L’Aura è uno dei talenti più cristallini che abbia mai attraversato la nostra discografia asfittica

Proprio in queste notti in cui non riesco a sognare, ho sognato un concerto con la cantautrice bresciana

Phot By Cosimo Buccolieri


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Alla fine stanotte ho sognato.

Non succede praticamente mai, ve l’ho raccontato. Ma stanotte ho sognato. Un sogno ovviamente strano, vado a naso, non sogno mai, non ho competenze a riguardo, ma il mio sogno era strano perché sono giorni strani, anomali, in cui si vive in cattività, quarantadue giorni di autoreclusione, e di conseguenza di dorme male, come si vive male.

Comunque alla fine stanotte ho sognato.

Uno, almeno per me è così, si immagina che i sogni debbano avere un che di poetico, di onirico, appunto.

Il mio sogno era molto simile alla realtà che stiamo vivendo, solo proiettato in avanti di qualche mese.

O meglio, proiettato in avanti di qualche mese se, come i quarantadue giorni di isolamento autoimposto stanno cominciando a farmi temere, lo scenario che troveremo tra qualche mese sarà distopico, ancora più catastrofico del presente. Sono ottimista di natura, credo, e anche per altrettanto autoimponimento, padre di quattro figli, ma comincio a vacillare, o almeno vacillo a tratti, quando la stanchezza dello stare sempre chiuso in casa, sempre costantemente sotto pressione, sempre con le stesse persone, che per quanto i miei cari sono pur sempre le sole persone che vedo costantemente da quarantadue giorni, mi induce a tratti di debolezza.

Sono anche vittima, ma credo che lo siamo un po’ tutti, non diciamoci sciocchezze, almeno tra noi, di continui sbalzi d’umore, repentini passaggi da euforia del tutto immotivata a malinconia cosmica, un po’ più motivata.

Ecco, non sono pratico di brasiliano, né particolarmente ferrato in bossanova, lo confesso, pur adorandola, quando mi capita di ascoltarla, ma sento a tratti di provare esattamente il contrario di quanto in genere si indica col termine saudade, la malinconia per casa propria, sintetizzo come sempre con l’accetta. Io provo a tratti l’antisaudade, per capirsi, e confesso che mai come in questi giorni l’aver scelto Milano, la Milano porta d’Europa, la città evoluta, internazionale, piena di input, mi stia sembrando una grande scelta di merda.

Ma non è di Milano che voglio parlarvi oggi, città ferita, agonizzante, che quindi semmai merita le mie coccole, non certo i miei ceffoni.

Quelli, spero, li assesteremo a emergenza rientrata, spero prestissimo, a chi di questa situazione ha qualche colpa, parlo di improvvide azioni di contenimento, di malagestione, quelle robe lì.

No, voglio parlarvi dello strano sogno che ho fatto stanotte, per me davvero qualcosa di insolito, perché come vi ho detto giorni, forse settimane fa, sempre in questo diario decameroniano già giunto alla quarantaduesima puntata, io non sogno mai, perché non so sognare.

Stanotte ho sognato.

E ho sognato la mia terra natia, le Marche, Ancona.

Ho un rapporto irrisolto con la mia terra natia, credo sia noto, almeno a chi mi legge da tempo. La cito spesso, a volte con rimpianto, quel rimpianto nostalgico verso qualcosa che non può tornare, il mio aver continuato a vivere lì, a volte, più spesso, col risentimento di chi se ne è dovuto andare, in esilio, lasciando i suoi cari, i miei genitori, i miei fratelli, i miei amici, per approdare in una città, Milano, sprovvista di loro, i miei genitori, i miei fratelli, i miei amici, anche se qui di amici ne sono arrivati altri, ma anche senza il mare, quei paesaggi marchigiani coi quali ero vissuto, anche quell’approccio anarcocattolico con cui sono cresciuto.

