Chi l’avrebbe detto mai, la Festa dei Lavoratori, quella che negli ultimi anni, temo, è stata più confusa con la giornata dedicata alle gite fuoriporta e le grigliate o passata davanti alla tv a seguire il Concertone di Piazza San Giovanni, quello sì da troppo tempo qualcosa che nulla ha a che vedere sia coi lavoratori che coi sindacati, in teoria organizzatori o quantomeno promotori dell’evento, ve li ricordate le mazzette di euro e i due rolex esibiti da Sfera Abbasta, vero?, o la totale assenza di donne dell’anno scorso, vero?, comunque, chi l’avrebbe mai detto, la Festa dei Lavoratori di questo infausto 2020 coincide, quasi, con quella che, a mio avviso, dovrebbe essere riconosciuta come la Festa dei Padroni, quel 4 maggio che attesta la parziale fine del lock down, o meglio, l’inizio della Fase 2, cioè del momento in cui, finalmente ha detto qualcuno, si potrà riprendere a vivere la vita di prima, con le dovute cautele, niente party, mi raccomando ha ripetuto Conte, tra un “vi concedo” e un “ se amate l’Italia”, intendendo con questo andare al lavoro, produrre, guadagnare, quindi consumare e tornare a casa, poi, immagino, anche crepare, va capito se per morte naturale o per Coronavirus.
Perché i fatti sono due, o quando fino all’altroieri ci urlavano che eravamo delle merde, non usando esattamente le medesime parole, anche se tutti abbiamo visto i video sui social dei tutori della legge che esattamente queste parole dicevano agli incauti cittadini colti in giro senza motivi di primaria necessità, anche lì, lavorare e consumare, lavorare e consumare, queste le sole necessità primarie, nulla più, che se le cose andavano male, malissimo, era tutta colpa nostra, i bollettini quotidiani che ci terrorizzavano parlando sempre prima dei morti e dei contagiati, poi dei guariti, i video di Formigli e compagnia cantante nelle terapie intensive che mostravano malati intubati, le file dei camion dei militari con su le bare, le fosse comuni, ne abbiamo una anche a Milano, pensa te!, o non era vero nulla e di colpo il mondo è di nuovo un posto bellissimo da frequentare, solo per produrre e consumare, però, consumare neanche tanto, se ne riparla più avanti, ma comunque produrre, niente più bollettini quotidiani, i morti, sempre sulle stesse cifre, neanche li nominano più, Colao è un uomo forte che ci ha letteralmente salvato, tutto torna alla normalità, sempre quella normalità lì, produci, consuma e crepa.
Nessuna via di mezzo, non c’è stata una via di mezzo, prima non si poteva uscire, ora si può uscire, se devi andare a produrre, appunto.
Come anche nella comunicazione di quei pagliacci che ci guidano, quelli capitanati dal Brian Ferry de noantri, prima ogni quattro giorni una lunga diretta social, i gruppi di groupie con le mutande bagnate, indice di gradimento sopra il 70%, lì a parlare di resurrezioni, di tenebre, milioni di like per non dire un cazzo, quindi, ma a non dirlo bene, da avvocato di Foggia, coi virologi a dare manforte con le loro dichiarazioni da sciamani e imbonitori da Medicine Show, sapete già di che si tratta, ora pillole di due minuti che si alternano a altre chiacchiere inutili, con informazioni sempre più fumose, si parte ma non si riparte, apriamo ma non apriamo, informazioni scarse, rarissime, più silenzioso di Mattarella, sempre che sia possibile essere più silenziosi di un presidente che sotto pandemia si fa sentire giusto un paio di volte, sarà colpa di Giovanni, il gradimento sceso ovviamente sotto il 40%, gli aiuti promessi che si sono dimostrati emerite cazzate, la presa di Confindustria, quella stessa Confindustria che ha tenuto aperte le imprese a focolai già arrivati nel bresciano e nel bergamasco, la presa di Confindustria a spingere per una riapertura, l’eterna lotta interna alla Lega tra Zaia e Salvini, nel caso specifico del suo pard Fontana, a far sì che da una parte colui che parlava di cinesi che mangiano i topi si vanti di aver scampato la pandemia fregandosene delle indicazioni dell’OMS, dall’altro si tenda a far finta che anche in Lombardia la si sia scansata la