Quando si parla del primo album dei Rolling Stones bisogna accettare l’idea che non sempre il primo disco di una band che ha scritto la storia sia un capolavoro. Non che The Rolling Stones fosse un brutto disco, anzi, ma il 16 aprile 1964 uscì un album che conteneva essenzialmente cover di canzoni del mondo blues e rock’n’roll che in quegli anni faceva sognare i giovani.
Un esordio di 12 tracce che includevano 3 inediti. The Rolling Stones era quell’esperimento necessario con il quale la band guidata dall’imberbe Mick Jagger si traduceva dal palco allo studio di registrazione dopo aver divorato la scena londinese e aver risposto con un certo stile a quel mondo di bravi ragazzi messo in piedi dai Beatles.
I Beatles e i Rolling Stones
Ancora oggi c’è chi sostiene che tra le due band vi fosse un’accesa rivalità, ma non tutti sanno che proprio John Lennon e Paul McCartney nel 1963 scrissero per gli Stones il brano I Wanna Be Your Man, una canzone che i due Fab Four ritennero perfetta per la formazione di Jagger in quanto i loro “avversari” erano soliti suonare brani dal repertorio di Bo Diddley.
La stima e l’amicizia reciproche rimasero, ma ciò che la stampa e la voce del popolo caldeggiava si giustificava con le differenti personalità che correvano tra i Beatles e i Rolling Stones. I primi erano carini, ordinati, puliti e sul palco mantenevano una certa postura e un certo rigore. I secondi erano più selvaggi, ma l’antitesi tra le due realtà stava anche nelle città d’origine: paradossalmente la Liverpool dei Beatles era una città di rozzi marinai dalla scatarrata facile, mentre gli Stones avevano frequentato il liceo e vivevano in famiglie posate.
Per questo nella stanza dei bottoni del mercato discografico sapevano di non aver bisogno di un nuovo fenomeno Beatles, perché il Regno Unito non era solo quello della Regina: quella stramaledetta isola aveva dato i natali anche ad Aldous Huxley, Alfred Hitchcock e tanti altri rivoluzionari. Tanti erano gli esempi da seguire, non esisteva solo Buckingham Palace.
Marketing al silicone
Tutti i giovinastri dell’epoca avevano imparato la lezione di Elvis, respiravano Chuck Berry e Buddy Holly e sbevazzavano litri di musica ogni giorno, ma i Rolling Stones avevano scelto la faccia più trasgressiva del rock. Loro, o chi per loro. Sì, perché quel manager testardo che era Andrew Loog Oldham aveva assistito a più concerti degli Stones sin dall’esordio al prestigioso Marquee di Londra, nel 1962, e per questo aveva offerto loro la possibilità di entrare in studio e farsi conoscere in tutto il mondo.
Oldham, in effetti, aveva intuito il potenziale degli Stones di Mick Jagger e in loro aveva colto quella necessità di offrire una risposta al mainstream dei Fab Four. Un rock britannico che guardava agli Stati Uniti, questa era la sua idea, ma quei 5 ragazzi avevano bisogno di una robusta campagna di promozione per poter fare breccia in quella che di lì a poco sarebbe diventato un muro di adorazione forgiato dalla Beatlesmania.
Il motivo stava tutto nella carenza di inediti, una lacuna che i Rolling Stones avrebbero colmato con Aftermath (1966) dopo numerosi tentativi di affermazione come interpreti e raramente come autori. Specialmente, la coppia Mick Jagger/Keith Richards da quel 1964 ebbe il tempo di farsi le ossa nell’universo del songwriting, una realtà che sicuramente li trovava ancora troppo immaturi e irrequieti.
Così The Rolling Stones, per dirla con poche parole, fu un disco che funzionava nella superficie: la copertina mostrava i 5 elementi in atteggiamento serioso, tutt’altro che frivolo e sorridente, con l’angelo maledetto Brian Jones in primo piano. Nel frattempo Oldham mentiva sull’età dei membri e sulla posizione nelle charts, presentandoli come numeri 1 in barba a tutto ciò che nel mondo dei Beatles stava già accadendo. Lo faceva quando c’era da trovare un ingaggio per gli Stones nei club, che ovviamente si lasciavano spaventare da tutto ciò che si allontanava dalla comfort zone dei Fab Four.
La copertina del primo album dei Rolling Stones non riportava nemmeno il nome della band, ma per il mercato statunitense Oldham giocò il jolly e fece un po’ come oggi fanno i produttori degli artisti emergenti: pompare tutto e sempre. Per questo The Rolling Stones uscì negli USA con il titolo: England’s Newest Hit Makers – The Rolling Stones. Boom.
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Il primo album dei Rolling Stones
In 12 tracce gli Stones disegnarono le loro influenze, presentandosi al mercato con una lista di cover che contenevano 3 inediti.
