più in loro che in istituzioni considerate antidemocratiche. Apparentemente un controsenso. Proprio per questo, La Casa di Carta dovrebbe avere un epilogo che renda omaggio alla costruzione simbolica realizzata intorno a questa assurda storia, all’idea di Resistenza che i personaggi hanno fatto propria. E puntare idealmente in alto, visto che ormai tutti i limiti di senso sono già ampiamente saltati.