Sono finito dentro una tesi di laurea.
O meglio, sono di nuovo finito dentro una tesi di laurea.
In realtà, nel corso degli anni, sono finito dentro diverse tesi di laurea, sin dal mio primo libro di racconti, uscito nel 1998, in quel caso una tesi di laurea discussa in Francia, Sophie il nome della laureanda, tesi tutta incentrata su di me, e poi altre volte, alla stessa maniera, in alcuni casi credo addirittura un mio libro sia finito come libro di testo di un corso di laurea, parlo di Tangenziali, ma in questi strani giorni di reclusione sono finito in una di quelle anomale tesi di laurea che si sono discusse a distanza, immagino su Skype, e la cosa mi ha particolarmente colpito, anche se stavolta ci sono finito come autore di un libro e un articolo citati in bibliografia.
Mi ha colpito per più di un motivo.
Primo, perché essere finiti dentro una tesi di laurea è sempre emozionante, come se di colpo quello strano lavoro che ti porta a indossa occhialoni rosa e codini alla Frank Zappa venisse intercettato al volo da qualcuno, qualcuna nello specifico, in grado di spiegare agli altri che no, non è che sei solo un istrione, ma hai anche qualcosa di serio da dire, andando poi a spiegare cosa.
Secondo perché, l’idea che nonostante tutti si sia fermi, le lezioni delle didattiche a distanza che, non l’ho raccontato quotidianamente perché il tutto è esploso proprio in quei giorni della settimana scorsa nella quale mi sono dedicato a giocare a nascondino con voi, chiuso dentro i miei ricordi di gioventù, la mia libreria e la mia discoteca, hanno causato gli unici momenti di vera tensione in casa, io e Marina, o Marina e io, fate voi, sottoposti a una pressione incredibile dettata dal doverci fare carico di due figli in età scolare primaria, oltre che dei lamenti legittimi o meno dei due figli adolescenti, figli adolescenti che portano avanti autonomamente le proprie lezioni a distanza, certo, e le loro interrogazioni e verifiche a distanza, ma che sono adolescenti in cattività da oltre due mesi, quindi irrequieti, nervosi, in cattività, appunto, sottoposti, Marina e io, a una pressione incredibile dettata dal doverci fare carico di due figli in età scolare primaria, tanti compiti che contemplano la presenza di un genitore per spiegare quello che altrimenti resta incomprensibile, per organizzare, prima, per stampare, scaricare, controllare, far vedere video e ascoltare file vocali, fotografare e spedire indietro poi, gestire anche le mefitiche chat dei genitori, di quello si occupa la sola Marina, presenziare come tecnici di laboratorio alle lezioni a distanza, attiva il microfono, attiva il video, spegni il microfono, gira l’ipad, in loop, e cambia il nome sulla app, se no Francesco risulta essere Chiara, e viceversa, come se le facce non fossero sufficientemente riconoscibili, come se uno non avesse un cazzo da fare piuttosto che registrare ogni volta il nome giusto, il tutto mentre si continua a lavorare, come prima, più di prima, con le differenze che si lavora peggio, perché lo si fa in casa, in ciabatte, lo studio che un tempo era il mio ufficio divenuto giustamente lo studio di Marina, io che mi barcameno cercando spazi, perché far diventare il mio ufficio la sala comporterebbe costringere gli altri, quando non studiano, a stare tappati in cucina, le camere spesso aule scolastiche per i figli più grandi, una tensione, quella tra me e Marina, figlia del fatto che la didattica a distanza, che sicuramente pesa anche alle insegnanti, oltre che ai bambini, si poggia troppo e soltanto sui genitori, fottendosene, questa è un’emergenza, certo, ma è un’emergenza con la quale si sta facendo i conti da più di due mesi e che non si sa, sul fronte scolastico, per quanto andrà avanti, si parla infatti di 2021 prima di un ritorno alle normali lezioni in classe, secondo perché, quindi, l’idea che nonostante tutti si sia fermi qualcosa a livello di istruzione sia comunque andato avanti come niente fosse, certo discutere una tesi di laurea in ciabatte in camera non sarà stato esattamente quello che la neolaureata che mi ha citato nella sua tesi aveva in mente, ma si è pur sempre laureata con 110 alla Bocconi, e che diamine, mi sembra la prova provata che magari l’Apocalisse, per questa volta, l’abbiamo schivata, che si può ipotizzare un futuro prossimo, anche remoto, che, per dirla con Vasco, la vita continua.