pandemia, da soli più morti che nel resto d’Italia, regione con più alto tasso di vittime al mondo, quindi si provi a riaprire tutto ben sapendo che siamo ancora nella devastazione, con la distanza da tenere impraticabile in buona parte delle fabbriche che riapriranno, i mezzi che potranno accogliere un decimo dei soliti viaggiatori, viaggiatori che li dovranno usare per andare al lavoro, Sala parla addirittura di togliere le auto da Milano, si ficcasse le biciclette nel culo chiunque mi parli di viabilità green, e che quindi dovranno aspettare ore in fila per poterci andare, non essendoci per contro dieci volte tanti mezzi a disposizione, i supermercati, quelli nei quali per due mesi abbiamo fatto file interminabili a qualsiasi ora ci andassimo, che di colpo avranno orari infernali, quelli soliti, la sera dopo la fine del lavoro e nel weekend, con rischi ancora maggiori, per non dire della faccenda delle scuole che resteranno chiuse, coi figli che, al limite, potremo dare in pasto ai cinesi di Zaia al posto dei topi, perché il bonus baby sitter, che solo in pochi potranno vedere, basterebbe sì e no per un paio di settimane, ripeto, dementi e pagliacci coloro che ci guidano.
Ancora tre giorni, quindi, e poi via, liberi tutti, liberi di andare a lavorare, ripeto, non di fare altro, il lavoro rende liberi, ricordate la scritta?, io per non correre il rischio che i miei quattro figli lo dimentichino ce li ho portati, con Marina, l’anno scorso, a vedere quella scritta, vi saprei dire anche il giorno preciso, l’8 di agosto, giorno nel quale Lucia, la nostra figlia più grande, compiva diciotto anni, e se qualcuno di voi pensa che portare la propria figlia a Auschwitz il giorno del suo diciottesimo compleanno sia un gesto di estrema cattiveria, beh, significa che non ha figli e parla per dar fiato alla bocca, perché quello è stato per tutti loro, per tutti noi, anzi, un giorno tra i più importanti della nostra vita, una lezione che spero tutti loro si ricordino vita natural durante, il lavoro non rende mai liberi, quella è una cazzata inventata dai nazisti e prima ancora dai padroni, così come il lavoro non nobilita l’uomo, chi è nobile non ha presumibilmente mai lavorato in vita sua, il lavoro è una costrizione cui ci siamo sottoposti, o meglio, cui ci hanno sottoposti, e che noi proviamo a arredare alla bene e meglio, come il famoso tunnel di freakantoniana memoria, o come fanno i carcerati con le loro celle, non è del resto così che si fanno con le scrivanie degli uffici, le foto, i ninnoli, roba propria che dovrebbe portare un po’ di vita nel posto che la vita ce la risucchia fino al midollo, al lavoro sacrifichiamo buona parte della nostra vita, e il lavoro, mai come in questi giorni, ci ha portato e spero non ci riporterà a breve, nella fossa, ancora tre giorni e milioni di persone torneranno al lavoro, senza tenere conto dei milioni che, aggirando le regole, siamo italiani, in questo non ci ha mai fregato nessuno, ripeto, dovremmo segnarcelo sul calendario come la Festa dei Padroni.
Intendiamoci, non che io non ambisca, come tutti, a tornare a vivere come prima, intendendo con questo a tornare a vivere uscendo quando voglio, coi miei familiari che possono fare lo stesso, i figli andare a scuola, vedersi con gli amici, andare a giocare al parco, a limonare al parco, parlo di Lucia, non parlo dei concerti, perché quelli li vedo davvero lontani, ma quantomeno a qualcosa che con la normalità di prima ha qualcosa a che fare, ma vorrei poterlo fare senza avere certezza che nessuno ci sta capendo un cazzo, così è, perché prima mi davano della testa di cazzo nonostante io sia stato in casa per due mesi e ora mi dicono che non si deve stare in casa, così, senza evidenze scientifiche, scienza suca, come mai potrei avere fiducia nei confronti di questi cialtroni?, certo che anche io vorrei tornare a vivere, perché questo che stiamo facendo da tempo è un surrogato, diciamocelo apertamente, ma non farlo con la stessa spensieratezza con cui uno si può buttare da un ponte appeso a un elastico, diciamo con le tutele del caso.
