Non fosse che mi ha sempre fatto abbastanza cagare Forrest Gump, e che all’epoca in cui è uscito, nel 1994, senza ombra di dubbio, ero tra quanti si schierarono dalla parte di Pulp Fiction e di Quentin Tarantino, una visione della vita un filo diversa da quella di Zemckis, oggi potrei tranquillamente dire di sentirmi un tantino stanco.
Un po’ perché in effetti mi sento un tantino stanco, ora abbiamo anche gli elicotteri che volano sopra le strade, ragazzi, vi sta sfuggendo qualcosa di mano, un po’ perché manca totalmente una ipotesi di rinascita, di ripartenza, cioè, noi siamo qui chiusi in casa da cinquantadue giorni, siamo bravi, ligi al dovere, tutto, ma nessuno sembra in grado di prospettarci un piano per le riaperture che non sia “appena la situazione migliore ripartiamo”, e grazie al cazzo, aggiungo io, questo lo saprei dire anche io, non ho certo bisogno che me lo dica il capo della protezione civile, uno che, in effetti, ha studiato per fare il commercialista e che si è sempre occupato di amministrazione, che cazzo ne potrà mai sapere di ripartenze o rinascite?
Sono un filino stanco, lo sono fisicamente, perché a stare sempre in casa, spesso seduti, si finisce per diventare fisicamente più pigri, come per le ciliege che una tira l’altra, a non muoversi viene da non muoversi, e cominciano a spuntare acciacchi che non c’erano, piccoli mal di schiena, all’anca, al ginocchio, acciacchi, appunto.
Sono un filino stanco, lo sono soprattutto mentalmente, perché il carico di cose da fare dentro casa, col passare dei giorni, invece che diminuire aumenta, per ragioni che sfuggono a ogni logica, per altro. Da una parte ci sono i compiti, tanto lo sappiamo tutti che le scuole non riapriranno, anche se questo col cazzo che ce lo stanno dicendo ufficialmente, si dice addirittura che non riapriranno neanche a settembre, direttamente nel 2021, ancora in casa con la didattica a distanza, conosco presidi che si stanno rifornendo di software capaci di reggere anche offline, proprio perché a settembre si prevede di essere ancora qui, a fare didattica in casa, poi sarebbe bello ci spiegassero anche chi li dovrebbe tenere i bambini a casa, mentre la nazione riparte e il lavoro ricomincia, ci sono comunque i compiti, sempre di più, perché, parlo per i gemelli che fanno le elementari, i due che fanno le superiori si gestiscono ovviamente da soli, seppure facendo la spola tra una app e l’altra, nessun professore che usi quella dei suoi colleghi, nessun istituto che ne abbia adottata una per tutte le classi, figuriamoci se per tutte le materie all’interno della medesima classe, per i gemelli, che seguo prevalentemente io, Marina ha gli orari da ufficio che aveva quando andava in effetti in ufficio, io sono il poeta, l’artista, quello che gli altri genitori si chiedono “chissà che cazzo fa?”, quello che si può poi ritrovare a lavorare la mattina presto, la sera tardi, la domenica, il sabato, quando c’è un buco di tempo, i gemelli, che seguo prevalentemente io, si sono inizialmente ritrovati un buon carico di compiti, che poi sono cresciuti, perché tutte le maestre hanno iniziato a mandarli, mentre inizialmente qualcuna latitava, poi sono arrivati i video, con le voci delle maestre, i vocali, con le voci delle maestre, le schede prese da altri libri dalle maestre, questo dopo che sono dovuto andare a scuola a prendere i libri rimasti ovviamente in classe, e quindi abbiamo dovuto comprare la stampante, ora ci sono anche le videolezioni, due a settimana, una più che altro di saluti con le maestre e il resto della classe, una di inglese, videolezioni che essendo gemelli, e non andando ovviamente in classe insieme diventano quattro, e ovviamente per le videolezioni