Sono finito citato dentro una tesi di laurea, quindi, e sono finito citato dentro una tesi di laurea che è stata giustamente premiata con un 110, alla Bocconi, e ci sono finito citato per il mio parlare, o meglio, aver parlato, perché dentro una tesi di laurea ci sono finiti, tecnicamente, i miei scritti, non io, parte di una bibliografia che nelle tesi si trova, comme d’habitude, a fine testo, per aver parlato, quindi, di un argomento che è letteralmente uno dei capisaldi della mia poetica, o che quantomeno lo è stato negli ultimi dieci anni, perché che io continui a occuparmene è evidentemente tutto da vedere, il femminile all’interno del sistema musica, di più, il femminile e il corpo della donna dentro il sistema musica e la forma canzone.
Ho conosciuto la laureanda in questione, ora laureata, a inizio gennaio, quando ancora il Coronavirus sembrava qualcosa di esotico che ogni tanto finiva in coda ai telegiornali, dopo le notizie sportive e di gossip, presentatami virtualmente da Paola, una addetta ai lavori che stimo e che, immagino, a sua volta stimi me.
Ci siamo visti in un bar dalle parti di casa mia, lungo la via che da sessantaquattro giorni mi ritrovo a fotografare, deserta, tutte le notti, un bar che ha da poco, aveva da poco, chissà se riaprirà a lock down finito?, cambiato gestione, e che avevo adottato come mio ufficio per incontri e riunioni volanti. Per chi, come me, l’ufficio è in casa, avere punti di appoggio volanti è fondamentale, perché di incontrare altre persone in casa non mi va, e più che altro perché credo che non sempre sia proponibile. Certo, incontrare persone al bar non sempre è considerato plausibile e edificante, perché al bar in genere ci si va per altri motivi, di svago, ma le aree di co-working mi fanno cagare di principio, quindi è al bar che generalmente incontro i miei interlocutori, e per di più quasi sempre negli stessi bar, quello che sta davanti alla scuola dei miei figli piccoli, i gemelli, per dire, o questo che ha, o aveva, da poco cambiato gestione vicino a dove abito ora.
In quel bar, quindi, ho incontrato questa studiosa che sta cominciando a lavorare nel mio settore, collaborando con una addetta ai lavori che ha la mia stima incondizionata, e abbiamo a lungo chiacchierato degli argomenti che ruotano intorno al femminile nel sistema musica, ovviamente a domande specifiche, scientifiche, perché la sua è una tesi in ambito economico, ho dato risposte estrose, nel mio stile, immagino portando un po’ di confusione, sapete come sia propenso a guardare al caos con accondiscendenza, ma spero portando anche punti di vista utili, non è nello specifico dell’oggetto della tesi che voglio parlare, non ne avrei le competenze, non ho quel tipo di approccio, non ho studiato la materia dal punto di vista analitico della neolaureata.
La tesi, questo però posso dirlo perché la tesi mi è poi arrivata e l’ho letta, scritta in lingua inglese, seppur con tutte le tare che la mia cultura umanistica comporta, approccia il femminile e il suo stare dentro il mercato discografico italiano, il sistema musica di cui sopra, da un punto di vista altro rispetto al mio, la tesi è in Management for Arts, Culture, Media and Entertainment, e ci mancherebbe pure altro, decisamente più scientifico e con minori intenti provocatori di quelli che presumibilmente ci avrei messo io, il titolo dice già molto: A STAGE OF ONE’S OWN: Analysis of the audience perception of female artists in the italian music market.
