La risposta, ahimè, è in realtà 43, temo.
La risposta è , ahimè, 43 e noi siamo tutti come Stepa, il protagonista del romanzo Dialettica di un Periodo di Transizione dal Nulla al Niente, titolo strepitoso per un romanzo strepitosamente pieno di idee, come un po’ tutte le opere del suo autore, Viktor Pelevin, Stepa, quello che si autoconvince di essere una incarnazione di Pikachu, quello che ha incentrato tutta la sua esistenza intorno al suo numero feticcio, il 34, numero scaturito dall’accostamento dei numeri 3 e 4, quelli che sommati insieme danno vita all’usuratissimo e banalissimo numero sacro 7, ma che, se accostati al contrario, formano appunto il numero 43, incarnazione del negativo, del male, della sfiga più nera, alla faccia di Douglas Adams e della risposta delle risposte cui ho provato a lasciare spazio ieri.
La risposta è 43 perché siamo arrivati al sessantatreesimo giorno di quarantena e ancora nulla di certo sembra lasciarsi intravedere all’orizzonte.
Certo, in settimana ci sono state le prime aperture, quasi tutte avvenute così, a cazzo di cane, senza un progetto unitario, tra gli allarmi lanciati dai virologi, da alcuni virologi tocca dire, perché i virologi che parlano dentro le nostre televisioni, le popstar di questa epoca oscura, sembrano solo essere capaci di dirci tutto e il contrario di tutto, lungi da me addentrarmi nella tesi populista che vuole gli scienziati dentro i laboratori invece che davanti alle telecamere, figuriamoci, ma vederli costantemente litigare, più per ritagliarsi un metro quadro di palcoscenico e di luce dei riflettori che per reali questioni scientifiche, per dire, lo scontro durissimo tra Burioni e Tarro che per giorni è andato in scena tra social e tv è talmente infimo da far sembrare quello tra Fedez e Marracash di qualche anno fa una sorta di rinverdita versione del classico dissing dei dissing, apparso sulle pregevoli e pregiate pagina di Micromega, si legga l’ultima frase con un filo di sarcasmo, il dissing dei dissing Diego Fusaro vs Valentina Nappi (sempre lei, che ovviamente quello scontro ha vinto per KO tecnico col suo “Squirtare su Diego Fusaro”), lo scontro durissimo tra Burioni e Tarro che per giorni è andato in scena tra social e tv è a confronto robetta di infimo livello, e anche sentirli sostenere, gli scienziati tutti, un giorno la fine delle ostilità tra noi e il Coronavirus e il giorno dopo il pericolo di una seconda ondata del Coronavirus stesso, più violenta della prima, diciamolo a voce alta, non fa che rendere questi giorni oscuri ancora più oscuri, come di chi ti prende a secchiate in faccia mentre sei sotto un temporale, o, peggio, come di chi ti tira il freno a mano mentre stai cercando di uscire a fatica dal parcheggio, in settimana ci sono è vero state le prime aperture, ma le notizie frammentarie e sbriciolate che ormai ci arrivano sono tutt’altro che precise, si parla di scaglionamenti, di scacchiera, di regioni che dovranno attendere un po’ di più, per altro le due regioni che in caso dovrebbero attendere un po’ di più sono proprio la Lombardia e le Marche, cioè la regione nella quale vivo e la regione nella quale potrei andare una volta che si allentassero i confini, quella dove sono nato e dove vivono i miei genitori e i miei fratelli, insomma, solo nubi e nebbia, niente sole all’orizzonte.
Mi fermo, tergiverso e poi riparto, prometto.