Ora, mi si dirà, gli altri stati sono ripartiti e non è successo nulla.
Tutto vero.
O meglio, abbastanza vero, in Cina la faccenda si sta di nuovo complicando, e loro il lock down, che parola di merda, lo hanno fatto davvero.
Direi che non siamo esattamente nella posizione per fare confronti, però, perché abbiamo ricevuto l’inculata per primi, è noto, ma siamo ancora esattamente in quella fase lì, nello specifico la fase anale, non starei tanto a azzardare paragoni. Sarà che gli altri non hanno degli scappati di casa al governo?
Probabilmente sì.
Sarà che a noi è capitato per primo quello che agli altri è capitato un po’ dopo, dopo cioè aver potuto ipotizzare una qualche strategia?
Anche.
Sarà pure che gli altri tendono a avere un rapporto con le regole da seguire un filo più ferreo, tutti abbiamo visto i tedeschi sul greto del fiume salcazzo, a Monaco, a un metro l’uno dall’altro, ma tutti abbiamo anche in mente cosa sarebbe successo lo avessero permesso da noi, basta vedere la gente che indossa a cazzo le mascherine che tutti noi abbiamo incrociato per strada, andando a fare la spesa, per capire di cosa sto parlando?
Su questo ci scommetterei bei soldi.
Gli altri sono ripartiti e a loro sta andando bene, vero, ma noi non siamo gli altri, siamo italiani, e nonostante ci piaccia raccontarci come i migliori, un popolo dal cuore d’oro, che sa risolvere problemi irrisolvibili, tutti conosciamo chissà quante barzellette a riguardo, e che cade ma sa sempre risollevarsi, anche grazie al cuore d’oro di cui sopra, ben sappiamo che anche questo non è vero, siamo pecore, sempre in cerca di un padrone da seguire, siamo rancorosi, siamo campanilistici, ce la prendiamo con Feltri che dice che i terroni sono esseri che soffrono di un complesso di inferiorità giustificato dal loro essere inferiori ma poi gli rispondiamo dicendo che i meridionali sono meglio dei settentrionali, citando la cultura greca o i grandi uomini di cultura e spettacolo arrivati dal sud, per non dire delle varie faide già dette su, i veneti che sono i migliori, i toscani che hanno contenuto, i milanesi che se lo meritano perché sono sempre stati arroganti.
Per dirla con Gaber, ma non è di Gaber che voglio parlarvi, mi ha sempre fatto abbastanza cagare Gaber, penso di poterlo dire finalmente, tanto siamo tutti ancora in quarantena, io non mi sento italiano, ma purtroppo lo sono, senza tirare in ballo la fortuna, è un anno bisestile, questo.
Essere italiani è un’illusione ottica di cui siamo vittime da sempre.
Non esistiamo come popolo, non esistiamo come nazione, non facciamoci sempre fregare dal popopopopopopò del Mondiale 2006, sulle note di Seven Nation Army dei White Stripes, anche col calcio ci hanno sempre inculato.
Siamo italiani, come cazzo potremmo competere davvero con gli altri?
Ma non è di questo che vorrei parlarvi oggi, Primo Maggio, Festa dei Lavoratori, sessantottesimo giorno di clausura, sessantottesimo capitolo del mio diario del contagio, a soli tre giorni dall’inizio della Fase 2, 4 maggio, la Festa dei Padroni.