L’idea, quindi, quella della tesi, di fare un discorso d’insieme sulla percezione della figura femminile all’interno del mercato musicale italiano, idea che in qualche modo è finita più volte nei miei scritti, sempre partiti dall’intento letterario di andare a decifrare uno stato d’essere a partire da dettagli, magari anche minimi, non intendo certo star qui a riparlarne proprio in questi giorni in cui il mercato sembra aver esalato gli ultimi respiri.
Mi rende però piuttosto orgoglioso, sapete, in fondo non mi sono mai laureato, abbandonati gli studi prima di dare il ventiduesimo esame su ventidue, la tesi già scritta, vedi che testa di cazzo che sono, mi rende quindi, è quindi la parola giusta, piuttosto orgoglioso leggere il mio nome, come autore di un libro e di un articolo, nella parte dedicata alla bibliografia consultata dal relatore di una tesi di laurea alla Bocconi, il mio articolo addirittura il primo citato in note, già nell’introduzione, mi rende felice sapere che la relatrice, perché di donna si tratta, ha conseguito il massimo dei voti, non perché io abbia meriti a riguardo, sia chiaro, ma perché parlandoci, prima, e leggendo cosa ha scritto, dopo, ho avuto modo di constatare che di studiosa meritevole si tratta, un nome del quale suppongo sentiremo parlare nel già citato sistema musica, o forse sentiremmo parlare nel già citato sistema musica se il sistema musica avesse davvero qualche chance di superare l’impatto apocalittico del Coronavirus.
Siccome però sono uno scrittore che da sempre ha fatto dell’irriverenza una delle proprie cifre caratterizzanti, che ha fatto della provocazione la propria mossa segreta, quella che ti tocco un punto sulla spalla e muori, dell’eversione una specie di attitudine portata ai livelli di incarnazione poetica, non posso che provare a mettere ora sul tavolo questo aspetto, ben sapendo che vanificherà, immagino, tutto quanto su scritto, sia riguardo il grande lavoro fatto dalla neolaureata che ha citato i miei lavori nella sua tesi, e fortuna che non ho detto che sia chiama Maria Chiara Fonda, sia riguardo la faccenda dell’orgoglio, quasi una sorta di riscatto per la mia mancata laurea, non posso che soffermarmi su uno di quei dettagli che, agli occhi di chi fa un mestiere diverso, non è cioè tenuto o quasi costretto a soffermarsi in continuazione su dettagli anche prescindibili, fonte più spesso di apparente distrazione che di approfondimento, avendo del resto fatto della distrazione, leggi alla voce divagazione, flaunerismo, vagabondaggio, insomma, vi ho già detto del mio andare a ramengo come uno psicogeografo, errante in quanto uno che erra, lo si legga in qualsiasi valenza si vuole, dettagli che però diventano i reali punti cardinali di detto divagare, vagabondare, insomma, di questo procedere per strappi e deviazioni, siccome però sono uno scrittore che da sempre ha fatto dell’irriverenza una delle proprie cifre caratterizzanti, che ha fatto della provocazione la propria mossa segreta, dell’eversione una specie di attitudine portata ai livelli di incarnazione poetica, non posso che provare a mettere ora sul tavolo questo aspetto, con tutto quello che ne conseguirà: le tette di Romina Falconi.