Parlo di esilio, quando racconto del mio lasciare Ancona per trasferirmi a Milano, perché così un po’ l’ho sempre sentito, seppur la mia, in fondo, sia stata una scelta, nessuna pistola puntata alla testa, una macchina su cui saltare con Marina, come in una canzone del giovane Springsteen e un futuro da costruire davanti.

Ripeto, ho un rapporto irrisolto con la mia terra natia, terra natia, per altro, che come tutte le terre natie dall’epoca dei profeti che non erano profeti in patria, a mio avviso poco ha riconosciuto le tante parole amorevoli spese per lei, parlo soprattutto dei primi tempi, io costantemente a citarla, a rivendicare il mio essere marchigiano, a sottolineare il mio essere anconetano, al punto che mai, credo, in tutti questi ventitré anni passati in esilio, mi è capitato di lavorare con e per Ancona, come invece mi è capitato con tante altre terre, non mie, parlo di istituzioni, prevalentemente, ma anche di privati.

Credo, in sostanza, di aver fotografato il mio sentire nei confronti della mia terra natia in un testo, che poi è diventato il testo eponimo di un libro, Seppellite il mio cuore sul Monte Conero, testo nel quale canto il mio essere in esilio, volendo la mia saudade per un posto più idealizzato che corrispondente al reale, ma ne parlo anche guardandola, la mia terra, dallo specchietto retrovisore dell’auto, mentre me ne sto andando, evocando un mio ritorno e conseguente seppellimento, il cuore sul Monte Conero, come a suo tempo Geronimo a Wounded Knee, certo, ma appunto una volta morto.

Ho un rapporto irrisolto con la mia terra natia, terra matrigna, lo diceva già il mio conterraneo e collega Giacomo Leopardi, forse un po’ meglio di me, ma stanotte è la mia terra natia che ho sognato.