Vorrei semmai parlarvi di come, dopo tutti questi giorni di autoisolamento, e di autoisolamento da una parte imposto dalla contingenza, non si poteva uscire, pena 4000 euro di multa e la probabilità molto alta di ammalarsi e di far ammalare i nostri cari, i miei cari, nello specifico, dall’altro cercato con una certa ostinazione, nessuna volontà di continuare a occuparmi della poca musica, prevalentemente musica demmerda, che è uscita in questi due mesi, nessuna intenzione di seguire le puttanate ipotizzate per salvare il comparto economico che ruota intorno alla musica, moribondo per sua stessa mano ben da prima del Coronavirus, credo addirittura già morto, nessuna voglia, in sostanza, di continuare a fare quel che ho sempre fatto negli ultimi sei anni, se non coltivare la bellezza, quella l’ho sempre inseguita, e dedicarmi anima e corpo alla scrittura e alla musica che amo, musica della quale non ho quasi mai scritto in precedenza, troppo intento a prendere a roncolate quell’animale morente chiamato mercato discografico, costretto cioè a confrontarmi con esseri riprovevoli che nulla dovrebbero avere a che fare con un’arte alta e bellissima come la musica, vorrei parlarvi quindi di come, dopo tutti questi giorni di autoisolamento, coatto e voluto, quella che col tempo è diventata una suggestione da inseguire sia diventata più che altro una delle rare certezze su cui poggiarmi, quando tutto ciò sarà davvero finito, non cioè quando ce lo dirà Confindustria ma quando sarà evidente che tutto ciò sarà finito davvero, numeri alla mano, non credo che avrò più voglia di tornare a perdere il mio tempo dietro chi il mio tempo non se lo merita, si intenda con questo la suddetta musica demmerda e i suoi epigoni e anche il sistema che intorno alla musica demmerda si autoalimenta.
Come è infatti successo con certi cibi che, evidentemente, in qualche modo stavano compromettendo la mia salute, cibi che, usciti dalla mia dieta, giorno dopo giorno non solo non mi sono più mancati, ma hanno iniziato a infastidirmi anche nel solo momento in cui li vedevo o sentivo nominare, intendiamoci, non sono uno da roba bio, km zero o quelle stronzate lì, non fraintendetemi o sarò costretto a affogarmi in una vasca di crema pasticcera al via libera, questi due mesi e rotti di depurazione da certa robaccia, robaccia che ho sì affrontato con lo spirito moralizzatore dell’inquisitore che vuole ardere il male per lasciare che finalmente il bene vinca, non a caso ho sempre collateralmente continuato a promuovere quella musica, prevalentemente indipendente e prevalentemente al femminile, Anatomia Femminile Über Alles, musica che ritenevo e ritengo non solo meritevole, ma addirittura fondamentale per anche solo ipotizzare una rinascita, e mi trattengo solo perché già altri sproloquiano di resurrezioni e di tenebre, assai più pettinati di me, questi due mesi e rotti di depurazione da certa robaccia mi stanno inducendo, forse mi hanno proprio indotto, definitivamente, a rivedere il mio campo di azione, mollare le zavorre, disintossicarsi, salire a un gradino superiore.
Ora, se qualcuno di voi pensasse che sto facendo un discorso in qualche modo spirituale, zen, qualcosa che tiri in ballo concetti come l’ascesi, beh, temo abbia frainteso un pochettino il discorso che, a fatica, sicuramente, sto provando a portare avanti nonostante sia il Primo Maggio e io me ne stia da sessantotto giorni chiuso in casa invece che spaparanzato da qualche parte, possibilmente un prato, la pancia piena di carne cotta alla griglia o comunque di qualcosa da cucinare all’aperto.
Lo zen mi ha fatto sempre cagare.
No, non è vero, scusate.
La parola zen mi ha sempre molto affascinato, devo essere onesto. È quello che si trova subito dietro la parola zen che mi ha fatto sempre cagare, perché ci sono parole, scusatemi ancora, sapete, sono uno scrittore e per me le parole hanno un certo peso, ci sono parole che amo scrivere, leggere, pronunciare, sentir dire, a prescindere da quel che significhino, come “malinconia”, e ci sono parole che per contro, nonostante magari indichino qualcosa che apprezzo, mi fanno davvero cagare, trovo cacofoniche, orribili, indegne, a mio avviso, di star lì a indicare esattamente quello che indicano, penso, sempre per dire, alla parola “figa”. Zen appartiene alla prima categoria, la adoro nonostante tutto quello che ruota intorno allo zen mi infastidisca, mi crei nervosismo, mi allontani.