Tranquilli, ho citato Viktor Pelevin, scrittore russo che per qualche anno è stato lì lì per diventare una popstar anche da noi in Italia, pubblicata da quella Strade Blu che ha lanciato nell’empireo degli scrittori cool gente come Chuck Palahniul e Michael Moore, per citarne un paio, impresa non riuscita con Danielewski, altro autore citato già in queste pagine, e neanche me, che di quella collana sono stato primo autore di narrativa italiana, ormai ventuno anni fa, uno che ha scritto, oltre al romanzo su citato, almeno altri due, tre libri fondamentali, se si vuole provare a capire cosa sia stata la Russia del post-Glasnost e sopratutto la Russia di Putin, penso a Babylon, a Omon Ra, penso a Il mignolo di Buddha, libri che vanno a pescare da una parte nel laghetto pieno di pesci con cinque occhi, i pesci radioattivi tanto noti agli amanti dei Simpsons, ve lo ricordate il mondo quando i Simpsons facevano tendenza?, dell’avant-pop e del postmodernismo, dall’altro nei canoni stretti della fantascienza, lato cyberpunk, blandamente cyberpunk, sempre attenta a fornire a chi scrive e a chi scrive cercando strumenti capaci di decifrare in tempo reale la sequenza di numeri di Lost che ci ostiniamo a chiamare vita nel nuovo millennio, lui, Pelevin, scrittore russo che per qualche anno è stato lì lì per diventare una popstar anche da noi in Italia, salvo poi scomparire all’orizzonte, vai a capire perché, lui, Pelevin, che nella mia libreria trova posto, metaforico, non starò certo qui a spiegarvi come ho suddiviso i libri nella mia libreria, non potreste capirmi, vicino a un Neal Stephenson, quello di Snow crash ma anche della saga del cosiddetto Ciclo Barocco, Argento Vivo, Confusione e dal noi mai tradotto The System of the World, quando si dice editori che non capiscono un cazzo e non hanno rispetto dei lettori forti, quelli che a ben vedere pagano loro la pagnotta, per non dire del suo Mason & Dixon, Cryptonomicon, e giuro che Pynchon mi limito a citarlo en passant, se no non ne usciamo vivi, lui, Neal Stephenson considerato uno dei padri del post-cyberpunk, al pari di China Mieville, una scrittura intrisa di marxismo di ispirazione trotskista, quella di Mieville, in questo l’accostamento con Pelevin è sicuramente una mia forzatura, se è vero che Pelevin era l’enfant prodige della Generazione Pepsi della letteratura russa post- caduta del muro, China Mieville, quello di Perdido Street Station e della saga di Bas-Lag, saga che oltre a Perdido Street Station comprende La città delle navi e Il treno degli dei, più ascrivibile a un’area di urban fantasy, Mieville, comunque un bel terzetto di autori che in qualche modo si sono sporcati e si sporcano le mani coi generi, e soprattutto con genere fantascientifico, Pelevin, Stephenson e Mieville, come tanti altri autori, del resto, dallo Stephen Wright di M31 e Partenze notturne al Matt Ruff di Acqua, luce e gas, dal Lewis Shiner del poderoso Visioni rock, libro che molto ha a che fare anche con la musica, si ruota intorno ai grandi dischi del passato che non mai stati registrati, dai Doors ai Beatles passando per Hendrix e i Beach Boys, musica che è anche alla base di buona parte della produzione di John Shirley, autore decisamente meno valido da un punto di vista letterario, non certo per inventiva, da Lewis Shiner quindi, a Jeff Noon, quello de Le piumi di Vurt e di Alice nel paese dei numeri, dal Michael Moorcock di Madre Londra al Bradley Denton di Una voce da Ganimede, per non dire dei padri putativi di tutti loro, chi più chi meno, William S. Burroughs e James Ballard, autori nelle cui pagine, a cercare anche senza neanche troppa attenzione, si possono trovare scenari troppo troppo simili all’attualità, tranquilli, quindi, ho citato Viktor Pelevin, ma non intendo nascondermi ancora dentro il mondo delle parole scritte, soprattutto di parole scritte che siano sì perfetta fotografia metaforica dell’attualità e dell’oggi, ma che sia perfetta fotografia metaforica dell’attualità e dell’oggi che usa artifici di fiction anche estremi, si tratti di riscrivere il passato attraverso visioni future, come nello steampunk o che si tratti di ipotizzare il futuro prossimo a partire da intuizioni che non sono ancora divenute parte del nostro panorama ottico, questa la fantascienza migliore, che non guarda alle astronavi su Marte o al Teletrasporto, ma alla rete, ai social e al Grande Fratello che ci controlla attraverso i Big Data.
No, l’ho fatto troppo a lungo, credo che ora, azzardando magari qualche visione non troppo distante da quella che gli autori su citati azzardano nei loro romanzi, credo sia tornato il momento di guardare a quello che ci sta sfilando sotto gli occhi.