Il disco si apriva con un tributo al brano Route 66 di Bobby Troup e si chiudeva con Walking The Dog di Rufus Thomas, e in mezzo presentava un campionario blues e rock’n’roll in mezzo al quale spiccavano I Just Want To Make Love To You di Willie Dixon e l’immancabile omaggio a Chuck Berry con la cover di Carol.
Il disco funzionò come un demotape pronto per presentarsi nei locali, ma anche come palestra per il songwriting di Mick Jagger e Keith Richards. I Rolling Stones erano ancora inesperti, dicevamo, come autori di canzoni, e difatti i primi tre esempi si avvicinano solo di poco all’opera che la band firmò negli anni successivi, forte di capolavori come (I Can’t Get No) Satisfaction, Gimme Shelter, Simpathy For The Devil e tutto l’immenso che ancora oggi è una lezione di storia del rock.
Now I’ve Got A Witness e Little By Little (scritta in collaborazione con il produttore Phil Spector) erano firmate Nanker Phelge, lo pseudonimo la band usò dal 1962 al 1965 quando sfornava un brano scritto da tutti gli elementi. Nanker Phelge era soprattutto il nome di un amico del gruppo che per qualche anno abitò insieme a Mick Jagger, Keith Richards e Brian Jones.
Now I’Ve Got A Witness è uno strumentale tipicamente rock’n’roll, con quell’organo suonato da Ian Stewart che si muoveva su riff in scala di settima. Jagger, in questo brano, registrò l’armonica a bocca. Il risultato fu una sorta di jam session piena di groove, ben adatta al palco come interludio.
Little By Little presentò un interessante riff di basso eseguito da Bill Wyman, ma anche quella chitarra ritmica che poneva Jones e Richards in una sorta di dialogo sonoro. Nel pezzo, tuttavia, la parte strumentale dominava sul cantato ma senza annoiare: in appena 2 minuti di musica i Rolling Stones risultavano, sì, ancora embrionali ma abbastanza lucidi da offrire a chi ascoltava una prima versione della loro carriera.
Tell Me fu il primo pezzo firmato da Mick Jagger e Keith Richards. Con più pacatezza rispetto alla furia rock’n’roll degli altri brani, Tell Me è un brano acustico che fa pace col pop, perfettamente collocato nel mood degli anni ’60 del dopoguerra e degno di una boyband che in quei 4 minuti si insinuava nelle corde di quei 5 bad boys. Bad boys che poi tanto “bad” non erano, se non per il live act di Mick Jagger che già nei suoi 20 anni si agitava sul palco, forte come una bestia e libero come un dio (Baudelaire, e qui ti cito).
Oldham ci vide lungo
Non sempre, dicevamo, il disco d’esordio di una band che ha scritto la storia del rock può definirsi un capolavoro. Probabilmente non è stato così nemmeno per i Radiohead e tanto meno per i Beatles, del resto di lì a qualche anno giusto i Doors e i Led Zeppelin partirono con vere e proprie bombe discografiche.
Se un disco non è un capolavoro è un disco brutto? Affatto: il primo album dei Rolling Stones è un disco di monumentale importanza proprio perché contiene i primi tre esempi del songwriting degli Stones, un’arte che la band avrebbe perfezionato nelle opere successive. Non importa se The Rolling Stones non è stato menzionato da OM nella lista dei migliori album della band: si è semplicemente trattato di un approccio.
The Rolling Stones non era certo Let It Bleed (1969) ma ciò non ha importanza: in questo primo disco vinse il marketing dello stratega Oldham che tutto sommato non vendeva fumo. Il produttore aveva avuto una delle intuizioni più importanti del Novecento: quella band capitana da Mick Jagger meritava un posto d’onore nel mercato e nella cultura, e ci aveva visto lungo.
Il mondo accoglieva nuovi idoli anche quando gli idoli esistevano già: dopo le bombe e dopo gli orrori della guerra c’era bisogno di trasgressione, rock, adrenalina, blues, rock’n’roll e di ondate di benessere musicale, ma soprattutto di tanta libertà creativa, proprio quella che la casa disgrafica Decca aveva disposto per i Rolling Stones.
Le 12 tracce del primo album dei Rolling Stones fecero breccia, e la fecero eccome, in mezzo al mainstream, frantumando stereotipi come un’esplosione farebbe in un castello. Un castello, quello del Regno Unito degli anni ’60, abbastanza solido da dare i natali a musicisti tanto rivoluzionari quanto maledetti, da essere padre della migliore manifestazione del genio dell’uomo e da essere un riferimento per tutte le controculture schizzate fuori come proiettili dopo anni di morte e distruzione.
Il primo album dei Rolling Stones era la vittoria su ogni convenzione: il Regno Unito non era solo Buckingham Palace, e circa 15 anni dopo anche i Sex Pistols mostrarono il dito medio – o le dita a V – contro ogni schema preimpostato, proprio come fecero gli Stones con più eleganza.