Faccio un paio di esempi, tanto per chiarirmi anche io le idee, ho cercato con una certa ostinazione, parlo di prima che Adelphi lo ripubblicasse, una vecchia edizione del libro Lo zen e l’arte della manutenzione della moto di Robert Pirsig. Ve lo dicevo proprio ieri, mi sembra, ho anche intitolato un mio racconto e una mia raccolta di racconti Lo zen e l’arte della manutenzione della Vespa 125 Primavera, omaggiandolo e omaggiando al tempo stesso la mia vecchia Vespa 125 Primavera rossa, l’ho cercato per anni, parlo di prima di Amazon, per capirsi, e anche di prima che arrivassi a Milano, coi suoi tanti negozi di libri usati, quando poi, finalmente, l’ho trovato, ho capito che di quel libro mi piaceva solamente il titolo, perché lo zen, in fondo, a me, mi sta un po’ sul cazzo. Un grande titolo dietro il quale si nascondeva un libro che avrei decisamente evitato di leggere, avessi saputo cosa c’era dentro. Tutt’altro discorso, invece, devo fare riguardo un’altra opera che porta la parola zen nel titolo, e non sto parlando dei 102 racconti zen di Richard Brautigan, altro autore che credo di aver citato ieri, ma forse era l’altroieri, in clausura si perde il senso del tempo, libro minore, decisamente minore, quanto di quella pietra miliare dell’hardcore e quindi del rock tutto che è Zen Arcade degli Hüsker Dü. Ricordo ancora oggi, perfettamente, il giorno in cui l’ho visto, in vinile, a casa dei miei amici Paolo e Roberto Bartola, credo lo avesse comprato Paolo, anzi, ne sono sicuro, e ricordo di come gli abbia subito chiesto di prestarmelo, volevo registrarlo in una audiocassetta, come buona parte dei suoi vinili, finendo dentro il mondo magnifico, doloroso e rabbioso, sporco e lirico, rumoroso e melodico, magnifico e magnifico di Grant Hart, Bob Mould e del baffuto Greg Norton. Un innamoramento immediato, credo si debba parlare di colpo di fulmine, che, e so che se ora tirassi in ballo Marina farei inorridire a ragione quanti guardano alla nostra storia d’amore, trentadue anni e passa insieme, come a qualcosa di alto, altissimo, ma era per attirare la vostra attenzione, questo passaggio, per provocarvi, un colpo di fulmine che, arrivato così, come succede coi colpi di fulmine nella metà degli anni Ottanta, mi ha fatto andare a riscoprire tutto quanto fatto dalla band di Saint Paul, Minnesota, a due passi dalla Minneapolis di Prince, aveva fatto prima, ricordo perfettamente di essere andato a recuperare non solo l’esordio Everything Falls Apart e il mastodontico Metal Circus, mastodontico nel suono, non nella durata, ma anche New Day Rising e Flip Your Wig, album in realtà usciti entrambi nel 1985, un anno dopo Zen Arcade, e si vede che Paolo mi ha mostrato Zen Arcade almeno nel 1985, forse anche nel 1986, vattela a ricordare la data, e quindi andare a scoprire tutto quanto avrebbe fatto dopo, un dopo, ahimé, durato poco, visto che di lì a breve Mould e Grant si sarebbero mandati a quel paese, il tempo di pubblicare Candy Apple Grey e il doppio Warehouse: Songs and Stories, uscito postumo, un mandarsi a fanculo frutto di storie di droga, Hart, il mio preferito del combo, era sotto eroina, d’amore, di tensioni tra co-leader.