serve un adulto che stia lì a gestire il device, nello specifico il mio iPad, perché il mio computer non regge la app che, proprio grazie a Marina che lo ha segnalato nella chat della classe, le scuole di Milano hanno adottato, fornito gratuitamente da Cisco e IBM, ovviamente il merito della faccenda se l’è presa un’altra mamma, perché Marina non lo aveva certo segnalato per farsi bella, e, suppongo, avesse saputo che questo sarebbe pesato sul nostro tempo, ridotto all’osso, magari neanche lo avrebbe segnalato, io non lo avrei segnalato, perché io, che seguo i gemelli praticamente, passo circa tre, quattro ore ogni mattina dietro a loro, e se serve un po’ anche di pomeriggio, lei, Marina, che organizza i compiti, a ognuno ha le sue mansioni, e lo fa la sera, quando ha finito di lavorare, dopo le sue classiche dieci ore piene, undici, a volte anche di più, fotografando i compiti e mandandoli alle maestre, leggendo le risposte delle maestre, suddividendo per giornate i compiti che le maestre mandano ogni tre giorni circa, insomma, un inferno, che poggia completamente sulle nostre spalle, perché io non ho studiato per fare l’insegnante, non sono neanche tra quelli che ambivano a farlo, l’insegnante, non mi è mai interessato, ma mi ritrovo in sostanza a farlo, a casa, in ciabatte, dopo che mi devo ogni giorno inventare qualcosa che possa essere il mio futuro prossimo, parlo del mio futuro prossimo lavorativo, ancora immobile tutto il settore di cui lavoro, l’editoria neanche compresa nei centotrenta milioni di euro destinati al comparto dello spettacolo e del turismo, pensate voi, ma volevano aprire le librerie, per vendere non si sa esattamente cosa, visto che gli editori non sfornano ovviamente libri nuovi, e anche quando erano aperte, le librerie, gente che ci entrava ce n’era poca, lo dice un lettore fortissimo, attenzione, non è una questione di avere il cazzo lungo, è nella media, credo, il mio cazzo, sto usando una terminologia tecnica, sono uno che legge tra i cento e i duecento libri l’anno, più duecento che cento, e in alcuni anni della mia vita ne leggevo anche sopra trecento, per non dire di quelli che ho scritto e scrivo, posso parlare di editoria con una certa coscienza di cosa sto andando a descrivere, le librerie sono vuote da tempo, non solo grazie a Amazon, che in effetti le sta ammazzando, ma soprattutto grazie al fatto che gli italiani non leggono, e non è certo per la faccenda degli smartphone e dei social di cui parlavo giorni fa, no, è proprio perché il popolo italiano è un popolo di capre, si vede, in effetti, da come sta reagendo a quello che non sta succedendo tutto intorno a noi.
Mi spiego, è di questo che volevo parlarvi oggi, in realtà, siamo chiusi in casa da cinquantadue giorni, lo ripeto, perché questo è il cinquantaduesimo capitolo di questo diario del contagio, e perché non sono ancora in quella fase in cui non conto i giorni, continuo a contarli e continuo tutte le sere a fare le mie foto della strada deserta, ve l’ho raccontato giorni fa, e continuo a pensare che forse prima o poi ne usciremo, non mi sono ancora rassegnato, mettiamola così, nonostante l’elicottero che continua a volare davanti al mio balcone, e nonostante che siamo chiusi in casa da cinquantadue giorni, e è evidente che non si sta facendo abbastanza a riguardo, questo ci dicono i numeri sciorinati tutti i giorni, questo ci dicono gli elicotteri, le ambulanze, i carri da morto qui sotto, questo ci dice, soprattutto, il fatto che si proclama questo e il contrario di questo con una frequenza imbarazzante, uso una parola usata a sproposito dal governatore Fontana, che di cose imbarazzanti ne ha dette troppe e di cose criminose fatte assai di più.