Nello specifico, è evidente, per sotto gli occhi intendo a sette piani dal mio balcone, da lì continuo a guardare il mondo, salvo la solita uscita eccezionale di tre ore circa a metà settimana, quando mio malgrado infilo mascherina e guanti monouso, non solo quelli, sia chiaro, ho parlato giorni fa di pudore e di corpi, è vero, ma non sono ai livelli di praticare il naturismo e non lo sarei in tutti i casi in città, anche se questa faccenda delle mascherine, va detto, me lo potrebbe anche consentire, e già questo fatto del poter andare impunemente in giro a volto coperto, anzi, di dover impunemente andare in giro a volto coperto, suona anomalo, ricorderete come fino a ieri gli stessi leghisti che ce lo hanno imposto per decreto, senza per altro alcun appiglio scientifico, siamo sempre lì, gli stessi leghisti che ce lo hanno imposto per decreto gridavano al pericolo terrorismo per chiunque osasse celare il proprio viso agli altri, con chiaro riferimento alle musulmane che optavano per coprirsi con burqa, e già che parliamo di burqa, così, tanto per buttare un po’ di carne al fuoco, la faccenda del burqa è faccenda che in un passato abbastanza remoto, parliamo di ormai quasi dieci anni fa, ho provato a infilare dentro le mie narrazioni applicate alla musica, nel momento in cui mi sono messo a parlare di femminile e ho ideato quello strambo progetto che poi ha avuto vita sotto il nome di Bikinirama, una band inesistente, le Bikinirama, di cui ho raccontato la biografia, io che ero il biografo delle star, prima, e poi ho provato a mettere insieme, poi, arrivando a produrre il loro album, tre voci scelte dopo anni di audizioni, album che è uscito per la Universal infarcito di collaborazioni importanti, da Enrico Ruggeri ai Tiromancino, passando per Sara Mazo degli Scisma, per Garbo, per Andrea Mirò, per Romina Falconi e tanti altri, album presentato con una serie di video alla maniera di This Is Spinal Tap, mockumentary che potrebbe ben accompagnarvi in questi giorni di clausura, in quel caso storia di una finta band heavy metal che riempiva stadi e incrociava artisti veri, nel caso delle Bikirama, tanti e tanti artisti, da Caparezza a Max Pezzali, da Dolcenera a Rancore, come tanti addetti ai lavori, da Mara Maionchi a Luca De Gennaro, lì a presentare un imminente lavoro come la Next Big Thing della discografia italiana, e non, un lavoro, quello fatto sulle Bikinirama, che non voglio star qui a raccontarvi, non oggi, sessantatreesimo giorno di clausura, sessantatreesima novella decameroniana di questo diario del contagio, ma che aveva in uno dei suoi passaggi, l’idea era sempre quella di giocare con la sessualizzazione, le Bikinirama venivano spacciate come la più importante popband femminile al mondo, l’idea di far apparire le Bikinirama in bikini, in nomen omen, ma coi visi coperti dal burqa, del resto anche nella cover dell’album non comparivano né i loro nomi né i loro volti, ma tre parti specifiche del corpo, un capezzolo, una chiappa e l’ombelico, burqa e bikini, vi dirà pur qualcosa tutto questo, e se considerate che il tutto è uscito per la Universal, la casa discografica di Myss Keta, beh, il piatto è servito, si sa, le idee sono volatili, basta solo essere i primi a fermarle, o nel caso specifico a leggerle nero su bianco e poi metterle in pratica, nello specifico, quindi, è evidente, per sotto gli occhi intendo a sette piani dal mio balcone, da lì continuo a guardare il mondo, salvo la solita uscita eccezionale di tre ore circa a metà settimana, quando mio malgrado infilo mascherina e guanti monouso, pronto a riempire il carrello di tutto quel che riesco a infilarci, una lunga lista della spesa che Marina mi gira su whatsapp, poi quando tornerò a casa oltre che lavarmi le mani con acqua calda e sapone dovrò disinfettarlo con lo spirito, lo smartphone, e che io riesco in genere a fare incastrando il tutto come un campione mondiale di Tetris, una megaspesa fatta in auto al supermercato munito di parcheggio del quartiere e poi una più piccola a piedi, in genere dopo aver fatto una coda più lunga di quella fatta al supermercato con parcheggio, a quello subito vicino casa, per comprare le cose che non ho trovato nella prima tranche di spesa, in genere beni davvero di prima necessità come uova, farina e altre facezie.
E il mondo visto sette piani sotto dal mio balcone è al momento un mondo zoppo, claudicante, forse agonizzante, un mondo che prova a rimettersi in piedi, o che questo tende a raccontarsi, ma che sta guardando a una sola sfumatura del tutto, come quelli che usano i PC solo per giocare o, come nel mio caso, solo per usare word per scrivere, lavorare.