Di come Sorry Somehow, contenuta in Candy Apple Grey e poi a dare il titolo a un EP, sia la mia canzone preferita del loro repertorio, oltre che una delle mie preferite in assoluto, già vi ho detto, così come vi ho chiaramente detto di come io sia sempre stato più dalla parte di Hart che di Mould, anche dopo, quando i due daranno vita a Sugar e Nova Mob e poi a alcuni album solisti, Hart prematuramente scomparso di recente, questo per specificare come, almeno nel loro caso, sia stato possibile passare dalla parola zen alla scoperta di un tassello importante della mia cultura, musicale e non, non è un caso, infatti, che nel mio romanzo Una notte lunga abbastanza, terza parte della trilogia Avrei voluto tutto, di cui vi ho più volte parlato in questo diario, uno dei personaggi a cui sono più legato si chiami Zeno Arcade, mio modo postmoderno di omaggiare proprio quell’album lì, la mia iniziazione agli Hüsker Dü e all’hardcore tutto.
Quindi, ribadisco, se qualcuno di voi pensasse che sto facendo un discorso in qualche modo spirituale, zen, qualcosa che tiri in ballo concetti come l’ascesi, beh, temo abbia frainteso un pochettino il discorso che, a fatica, sicuramente, sto provando a portare avanti nonostante sia il Primo Maggio e io me ne stia da sessantotto giorni chiuso in casa invece che spaparanzato da qualche parte, possibilmente un prato, la pancia piena di carne cotta alla griglia o comunque di qualcosa da cucinare all’aperto.
Non sto facendo discorsi spirituali o zen, tutt’altro, cerco di essere pragmatico, in fondo seppur io abbia deciso di dedicare la mia vita professionale, che per inciso non ritengo essere la mia vita tout court, alle parole e alla musica, argomenti aleatori, sono e rimango pragmatico, uomo di una concretezza assoluta, visionario ma coi piedi ben piantati in terra, per intendersi, cerco di essere pragmatico, e nel mio pragmatismo c’è questa faccenda qui ben in evidenza, quando e se tutto questo finirà io vorrei non dovermi più occupare di abbattere castelli di sabbia, quanto piuttosto dedicarmi anima e corpo a costruire castelli in mattoni, come nella parabola del Vangelo.
E il castello di mattoni che vorrei costruire oggi, sessantottesimo giorno di clausura in questo sessantottesimo capitolo del mio diario del contagio, ha l’estetica e il suono dei Devo, da Arkon Ohio, perfetta incarnazione, ante litteram e in deciso anticipo sui tempi, di come la società ci avrebbe infilato dritti dritti in un buco nel quale siamo destinati a vivere, produrre, consumare e crepare.
Sì, i Devo, nome che non a caso deriva da De-evolution, parola che col tempo abbiamo imparato a sentire dentro i discorsi dei nostri politici e economisti, sono stati, e sono quindi ancora, perché il passato fortunatamente non ce lo possono mica portare via, la perfetta incarnazione di quello che dalla seconda metà degli anni Settanta sembrava ovvio, l’uomo sarebbe sempre più stato una sorta di automa destinato alla catena di montaggio, provate a seguirmi, non sto parlando di Detroit o del Fordismo, una casella uguale alla casella di fianco, robot schizofrenici destinati a non lasciare traccia sul pianeta Terra. Paladini di un post-punk schizzato, antesignano di quella che sarebbe stata la migliore New Wave, i Devo, al secolo Gerald e Bob Casale, Mark Mothersbaugh e Bob Lewis, hanno incarnato, non solo musicalmente, l’estetica del robot da catena di montaggio, assai più dei Kraftwerk, per dire, tute da operai color fluo, cilindri da lavoro indossati come cappelli, talmente parti di una catena di montaggio da poter essere interscambiabili, tutti cantanti, tutti chitarristi, tutti leader e gregari, un punk elettronico che avrebbe lasciato sì tracce e ispirazioni per le generazioni a seguire. Q: Are We Not Men? A: We Are Devo!, datato 1978 e prodotto da Brian Eno, è ancora oggi un capitolo fondamentale della discografia rock tout court, pur affondando le radici nella controcultura e nel rock alternativo, prova ne sia il deciso omaggio che anni dopo faranno loro artisti apparentemente molto distanti tra loro come David Byrne, assolutamente deviano anche nel look nel suo Feelings o i Daft Punk.
