Cast Away, la solitudine di Tom Hanks, il James Stewart degli anni Duemila

Alle 21 su Iris c’è il film diretto da Robert Zemeckis. Che conclude un decennio in cui, da Philadelphia a Forrest Gump a Salvate Il Soldato Ryan, Hanks ha stabilito il suo status di grande attore americano. Che per la versatilità dello stile viene da paragonare al leggendario Stewart

Cast Away

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Cast Away, nel 2000, conclude un decennio straordinario per Tom Hanks, che attraverso una serie di interpretazioni di notevole livello ha stabilito il suo status da James Stewart per il nuovo millennio. Un attore cioè da un lato in grado di passare dal dramma alla commedia romantica al melodramma restando assolutamente credibile. Dall’altro capace, tramite il filo rosso che collega quei ruoli, di offrire un ritratto dell’uomo americano a tutto tondo e per nulla semplicistico. Nel quale sono presenti quelle che da sempre Hollywood ha scolpito quali caratteristiche essenziali del maschio a stelle e strisce, l’ottimismo incrollabile, l’onestà, l’abnegazione, ma poste in dialogo con tratti di segno differente, malinconie, fragilità, dubbi. Ne emerge una figura umanissima, allo stesso tempo forte e compassionevole, pragmatica ma non assertiva, aiutata da uno stile di recitazione che non è mai esibito, senza una nota falsa, che non punta mai sul pezzo di bravura.

Dopo essersi affermato negli anni Ottanta come attor giovane da commedia più o meno demenziale, i Novanta segnano per Hanks il passaggio ai ruoli adulti, via via più complessi: l’uomo qualunque umiliato da una società ipercompetitiva che accoglie la morte imminente come l’occasione per diventare sé stesso (il delizioso Joe Contro Il Vulcano), il maschio moderno ideale per la donna moderna (il dittico di Nora Ephron Insonnia D’Amore e C’È Posta Per Te, non a caso remake di un film con Jimmy Stewart), l’eroe americano però non tutto d’un pezzo (Apollo 13, Salvate il Soldato Ryan). Fino poi alle interpretazioni più originali: l’omosessuale affetto dall’Aids del dolente Philadelphia; l’enigmatico Forrest Gump, un diverso che non è un escluso, lente deformata attraverso cui rileggere la storia americana recente (Hanks restituisce con pochi accorgimenti, la rigidità della postura, la voce cantilenante, l’eccentricità e la dolcezza proprie del personaggio); la guardia carceraria de Il Miglio Verde, in cui tiene ancorata al realismo una storia che, altrimenti, si sbilancerebbe verso un fantastico poco credibile (una capacità dimostrata sempre da Stewart in Harvey).

Un giovane Tom Hanks insieme a James Stewart

Sono gli anni dei due Oscar consecutivi, meritatissimi, per Philadelphia e Forrest Gump e di altre due nomination, per Salvate Il Soldato Ryan e Cast Away. Tom Hanks torna qui a lavorare con Robert Zemeckis, che lo aveva diretto già in Forrest Gump e, per una volta, si misura con una impresa estrema di modificazione corporea.

Cast Away racconta la storia di Chuck Noland, dirigente d’una compagnia di spedizioni, che finisce su un’isoletta nel Pacifico per un disastro aereo, sopravvivendo in totale solitudine per cinque anni. È ovvio che il personaggio subisca una trasformazione fisica: per cui Hanks, dopo essere aumentato di diversi chili per entrare nel ruolo dell’americano grassoccio e sedentario, dimagrì di quasi 25 chili per trasformarsi in un sopravvissuto. Per questo il film ebbe una lunga lavorazione, tra il 1998 e il 2000: all’inizio fu girata la parte riguardante la vita prima del naufragio e poi, dopo molti mesi, attendendo il dimagramento dell’attore, la fase sull’isola e il ritorno a casa.

Cast Away è un film diviso in due, da un lato la vita civile, dall’altro il naufragio. La cornice è tutto sommato dolciastra e prevedibile: Chuck è un professionista indaffaratissimo, sempre in giro per il mondo – Hanks tratteggia un manager votato all’efficienza che non diventa mai un crudele efficientista –, però legatissimo alla fidanzata Kelly (Helen Hunt) che promette di sposare dopo l’ennesimo viaggio imprevisto in Malaysia. Quando torna dopo i cinque anni, la sua prima preoccupazione è rincontrare Kelly, per capire se la storia possa ricominciare e riprendere con lei la vita da dove si era fermata. Ovviamente non sarà possibile: ma per Chuck si apriranno altre opportunità, nel segno di un’esistenza diversa, ma ancora possibile. La struttura circolare serve ad attenuare il senso di spaesamento narrativo provocato dal lungo intermezzo del naufragio. È l’espediente per incartare in una confezione rassicurante un racconto che, altrimenti, risulterebbe angosciante.

E qui veniamo alla parte centrale di Cast Away, la frattura che costituisce il film nel film, la sua parte più bella e originale. È la storia di un individuo posto di fronte all’estremo, alla nudità della vita nel contesto di una natura indifferente. Il che spinge a una serie di interrogativi sul senso della vita e, anche, se valga o meno la pena sopravvivere. Ha ragione il critico Roger Ebert, che nella sua recensione scriveva: “Trovo affascinante quando in un film si vede semplicemente qualcuno che fa qualcosa. Il lavoro concreto per me è più interessante dell’intreccio”.

Cast Away funziona esattamente così: l’intreccio, tra il prima e il dopo, è positivo e rasserenante. La parte sull’isola, invece, è magnifica, straniante. C’è un uomo che fa cose, cerca l’acqua, accende un fuoco, ricava utensili dalle poche cose che ha intorno a sé – il naufragio dell’aereo gli restituisce sulla riva alcuni pacchi che contengono oggetti utilissimi, come dei pattini per il ghiaccio che trasforma in asce. Tra questi c’è anche un pallone da pallavolo, che lui ribattezza Wilson, sul quale disegna un volto col suo sangue e con cui comincia a parlare. È un surrogato di umanità, un feticcio, forse persino una divinità. Che, in quello stato di solitudine alienante, costituisce l’unico elemento che gli ricordi cosa significhi essere umani, da difendere al costo della vita.

Tom Hanks non fa nulla che non sia strettamente necessario: è persuasivo col linguaggio del corpo discreto e non enfatico, comunica una simpatia innata – la reazione un po’ disperata un po’ da bambino indispettito quando assaggia per la prima volta un pesce crudo – e, silenziosamente, lambisce la disperazione più cupa. Solo lui è capace di rendere commovente e credibile il momento in cui piange disperato per la perdita di un pallone da pallavolo. Nelle mani di chiunque altro sarebbe diventato qualcosa di ridicolo e grottesco. Come ridicola e grottesca è l’idea di un uomo che parla con un coniglio invisibile alto due metri. Cose che solo James Stewart ai suoi tempi, e Tom Hanks oggi, possono permettersi di fare.