Sì, perché a fianco di testi di musicologia, di sociologia, di antropologia e anche, ovviamente, di economia applicata al sistema musica, nella tesi di laurea di Maria Chiara Fonda compare il libro Venere senza pelliccia, quando il pop italiano si è infilato le mutande, opera da me scritta e edita da Skirà nel 2017, opera che ha dato vita e titolo al mio più volte citato TedX tenuto a Matera il 14 febbraio 2018 con la partecipazione di Ilaria Porceddu, nonché al mio monologo Cantami Godiva, contro i sentimenti per un ritorno al corpo, portato in scena in compagnia sempre di quella artista gigantesca seppur schiva e poco prolifica di Ilaria Porceddu e con la partecipazione di Noemi, Patrizia Laquidara e La Rappresentante di Lista il 12 dicembre dello stesso anno, testo, quello di Cantami Godiva, poi finito dentro il libro I piedi nudi di Amanda Palmer, i capelli rossi di Elizabeth Siddal, edito da Vydia Editore nel 2019, come prefazione dell’omonimo monologo teatrale, quello tratto dai due racconti usciti nell’antologia Ultimo desiderio una cui copia si trova nella mia libreria con dentro la dedica e l’autografo di Amanda Palmer, destino negato alla mia copia di Anime @ Losanghe, la cui copia con dedica e autografo di Jello Biafra dei Dead Kennedys è invece da qualche parte chissà dove, come vi raccontavo qualche giorno fa, Amanda Palmer sulle cui tette, tanto per ritornare al motore di questo lungo periodo, anche se delle tette di Romina Falconi stavo parlando, si potrebbe scrivere a sua volta un saggio, anche se io nel mio TedX e anche nel monologo Cantami Godiva, partenti assai stretti, mi soffermavo di più sui suoi peli pubici, di Amanda Palmer, a loro volta oggetto di un suo brano, di Amanda Palmer, non solo i suoi, ma i peli pubici in generale, Map of Tasmania, canzone che ravvedeva una certa somiglianza tra quello che viene genericamente chiamato il Monte di Venere e la suddetta Mappa della Tasmania, e nel video che accompagnava la canzone, per altro, un cui fermo immagine è apparso nel maxischermo alle mie spalle durante il mio TedX, prima di lasciare spazio alla copertina di There Will Be No Intermission, album che sarebbe uscito di lì a qualche mese, sempre di Amanda Palmer, e che la mostrava completamente nuda, peli pubici ben in evidenza, mentre sopra un piedistallo brandiva una spada a mo di Arcangelo Michele, lei da sempre contraria alla depilazione delle donne, sì, perché a fianco di testi di musicologia, di sociologia, di antropologia e anche, ovviamente, di economia applicata al sistema musica, compare il libro Venere senza pelliccia, quando il pop italiano si è infilato le mutande, opera da me scritta e che mostra in una delle copertine migliori che i miei settantotto libri, Romina Falconi che posa come fosse una versione ultrapop della Venere di Milo, anche lei su un piedistallo, anche lei senza braccia, ultrapop perché pube e monconi sono esattamente come quelli di Barbie e Big Jim, come chiunque ci abbia mai giocato ben può riconoscere, una versione ultrapop della Venere di Milo, quindi, che a differenza della Venere di Milo ha però due gigantesche tette, lei direbbe sise, in primo piano.
Ho capitolato clamorosamente, potrebbe pensare qualcuno, un qualcuno che pensasse, arbitrariamente, va detto, che le parole che appaiono qui come in quasi tutti i miei scritti come fossero frutto di una sorta di flusso di coscienza fossero qui, come in quasi tutti i miei scritti, a prescindere dalla mia volontà, quasi involontariamente capitati sulla pagina, Dio che verbo orribile “capitare”, ho capitolato clamorosamente perché per una volta che, dopo giorni in cui mi perdevo in divagazioni che mi hanno tenuto a lungo fuori da queste pagine, parlo del me stesso odierno, quello che da sessantaquattro giorni vive in clausura con la propria famiglia in una casa di Milano, il Coronavirus a tenerci qui chiusi e a terrorizzarci, non terrorizzare nello specifico noi, non mi sento