Non esiste un vero protocollo sanitario, è evidente, parlo della regione nella quale vivo, la Lombardia, che da sola ha una percentuale altissima dei casi e dei morti nazionali, e anche mondiali, a questo punto, e parlo più in generale dell’Italia, che gli sta andando stancamente dietro, non abbiamo una strategia economica, i soldi promessi che non sono arrivati, i soldi che stanno promettendo che non arriveranno, se non direttamente dalle banche, e quindi debiti fatti per pagare debiti, i soldi che neanche sono stati promessi, penso ai tanti lasciati fuori dai loro ragionamenti elementari, l’editoria appunto, che ovviamente non possono arrivare.
Ci facciamo, invece, abbindolare dai venditori di fumo, e non sto parlando dei pusher, ma di chi si trova oggi a dover guidare le danze, e che si sta dimostrando un perfetto uomo immagine, se siete tra quanti si fidano di chi si fa le sopracciglia a coda di rondine e usa parole come “tenebre” e “resurrezione”, ma che nei fatti si sta confermando uno capitato lì per caso e quindi capace di muoversi solo a caso, appunto.
Certo, con qualche variazione sul tema, chi si occupa di comunicazione sa che tocca sempre trovare il modo di distrarre chi ascolta o legge, per poter nel mentre continuare a non dire nulla, o, peggio, visto che non stiamo parlando di scrittori, come me, o di comunicatori, ma di governati e premier, pronti a nascondere la totale assenza di un progetto e di una strategia, e allora via di citazioni religiose, la Pasqua e la resurrezione citate un paio di discorsi alla nazione fa, o via di polemiche pretestuose contro Salvini e la Meloni, all’ultimo discorso alla nazione, e lungi da me sottolineare come il fatto di aver attaccato Conte per questo sui social, per un utilizzo personalistico del suo ruolo di premier durante un discorso alla nazione mi sia costato accuse di leghismo o fascismo, fatto che, se possibile, mi ha ferito di più del dover stare cinquantadue giorni in casa, “Fascista a me? Fascista a me?” da pensare urlato con la voce roca e rotta dalla rabbia di Mario Brega, per capirsi.
Ecco, la faccenda del distrarre mentre si vende fumo.
Parliamo di questo, proviamoci, almeno.
Io sono nato nel 1969 in Ancona. Quando sono nato la mia famiglia abitava in una casa in affitto in via Matas, in pieno centro storico. Una via strana, perché molto chiusa, ombreggiata, che conduce esattamente in quella Piazza San Francesco alle Scale nella quale poi mi sarei sposato con Marina, ma questo è un dettaglio folkloristico, giusto per intenerirvi un po’ il cuore in mezzo a un discorso ostico. Sono nato mentre la mia famiglia, mio padre Learco, mia madre Angela, mio fratello maggiore Marco, otto anni appena compiuti all’epoca, mia sorella Caterina, sei, vivevano in via Matas, sopravvissuto, io, al mio gemello Francesco, già questa storia l’ho raccontata più volte, evito di rifarlo ora. Nella stessa casa, nota di colore, nella quale avrebbe poi avuto la sede la prima radio in cui ho lavorato, nel volgere degli anni Ottanta, Radio Marche Ancona, e nel dire lavorato intendo lavorato gratis, ovviamente, ma il fatto che io sia nato dove poi ha avuto la sede la prima azienda con la quale abbia avuto a che fare è direi abbastanza significativo, evocativo, simbolico.
Mi fermo.