Ascoltare ancora oggi brani eversivi, sì, assolutamente eversivi come Mongoloid o la successiva Whip It è una vera boccata d’ossigeno, un modo per scardinare proprio quel nostro essere una casella circondata da altre caselle, anonima, ingranaggio automatizzato che a breve dovrà pagare il suo tributo ai padroni.
E visto che oggi, Festa dei Lavoratori, sessantottesima giornata di clausura raccontata nel sessantottesimo capitolo del mio diario del contagio, sto parlando di correlazione tra musica e alienazione, discorso che meriterebbe decisamente più spazio e più approfondimento, e visto che mai come oggi parlare di alienazione mi sembra coerente, voglio alzare la posta sul tavolo, e tirare in ballo un’altra band americana che ha fatto del prendere l’alienazione figlia del progresso industriale e tecnologico e elevarlo a base fondante della propria poetica la propria ragion d’essere, al pari almeno della sperimentazione più estrema e senza limiti, non solo in campo musicale, i Residents.
Noti per non aver mai svelato le proprie identità, quattro artisti senza nome e senza faccia, i volti sempre nascosti dietro inquietanti maschere, ben prima degli Slipknot per capirsi, maschere a loro volta tutte uguali, alienate più che alientanti, giganteschi bulbi oculari su cui calzano enormi cappelli a cilindro, i quattro di San Francisco, questo almeno ci è dato saperlo, hanno passato gli ultimi cinquant’anni a mettere in crisi le nostre sicurezze, proponendo un rock alternativo assolutamente privo di gabbie, con frequenti incursioni nel vaudeville, assai prima delle mie amate Dresden Dolls, a dirla tutta, e con una propensione all’astrazione difficilmente decifrabile per chiunque, da prendere così, a scatola chiusa sperando di cogliere almeno un pochino del tanto che ci è stato infilato dentro.
E se i Devo mettevano costantemente al centro del loro mirino schizofrenico il capitalismo, i Residents hanno spesso puntato i riflettori sul consumismo, spingendo l’alienazione del robot che deve costantemente produrre verso quella dell’automa che deve consumare prodotti privi di personalità e caratteristiche uniche, già a partire da quella musica rock che in tutti questi anni, certo con tanti alti e tantissimi bassi, si sono prodigati a abbattere a colpi di improvvisazioni mai lasciate al caso.
Anche per loro, come per la band di Arkon e gli stessi Kraftwerk, la De-evolution è parte fondante dell’immaginario, e se negli altri casi a farla da padrona è la new wave postpunk e l’elettronica in salsa krautrock, qui è un lavoro radicale sulle registrazioni, sui campioni, sulle voci rielaborate, sulla manipolazione dei suoni al limite del noise, del rumore, il tutto lì a impattare spesso con strumenti tradizionali, portati in scena da collaboratori in carne e ossa, lasciatemi giocare su questo territorio, il tutto atto a creare una versione di art-punk, di proto-noise, di new wave in odore di psichedelia, qualcosa che non può non essere parente stretta dei vari Robert Wyatt, Frank Zappa, Captain Beefheart e più recentemente Les Claypool dei Primus e tutto quel che è ruotato intorno a quella fucina di idee e suoni chiamato Mike Patton.
Loro lavori quali Eskimo, la Mole Trilogy, composto da Mark of the Mole, The Tunes of Two Cities e The Big Bubble, o Freak Show Sountrack, perché anche sul fronte visivo i Residents tanto hanno dato, meritano più di un ascolto attento. Anche oggi, Primo Maggio. Soprattutto oggi, Primo Maggio.
Ecco, io vorrei proprio ripartire da qui, dai Devo e dai Residents, dall’alienazione capitalistica e consumistica e il solo modo conosciuto per resistervi, l’arte e l’arte rivoluzionaria.
Indossiamo le nostre tute fluo, i nostri bulbi oculari, i nostri cappelli a cilindro e scendiamo in piazza, su, festeggiamo i lavoratori, osteggiamo i padroni.