affatto terrorizzato, e quantomeno non dal Coronavirus, era un discorso generico che voleva portarmi a dire che è la paura il sentimento che in qualche modo ci sta dominando, naturale o indotta, vallo a capire, per una volta che, dopo giorni in cui mi perdevo in divagazioni che mi hanno tenuto a lungo fuori da queste pagine, sono tornato a parlare di me e di me che in qualche modo ritorno a svolgere il lavoro di critico musicale che è poi quello grazie al quale sono finito a scrivere da queste parti, anche se ormai da sessantaquattro giorni scrivo quasi esclusivamente del mio e nostro stare in quarantena, seppur divagando e nascondendomi altrove, una volta quindi che, dopo giorni in cui mi perdevo in divagazioni che mi hanno tenuto a lungo fuori da queste pagine sono tornato a parlare di me e di me che faccio il mio lavoro, andando addirittura a citare un evento straordinario, l’essere finito citato in una tesi di laurea, ma pur sempre un evento straordinario che ci tiene legati al mondo per come lo conoscevamo prima, le tesi di laurea c’erano prima del Coronavirus e la quarantena e ci sono anche nonostante il Coronavirus, evviva la normalità, evviva uno sprazzo di ritorno alla normalità seppur tramite un evento straordinario, quindi fuori dalla routine, ecco, ho capitolato clamorosamente perché per una volta che, dopo giorni in cui mi perdevo in divagazioni che mi hanno tenuto a lungo fuori da queste pagine, sono tornato a parlare di me e di me che faccio il mio lavoro sono finito subito a parlare di peli pubici e di tette, o sise che dir si voglia.
In realtà, suppongo ci siate serenamente arrivati da soli, era esattamente lì che volevo andare a parare, in mezzo a quei peli e quelle tette, alla faccia del flusso di coscienza, reale o apparente, della costruzione ellittica e a tessere di domino, che sposti una parola e casca tutto per terra, alla faccia del continuo rimbalzare della mia narrazione diaristica tra alto e basso, colto e pop, vero e finto, o meglio vero e cronachistico, tirando in ballo aspettative e frustrazioni, moti di orgoglio e paure, sentimenti e pose, volevo andare a trovarmi in un posto familiare, conosciuto, riconoscibile, sicuro, quindi, come può essere certo e sicuro un posto nel quale ci siamo trovati a passare chissà quante altre volte, di quelli che, fossimo un bar, o fossimo un bar di prima del Coronavirus, di quando cioè i bar c’erano e la gente ci andava senza per questo temere di rimanere contagiata, anche senza ipotesi di corridoi di plexiglas o di distanziamenti sociali, di quelli che, fossimo un bar, potremmo entrare e dire “il solito”, senza neanche bisogno di guardare in faccia il barista, un cenno del capo come saluto, sempre lo stesso cenno del capo, sempre lo stesso “solito” pronto a arrivarci di fronte, un posto familiare, appunto, consueto, amico, seppur credo sia noto, nell’eterna querelle, un’eterna querelle sessista, certo, da bar, appunto, nell’eterna querelle tra tette e culo, querelle che, lo dico en passant, è stata oggetto di due miei notissimi articoli ai tempi in cui scrivevo per il sito del Fatto Quotidiano, quando per perculare quei tanti articoli pseudoscientifici in realtà biecamente acchiappaclick che giocavano sulle debolezze vere o presunte dei lettori, tipo “chi ama la Nutella è più intelligente”, “chi è disordinato è più intelligente”, “chi ha il culo grosso è più intelligente”, tutti articoli idioti che citavano presunti studi scientifici di una qualche inventata università degli Stati Uniti, quando per perculare quei tanti articoli pseudoscientifici lì ho scritto prima un articolo in cui, citando appunto un presunto studio di una qualche assurda università americana, andavo dicendo che è appurato scientificamente che non è vero che le donne col culo grosso sono più intelligenti, quanto che gli uomini che guardano il culo grosso delle donne col culo grosso sono più intelligenti, andando quindi a scrivere, tra il