Nonostante io sia quasi arrivato al momento in cui sto per chiudere questa pagina di diario, con l’ultima graffiata finale, pagina di diario che giorno dopo giorno si è allungata, invece che accorciata, siamo partiti, lo dico per gli amanti dei numeri, da quindicimila battute, che è un po’ un mio standard, e siamo arrivati ormai sempre a ventidue, ventitré, a volte anche ventiseimila battute, una abnormità, a pensarci bene, un po’ perché, per motivi che mi sfuggono, mi ritrovo sempre a avere qualcosa da dire, o quantomeno a girarci intorno con le parole, che è il mio modo per dire le cose, la forma è sostanza, viva il massimalismo, viva John Barth, un po’ perché questo appuntamento di scrivere e di scrivere tanto, nonostante quello che vi ho detto rispetto al tempo che diventa sempre di meno, i compiti, etc etc, è anche un modo per me importante di tenermi lucido, e so che non sembro lucidissimo mentre scrivo, ma vi garantisco che sono lucidissimo, provateci voi a infilare una dietro l’altra così tante relative, frasi concentriche, incastrate, tessere di domino che, se ne togli anche solo una, crolla tutto a terra, impossibile rimettere i pezzi insieme.
Nonostante io sia quasi arrivato al momento in cui sto per chiudere questa pagina di diario, mi devo fermare.
E mi devo fermare perché questo prevede un rituale non scritto, una usanza che affonda le radici nel passato, che attinge queste medesime radici e usanze in altri mondi, nello specifico quello dello sport, e non vedo perché, solo per il fatto di essere qui nel bel mezzo di una pandemia, chiuso in casa da cinquantadue giorni, una sola uscita ogni sette giorni, stavolta addirittura ogni otto giorni, proprio oggi, perché ieri era il primo giorno di riapertura dopo la chiusura di Pasqua e Pasquetta e ho voluto evitare le code che sicuramente sarebbero state più lunghe, lunghissime, insopportabili con la mascherina ma anche col primo caldo vero, senza più giacca a vento in qualche modo a proteggerci, come il protagonista de La Cosa, così mi sono sentito tutte queste prime volte, il film di John Carpenter con Kurt Russell, lo stesso Kurt Russell del già citato 1997 Fuga da New York, lì Jena Pliskeen, qui R.J. MacReady, un mondo in balia della natura fuori e un mostro inspiegabile capace di farci fuori tutti a muoversi intorno a noi, al chiuso, ora senza più quella copertura a mo di corazza, solo per il fatto di essere qui nel bel mezzo di una pandemia, chiuso in casa da cinquantadue giorni, una sola uscita ogni sette giorni, stavolta addirittura ogni otto giorni, non può essere sufficiente per far venire meno qualcosa che, a dirla tutta, è parte integrante proprio del mio intendere l’essere scrittore, qualcosa di fisico, plastico, massimalista, ancora, postmoderno, sicuramente, avant-pop, torno a usare questa parola vintage, io che, ora lo posso dire tranquillamente, ché come me anche voi siete stanchini, io ho iniziato a scrivere avendo ovviamente Nanni Balestrini lì come faro, ma provando a fonderlo con Mark Leyner, più che con Sanguineti o altri del Gruppo 63, convinto che la mia cifra, la mia strada, insomma, la mia lingua, la forma è sostanza, ripeto, fosse nella commistione tra poesia, che io non sapevo e non so praticare, e postomoderno, Andy Warhol che prova a rifare Caravaggio, l’anticapitalismo di Potere Operaio che impatta con l’iperconsumismo di Mio cugino, il mio gastroenterologo dando vita a un mostro, io appunto, e Mark Leyner, autore che a un certo punto è scomparso non solo dalle mie letture, credo di non aver più preso un suo libro in mano, se non durante il trasloco, per metterlo in uno scatolone