Sì, oggi questo sembra il solo orizzonte possibile, di questo continuano a parlarci, senza possibilità di variazioni sul tema, quando torneremo a lavorare, come torneremo a lavorare, come sarà il nostro lavoro quando tutto questo sarà finalmente archiviato. Intendiamoci, non sono un poeta, so bene come il lavoro sia la parte preponderante della nostra vita, non siamo la Pepsi Generation di Pelevin, ma sicuramente il lavoro più che renderci liberi ci ha a lungo abituati a prendercelo in culo, qui sfocio dalle parti di Mieville, lo so, ma sentir solo parlare di produzione e di consumo, senza per nulla tenere in conto il resto è quantomeno agghiacciante, specie se a farlo sono coloro che, proprio per aver guardato un po’ troppo alla produzione e al consumo, hanno fatto errori risultati fatali a qualche migliaio di persone, non fatemi citare i famosi hashtag e i famosi post. Al punto che, e qui sì che tocca provare a essere cinicamente eversivi, il non sentir mai nominare neanche per sbaglio il benessere delle persone che per oltre due mesi sono state tappate in casa, il benessere, badate bene, non la salute, il non sentire cioè mai nominare gli umori, le speranze, le aspettative di chi, in fondo, si è trovato a fronteggiare da solo tutto questo, è una parte di questo discorso che più che agghiacciare fa veramente incazzare, fa salire letteralmente il sangue agli occhi, arma le mani di mazze da baseball, del resto non abbiamo mai sentito parlare di suicidi, né di violenze domestiche, neanche di quelle non domestiche, in questi mesi, penso al tipo che da giorni sta dando fuoco a auto e locali dalle parti di Sesto San Giovanni, manco fossimo in una scena de La notte del giudizio, vedi a non prendere in considerazione l’umore della gente?
Cioè, mi chiedo, e lo chiedo anche a voce alta, qui tra queste parole, ma come è possibile che nessuno stia provando a capire che spostare la questione solo su mere faccende di potere politico, questo in fondo stanno chiaramente facendo, anche in seno alla Lega, si veda lo scontro a distanza ravvicinata Fontana-Zaia, o parlare solo di ritorno al lavoro, senza considerare elementi basilari, come che riaprire aziende e fabbriche lasciando chiuse le scuole non permetterà in effetti a tutti di tornare al lavoro, tanto più che gli anziani, i famosi nonni-salvagente, in teoria, dovrebbero essere isolati e tenuti a distanza dai bambini, non parlo di chi, come mia suocera, coi bambini ci vive in isolamento, ma penso a chi ci si dovrebbe trovare a contatto diretto tutto i giorni dopo, coi piccoli che potrebbero essere i famosi vettori asintomatici del virus, bombe intelligenti capaci di finire il lavoro che il Coronavirus non è riuscito a finire in questa prima tremenda ondata?
Come si fa a non capire, anche, che parlare di lavoro e conseguentemente di consumo, in un momento in cui la gente non ha certezza del futuro, vatti a fidare che non ci sarà la famosa ondata di ritorno, è una faccenda che può trovare asilo solo nella testa di chi è miope se non addirittura cieca, e hai voglia a parlare di vacanze, di ristoranti e di bar, qui è già tanto se torneremo a comprarci vestiti e scarpe, abituati come ci siamo a stare in tuta e ciabatte in casa, figuriamoci se azzardiamo prenotazioni per villeggiature che in tutti i casi sarebbero sinistre, i box nelle spiagge, i box nei ristoranti, i corridoi nei bar, l’incertezza di sapere se si potrà uscire dalla regione, figuriamoci se andare o non andare al mare, senza che nessuno ci abbia spiegato se l’acqua può essere vettore del virus o meno?
Verrebbe davvero da infilare la famosa maschera di Guy Fawkes, quella di V per Vendetta di Alan Moore e alzare finalmente la voce, una voce in più, tanto, non potrebbe essere di alcun danno.