serio e il faceto una sorta di apologia del culo grosso e generoso, articolo che sfiorò la milionata di click, cui fece seguito un mio altro notissimo articolo, sulla stessa falsa riga, in cui dicevo che ulteriori studi avevano appurato come siano particolarmente intelligenti non solo gli uomini che guardano le donne col culo grosso, ma che al contempo guardino le donne col culo grosso e le tette piccole, andando quindi a mettere sul piatto, intendendo per piatto l’agone filosofico, filosofia da bar, ovviamente, una presunta contrapposizione tra tette grandi e tette piccole, da associare a quella tra culo grosso e culo piccolo, e alternando le cose, trovavo nel culo grande e le tette piccole la giusta combinazione, il tutto in un articolo a sua volta oggetto di una quantità ingentissima di click, tutt’ora tra i miei più letti e suppongo anche tra i più letti di quel sito, sito per il quale non lavoro più, e vista la china che ha preso quel giornale, specie in questa particolare fase politica, si legga la cosa come rara fonte di sollievo, articolo che per ragioni che vorrei dire mi sfuggono, ma visto lo stato in cui versava e versa il giornalismo italiano in realtà non mi sfuggono affatto, articolo che a suo tempo è stato ripreso da una quantità impressionante di altri siti e giornali, a volte tristemente anche nelle pagine della sezione Salute & Benessere, tutti articoli che citavano il suddetto studio scientifico dell’università americana, senza cogliere l’ironia dei miei articoli, senza capirci sostanzialmente un cazzo, e la faccenda delle tette e il culo, o meglio, di un ipotetico sondaggio tra tette e culi, mi è tornata ora in mente la sua genesi, partiva da una serata particolarmente noiosa sui social, qualche anno fa, quando dopo aver postato non ricordo che passaggio di John Barth, padre del massimalismo americano, lui sì studiato nelle università, e mio mito assoluto, anche mio modello ispirativo, e non aver ricevuto sui social nessuna reazione, neanche un like stitico, avevo lanciato, provocatoriamente il sondaggio “ma voi preferite tette o culo”, andando invece a ricevere qualcosa come quattrocento risposte, non so quanti like e una serie infinita di condivisioni, così funzionano i social o almeno così funzionavano in tempo di pace, parli di massimalismo e non ti caga nessuno, citi un paio di tette e un culo e spacchi, mi sono di nuovo perso, ma mi sono perso in un posto confortevole, fatto di culi grossi e di tette piccole, ecco, ora ricordo dove stavo accompagnandovi, riprendo il filo, seppur ormai io sia certo vi sia noto, nell’eterna querelle, un’eterna querelle sessista, certo, da bar, appunto, nell’eterna querelle tra tette e culo io stia senza se e senza ma dalla parte del culo, ecco, in realtà, suppongo ci siate serenamente arrivati da soli, era esattamente lì che volevo andare a parare, alla faccia del flusso di coscienza, reale o apparente, della costruzione ellittica e a tessere di domino, che sposti una parola e casca tutto per terra, alla faccia del continuo rimbalzare della mia narrazione diaristica tra alto e basso, colto e pop, vero e finto, o meglio vero e cronachistico, tirando in ballo aspettative e frustrazioni, moti di orgoglio e paure, sentimenti e pose, volevo andare a trovarmi in un posto familiare, conosciuto, riconoscibile, sicuro, un posto che ha al momento la forma piuttosto generosa delle tette, sise direbbe lei, di Romina Falconi, o la generosa foltezza dei peli pubici di Amanda Palmer.
Giorni fa proprio sui social una mia amica, la Nadia di cui vi ho parlato recentemente, si chiedeva di cosa mai potessero parlare in queste settimane gli uomini, privati del sacro gioco del calcio e del poter tirare in ballo la figa, lei non lo diceva così, ma era sottinteso, costretti in casa con le mogli e lontani dai luoghi in cui quel tipo di discorsi genericamente si fanno, o si pensa si facciano, i bar più volti ricorsi in queste mie parole di oggi.