e poi rimetterlo in libreria, da almeno una ventina d’anni, sostituito, mentre dovevo parlare di postmodernismo, dal già citato e sovracitato David Foster Wallace e da William Vollmann, in effetti più affini alla mia cifra successiva, seppur Mark Leyner sia sempre rimasto lì, e lo dico, questa cosa di David Foster Wallace e di William Vollmann, sapendo di far incazzare un sacco di gente, perché sono due autori altissimi, inarrivabili, e quindi verrò tacciato di arroganza e di arroganza malriposta, ma anche perché so che almeno David Foster Wallace, dopo morto, ha subito un trattamento di sminuimento senza precedenti, prima tutti a esaltarlo e a indicare Infinite Jest lì sul tavolino, e io, sucate, Infinite Jest me lo sono letto in americano ben prima che venisse tradotto, credo di averlo già detto, e se ho iniziato a lavorare alla collana Strade Blu, quella che poi avrei inaugurato come autore di narrativa col mio secondo romanzo “aironfric”, è anche perché, parlando con colui che quella collana se l’è inventata, Edoardo Brugnatelli, e che quella collana per anni e anni ha diretto, avevo appunto detto che fosse per me avrei tradotto tre libri, Infinite Jest di David Foster Wallace, Pimp di Iceberg Slim e I Racconti dell’Arcobaleno di William T. Vollmann, nessuno dei tre poi finiti in collana, per ragioni che esulavano la volontà dello stesso Brugnatelli, ma comunque parte di un mondo immaginario comune, tra me e lui, come anche Chuck Palahniuk, che poi avrei tradotto o Casa di Foglie di Mark Danielewski, leggetevi Infinite Jest che da anni tenete lì sul comodino, stavolta non avete la scusa dell’assenza di tempo libero, leggetevi Casa di Foglie di Danielewski, invece di reclamare l’apertura delle librerie, sucate ancora, torno alla linea temporale principale, come in un episodio particolarmente complesso di Doctor Who, solo per il fatto di essere qui nel bel mezzo di una pandemia, chiuso in casa da cinquantadue giorni, una sola uscita ogni sette giorni, stavolta addirittura ogni otto giorni, non può essere sufficiente per far venire meno qualcosa che, a dirla tutta, è parte integrante proprio del mio intendere l’essere scrittore, qualcosa di fisico, plastico, massimalista, ancora, postmoderno, sicuramente, avant-pop, cioè l’essere in fin dei conti uno che si è infilato a forza dentro la sua scrittura, Mark Leyner docet, appunto, o che ha infilato a forza dentro la sua scrittura un se stesso di carta, carta metaforica, ovviamente, questo diario è partito come un diario online, e che quindi è a suo modo un personaggio tridimensionale con caratteristiche di un certo spessore, un ego ipertrofico, una tendenza a dipingersi come una rockstar, una rockstar che si muove nel mondo delle rockstar identificate comunemente come tali, e non stiamo a pignoleggiare e distinguere tra rockstar e popstar, frequento entrambe le categorie, e che in effetti nulla ha da invidiare a queste, a molte ha anzi molto da insegnare, una rockstar che usa la parola laddove altre usano le note, ma che usa le parole anche per disegnare una estetica, non bastasse quella esibita nei social o nelle apparizioni tv, una estetica postmoderna, ancora oggi, che per altro a differenza di molte altre estetiche fatte in genere di eleganti tagli di capelli e di barbe ben fatte, tiene il tempo con la clausura, la chiusura dei barbieri e certa sciatteria casalinga come tutto ciò fosse previsto da sempre.
Non mi voglio far fregare dal Coronavirus, detto in poche parole, e sapete ormai quanto mi sia difficile dire qualcosa in poche parole, di più, quanto mi faccia letteralmente cagare dire qualcosa in poche parole.