E siccome dalle finestre non esce più l’inno nazionale, anche i sovranisti si saranno rotti i coglioni di sentire quella musica neanche troppo bella, e anche i grandi classici della canzone italiana, da Toto Cutugno a Celentano, passando per Rino Gaetano, sembrano essere venuti a noia dei miei vicini, oggi sta a me provare a regalare la giusta colonna sonora al quartiere, qualcosa che riesca nel disperato tentativo non tanto di sollevare gli animi, sono pur sempre il cantore dell’Apocalisse del sistema musica, non vi aspetterete mica che io metta su Asereje delle Las Ketchup, e un giorno vi racconterò pure di quando, al Festival di Sanremo del 2004, Lola Munoz, la sorella coi capelli rossi, mi ha tampinato, io lì come accompagnatore di Piotta, in realtà infiltrato speciale che ha raccontato per la prima volta il Festival da dietro le quinte per Tutto Musica, era l’edizione di Simona Ventura e Tony Renis, le maglie della sicurezza decisamente allentate, loro lì, le Las Ketchup, per accompagnare Danny Losito, se non sbaglio, ma tornando a noi, scuserete se continuo a divagare, lo facevo anche in tempi di pace, figuriamoci ora che vivo praticamente solo di parole, tornando a noi, oggi sta a me rinvigorire gli animi anestetizzati del mio quartiere, sperando di qui parta una sorta di passaparola capace di richiamare la sveglia per tutta la nazione, e un compito del genere non può che essere affidato a chi si è nel tempo dimostrato capace di prendere la forma del tempo che abitava, giocando coi generi, ma sempre con il volume piuttosto alto, sferzanti ma al tempo stesso originali, energici ma non radicali, intenzionati a essere contemporanei, avete presente lo zeitgeist?, ma anche atemporali, parlo del duo di artisti spaziali, perché devono assolutamente essere piovuti dallo spazio due come loro, Cendric Bixler Zavala e Omar Rodriguez-Lòpez, in una veloce carrellata che passa dal meglio della produzione della loro prima band, gli At the Drive-In, la band post-hardcore che più di ogni altra, parere mio, ha incarnato l’eredità lasciata lì dai Black Flag, andando in qualche modo a competere coi loro contemporanei Fugazi, proprio in questi giorni Ian MacKey e soci festeggiano trent’anni di Repeater e noi con loro, i loro album pre-reunion, degli At the Drive-In, Acrbatic Tenement, In/Casino/ Out e Relationship of Command formano una delle trilogie più poderose della storia del rock alternativo americano, come del resto buona parte della produzione dei The Mars Volta, la band che i due di cui sopra sono andati a animare dopo lo scioglimento degli At the Drive-In, gli altri tre membri della band a formare gli Sparta, The Mars Volta che ha decisamente allargato il campo d’azione dei due genietti in questione, mettendo sul piatto anche black music, punk vero e proprio, funk, dub, noise e anche free-jazz, tutti ambiti che i due avrebbero poi fronteggiato in una serie incredibile di uscite soliste o con altre formazioni, in una produzione che, a occhio, è inferiore solo a quella di un John Zorn, sassofonista che non mi azzardo a diffondere sul mio balcone solo per evitare che le poche auto che ancora passano in strada, perché fortunatamente il continuare a dichiarare imminente la Fase 2 non ha ancora sortito questi effetti qui a Milano, forse per paura che in effetti il virus non sia finito e che quindi, pur di spingere verso detta Fase 2, in caso ci si ammali proprio ora si finisca per essere gettati in un campo e dati alle fiamme, magari per mano proprio del piromane di Sesto San Giovanni, vallo a sapere, non mi azzardo a diffondere sul mio balcone la musica di John Zorn, quindi, solo per evitare che le poche auto che ancora passano in strada si vadano a scontrare producendo uno degli ormai rarissimi incidenti stradali in epoca di Coronavirus.
Una musica, quella degli At the Drive-In e dei The Mars Volta, ma avrei potuto anche buttarmi sui Tool, per dire, o su System of a Down, finendo più sul territorio del metal e del prog, magari, con chiare sfumature etniche, che ben si adatta all’Apocalisse che, a questo punto, forse possiamo dire di aver sfiorato e che presto, spero molto presto, potremo anche pensare di esserci definitivamente lasciati alle spalle.
Una musica, quella degli At the Drive-In e dei Mars Volta, come dei Tool dei System of a Down, che potrebbe davvero essere la colonna sonora ideale non solo per una ripartenza energica, ma anche per una bella sommossa, perché se continueranno a trattarci solo come bestie da soma, carne da macello della produzione e del consumo, chissà, una sommossa potrebbe anche esserci, non dico una rivoluzione, intendiamoci, manca la teoria e anche l’organizzazione per quella, ma una o qualche bella sommosse magari sì.
Nella speranza che la risposta alla domanda che tutti ci stiamo ponendo non sia in effetti 43, o peggio, 432, come la frequenza aurea del pianeta Terra, Gea o come cazzo lo volete chiamare, roba che in confronto la storiella del virus fatto uscire apposta da un laboratorio della CIA per distruggere l’ascesa della Cina e per spingerci tutti a stare in casa succubi dei Poteri Forti è acqua fresca quando si ha sete.