Non rientro tra quanti amano parlare di calcio, anche se in un passato neanche troppo lontano ho cullato l’idea di provare a diventare uno di quelli che ne scrivono, ho pubblicato tre libri a riguardo, senza però riuscire a scalfire la coltre che protegge quella che è sì una casta, mio sogno assoluto andare ospite a Il processo di Biscardi, e men che meno sono tra quelli che amano parlare di donne, il concetto stesso di “parlare di figa” mi agghiaccia, perché trovo l’idea di associare una donna alla parola figa sia avvilente, non tanto per le donne quanto per gli uomini, e non solo per una questione di sessismo, ma anche perché trovo la parola figa davvero sgradevole, oggettivamente brutta, di qui anche la mia idea di lanciare negli anni passati il provocatorio hashtag #LaFigaLaPortoIo, il cui scopo era quello appunto di urticare, infastidire, provare appunto reazioni ostili, sono un uomo di parole e le parole mi fanno quell’effetto, ho spesso parlato di corpi, ve ne parlavo giusto qualche giorno fa, e proprio il mio parlare di corpi e di corpi femminili in ambito musicale mi ha portato a finire dentro la tesi da cui queste mie pagine odierne di diario sono partite, ma mai mi sognerei di fare battute scurrili, di usare parole volgari che identifichino una donna con una sua parte anatomica, l’idea del mio Anatomia Femminile partiva esattamente dall’idea opposta, ma oggi, sessantaquattresimo giorno di quarantena, clausura, autoisolamento, nel sessantaquattresimo capitolo del mio diario decameroniano del contagio era esattamente a parlare delle generose, anche qui, che bell’aggettivo usato nella maniera sbagliata, tette di Romina Falconi che volevo andare a parlare, e dei folti peli pubici di Amanda Palmer.
Volevo, cioè, appigliarmi a qualcosa di genericamente e erroneamente considerato normale, un discorso da bar così viene chiamato perché si ipotizza che venga fatto abitualmente nei bar, luoghi di grande frequentazione, per provare a tornare, almeno per i minuti passati a scrivere, che diventeranno minuti che voi passerete a leggere, a prima che il Coronavirus arrivasse a scombinarci le carte in tavola.
L’ho fatto, quindi.
Ovviamente che io ami la musica e l’attitudine di Amanda Palmer vi è sicuramente noto, la cito con una certa frequenza, e ci ho anche su scritto a sufficienza, libri, articoli e anche discorsi come quello dell’ormai citato a noia TedX, spero sappiate già che anche Romina è artista che molto apprezzo, per quel suo modo unico, in Italia, di giocare sul femminile e di usare l’ironia e i luoghi comuni, il rovesciamento dei luoghi comuni, per provare a scardinare preconcetti e pregiudizi sui quali la nostra società è arroccata, il tutto usando una cifra originalissima, una lingua senza peli sulla lingua, una poetica provocatoria e fintamente sbadata, l’essere bionda usato come uno scudo, ascoltatevi i suoi album Certi sogni si fanno attraverso un filo d’odio e soprattutto Biondologia per credere, la musica che spazia tra urban e electropop su cui una voce black tra le più belle in Italia svetta esattamente alla stessa maniera in cui svettano sulla copertina del libro che mi ha portato dentro la tesi di laurea della neolaureata Maria Chiara Fonda, Venere senza pelliccia, quando il pop italiano si è infilato le mutande, le vere protagoniste di queste pagine al pari della tesi della neolaureata Maria Chiara Fonda, le sue tette, lei direbbe sise.
Da domani riprendo un po’ di contegno, ritorno il paladino del femminile nel sistema musica italiano, quello di Anatomia Femminile, quello che si incazza perché la presenza femminile nelle task force che il governo ha tirato su per decide anche su quante volte possiamo andare a bere dal rubinetto della cucina è praticamente pari a zero, con nessuna presenza, per dire, nel Comitato tecnico scientifico della protezione civile ma una task force tutta rosa per decidere della famiglia, manco fossimo in un episodio della Casa nella prateria, tornerò quello di sempre, oggi volevo essere anche io uno che fa battute stupide al bar, non me ne vogliano Maria Chiara Fonda e la sua tesi né Romina Falconi e le sue sise.