Il fatto è che proprio a breve, portate la solita pazienza che ci stiamo arrivando, questo mio diario del contagio, della quarantena, dell’autoisolamento, chiamatelo come vi pare, mica gli ho dato un titolo, a parte il paragonarlo inizialmente, vedete che sono un cazzone?, al Decameron di Boccaccio, non perché pensassi alle cento novelle, qui oggi siamo a quota cinquantadue, e so bene che queste non sono novelle in senso stretto, ma perché speravo si trattasse di un impegno di soli dieci giorni, come autoaugurio di uscire dopo soli dieci giorni dalla clausura, ripeto oggi siamo a quota cinquantadue e la fine sembra sempre più lontana, e perché credevo che tanto bastasse a contenere il contagio, il fatto è che proprio a breve questo mio diario del contagio toccherà quota un milione di battute, intendendo con battuta il toccare i tasti del computer, si tratti per digitare una lettera che comporrà una parola, un segno di interpunzione, nel mio caso punto, punto esclamativo, punto interrogativo e virgola, mi fanno cagare i punti e virgola, o uno spazio tra le parole, un milione di battute che, stando a quanto si intende solitamente in editoria libraria, sarebbe qualcosa come un libro di circa cinquecento pagine, mettendoci i capitoli e tutto il resto, se invece ci limitiamo a quello degli articoli online, ma tutti sappiamo che il mio diario del contagio è molto più vicino a una idea di libro che quella di una raccolta di articoli, sarebbe intorno a quattrocento articoli, parola più parola meno, cinquecento pagine di libro o quattrocento articoli scritti in cinquantadue giorni, e lo dico non tanto per sbattervi in faccia un cazzo di una certa dimensione, non siamo dalle parti del bukkake, state sereni, e il Coronavirus non passa comunque dallo sperma, sembra, quanto più perché, credo in giorni di clausura, autoisolamento o quarantena, insomma in questi giorni qui, lavorare sulla propria autostima abbia un certo senso, figuriamoci sull’autostima di chi, come me, in genere mette la propria autostima ai primi posti della propria poetica, la parola “io”, credo, tra le più usate in questo milione di battute che ormai stiamo davvero per toccare.
E se prima dicevo che occorreva fermarsi per dar seguito a una consuetudine, una tradizione che affonda le proprie radici nello sport, è perché, in effetti, nel mondo dello sport, penso al calcio, ma anche al basket, che poi sono i due soli sport che ho praticato con un minimo di avvedutezza, perché quando ho giocato a baseball l’ho fatto per pigrizia, più che altro, nel mondo del calcio come in quello del basket, ma più in generale in quello dello sport tutto, credo, quando si sa che qualcuno sta per toccare un record personale, le cinquecento presenze in serie A, per dire, o ancora di più, i cinquecento goal in serie A o i non so quantimila punti in NBA, si tende a sottolineare la cosa in un qualche modo eclatante, facendone spettacolo, interrompendo, per qualche secondo, la competizione per permettere a chi quel record ha toccato di festeggiare coi compagni, di prendersi gli applausi del pubblico, di andare sotto la curva esibendo magari una maglia celebrativa, fare uno di quei gesti idioti, come l’aeroplanino per quel traditore di Montella, la smitragliata per Batistuta, io quando giocavo a calcio, essendo più vecchio di tutti loro, o meglio, essendo coetaneo di Batistuta e più vecchio di Montella, ma avendo giocato a calcio in contemporanea con Batistuta, con risultati un filo diversi, vedi avere autostima?, e avendo più in generale giocato a calcio prima che usasse esultare esibendo magliette alla “vi ho purgato ancora” o facendo trenini in campo o esultanze bizzarre, quando segnavo, e capitava spesso, perché ero una punta, mi limitavo a immobilizzarmi davanti alla porta con l’indice della mano destra alzato al cielo, vedi avere autostima?.
Ecco, sto per toccare quota un milione di battute di questo diario del contagio, non il milione di parole esibito nel titolo, mentivo, o almeno non dicevo la verità, perché se avessi detto un milione di caratteri o un milione di battute non si sarebbe capito, scusatemi se vi ho trattato come minus habens, sto per toccare un milione di battute e ho deciso di festeggiare con voi, come se ci fosse qualcosa da festeggiare nel fatto che sto qui a scrivere un diario del contagio, dell’autoisolamento, della clausura, della quarantena da cinquantadue giorni, e come se ci fosse qualcosa da festeggiare nel fatto che probabilmente supererò le cento novelle del Decameron, ma io da solo, mica siamo in dieci a scriverle, e che supererò i due milioni di battute o caratteri, sempre che non mi venga tutto questo a noia prima.
Sto per segnare il milionesimo goal, e voglio correre sotto la curva gridando “Marcel Proust suca forte”, alzando il dito al cielo, pronto poi a tornare a parlare d’altro. Ho fatto ora GOAL.
Ho superato il milione di battute, centosessantatremilasettecentosessantasei parole, sucasse Proust ma anche David Foster Wallace e Danielewski.
Vi ho purgato ancora, torno al discorso lasciato in sospeso prima.
Nel palazzo in cui la mia famiglia viveva quando sono nato, nel 1969, in via Matas, nel centro storico di Ancona, c’era una signora piuttosto brusca nei modi, che nella mia testa ha la faccia di Tina Anselmi, ben sapendo che è solo una mia ricostruzione posticcia, ero troppo piccolo per ricordarla, la signora Gigli. Di lavoro, la signora Gigli, faceva le punture. Sì, perché all’epoca spesso gli antibiotici venivano prescritti per puntura, non come oggi, ho quattro figli e solo due volte hanno fatto cure antibiotiche attraverso le punture. Siccome fare le punture non è roba semplice, immagino, in casa mia, poi, le ha sempre fatte mio padre, in quella di Marina sua madre, che poi me le ha fatte quando ho avuto la polmonite, lei con noi a Milano, mio padre in Ancona, siccome fare le punture non è roba semplice, chi doveva fare punture per una qualche cura chiamava lei, la signora Gigli, che come il Mr Wolf di Pulp Fiction veniva e risolveva problemi, nello specifico faceva le punture.
Poi credo, ma vado a occhio, non ho voglia di chiamare i miei per chiedere, che facesse anche altro nella vita, tipo l’infermiera, ma nei fatti lei era la tipa che faceva le punture.
È noto questo aneddoto di casa Monina, parlo di casa dei miei, per cui lei, in giro per la città, dicesse “mi sembra di conoscere quel culo”, e la parola culo credo sia stata la sola parolaccia mai ascoltata in casa mia, a eccezione della parola stronzo, detto da mia madre con la zera dura, tipo come i lombardi dicono marzo o Monza.
Io quel culo lo conosco, come a vantarsi dei tanti clienti avuti. Roba che neanche Rocco Siffredi, per dire.
Lei, la signora Gigli, era molto brusca, Tina Anselmi, appunto, così almeno me la ricordo, forse perché la associo come un cane di Pavlov alle punture, ma quando faceva le punture ti ubriacava di parole, di colpo la bruschezza messa da parte, così che tu ti distraevi, ascoltandola, e manco ti accorgevi che ti aveva fatto la puntura. Questo ben prima che inventassero le Pic Indolor, quella della odiosa pubblicità “Già fatto?”, le siringhe che in teoria non avresti dovuto sentire per aghi particolarmente sottili, nel caso della signora era tutta bravura, competenza, esperienza.
Parlare per distrarre mentre si infila un ago nel culo, una ago di quelli che la signora avrebbe poi sterilizzato facendoli bollire nell’acqua calda, belli spessi, dolorosi.
Parlare per distrarre, aghi nel culo.
Ecco, torniamo a oggi, cinquantadue giorni di clausura, quarantena, o come la volete chiamare, la mia sensazione è che qualcuno ci stia ubriacando di chiacchiere, mentre ci infila un ago nel culo. E l’ago non è un ago, non fatemi essere volgare.
Chiacchiere e chiacchiere, distrazione di massa.
Le punture della signora almeno ci curavano, qui no, ci sono solo le chiacchiere e le chiacchiere e le chiacchiere.
Andrà tutto bene, ci ripetiamo da cinquantadue giorni, bastasse crederci.