O meglio, ho sognato me e Marina, mia moglie, anche lei di Ancona, seppur con dell’abruzzesità nel sangue, sua madre Franca, anche lei reclusa con noi in casa a Milano da quarantadue giorni, nata a Vasto, ricordo perfettamente quando nei giorni in cui ancora non era la mia compagna, allora avrei detto fidanzata, diciassettenni, a mia precisa domanda, “Di dove sei?”, domanda posta perché sprovvista lei della tipica cadenza anconetana, quella che proprio in questi giorni Neri Marcorè, ospite del Social Club di Luca Barbarossa, ha descritto come una sorta di portoghese/brasiliano, ipotizzando, Barbarossa, proprio una bossanova in anconetano, vedi che tutto torna?, ricordo perfettamente quando nei giorni in cui ancora non era la mia compagna, allora avrei detto fidanzata, diciassettenni, a mia precisa domanda, “Di dove sei?”, domanda posta perché sprovvista della tipica cadenza anconetana, rispose senza tema “Sono anconitana,” dimostrando appunto quel suo non essere anconetana da generazioni, nessuno di Ancona direbbe di essere anconitano, come me, ma spuria, contaminata, meticcia, e si leggano queste mie ultime parole esattamente per quel che sono, un mio tentativo, me lo dico da solo, piuttosto riuscito, di descrivere appunto quei reflussi di anconetanità che a tratti salgono su per l’esofago, provando a uscirmi di bocca, ma si tratta di esercizi di stile, sappiatelo, ho quindi sognato me e Marina, mia moglie, anche lei di Ancona, seppur con dell’abruzzesità nel sangue, e tanto per voler proseguire su questa china, tanto di tempo ne abbiamo, poi giuro che torno al sogno, sogno che vi sto centellinando neanche fosse il segreto dell’elisir di lunga vita, elisir di cui per altro vi ho parlato giusto giovedì scorso, quando ho vestito i panni del tipo del Medice Show, comunque la faccenda dell’abruzzesità è curiosa, per un anconetano, perché chiunque abbia un po’ di dimestichezza col calcio ben sa come tra Ancona e Pescara, parlo delle squadre di calcio come delle città, non corra esattamente buon sangue, non corre mai buon sangue, nel calcio, tra città vicine, si pensi a derby storici come quello tra Livorno e Pisa, o tra Brescia e Bergamo, oggi, proprio oggi in cui scrivo, accomunate da un destino tremendo, tragico, sanguinante, e quindi non corre buon sangue tra Ancona e Pescara, come non corre buon sangue tra Ancona e Ascoli, io che ci ho messo piedi, a Ascoli, per la prima volta solo tre anni fa, per altro dopo che Ascoli era stata ferita dal terremoto tremendo che ha ferito la mia terra e il centro Italia, sempre e comunque Ascoli merda, ma è di Ancona e Pescara che voglio parlare, un odio, quello tra le due squadre e relative tifoserie, che ovviamente passa anche a chi il calcio non lo segue, o lo segue così, per dire, al punto che, arrivato a Milano e constatato che Ancona, per la stragrande maggioranza dei milanesi, sempre che i milanesi milanesi esistano, e non siano in realtà, come nel mio caso, milanese d’adozione, o nel caso dei miei figli, due nati in Ancona, quando si parla della mia città natale si deve usare categoricamente “in”, non “a” o il tremendo “ad”, qualcuno bandisca per sempre la D eufonica, i miei figli, due nati in Ancona, Lucia e Tommaso, nati in estate, e ditemi voi perché mai io e Marina avremmo dovuto passare l’estate a Milano, addirittura quando è nato Tommaso, il 28 giugno del 2005, la sera prima Marina era a Marcelli al mare a fare il bagno, vallo a fare tu il bagno al mare a Milano, ecco un altro reflusso di anconetanità, per dire, due nati a Milano, i gemelli Francesco e Chiara, un po’ perché nati a fine settembre, quando ormai le scuole frequentate da Lucia e Tommaso, rispettivamente quinta e prima elementare, all’epoca, un po’ perché, poveri illusi che eravamo io e Marina nel 2011, perché convinti che Milano fosse assai più attrezzata a livello sanitario di Ancona, fosse, addirittura, il posto più sicuro in Italia, parlando di sanità, fatto assolutamente smentito da quel che ci sta tenendo in casa in queste settimane, mesi di autireclusione, la tanto decantata sanità lombarda inginocchiata, nonostante la grandissima professionalità di chi ci lavora, tagliata e martoriata a colpi di accetta da chi ci ha governato negli ultimi venti anni, pagherete tutto e pagherete caro, al punto che, arrivato a Milano e constatato che Ancona, per la stragrande maggioranza dei milanesi, sempre che i milanesi milanesi esistano, e non siano in realtà, come nel mio caso, milanese d’adozione, gente nata altrove che poi diventa milanese solo per il fatto di vivere a Milano, comunque sia, al punto che, arrivato a Milano e constatato che Ancona, per la stragrande maggioranza dei milanesi non esiste, è un nome, collocato geograficamente non si sa esattamente dove, sicuramente più a sud di Bologna, sicuramente prima di Bari, ma lì, in una non precisata terra di nessuno, vagli a spiegare cosa sono le Marche, se non ci sono mai stati in vacanza, o magari passati per andare in Croazia e Grecia, e per altro se ci sono stati in vacanza o anche solo passati, i milanesi son fatti così, tutti lì a dirti cosa devi andare a vedere e dove devi andare a mangiare, cioè loro, i milanesi, a dire a te, anconetano, cosa vedere in Ancona e dove devi andare a mangiare in Ancona, ma andate a cagare, sempre al punto che, vedi tu quanto è ingenerosa la vita, molti confondono Ancona con Pescara, pensando, che cazzo avete studiato a fare geografia a scuola?, mi chiedo, pensano che Ancona è in Abruzzo, che è un po’ come dire a un pisano che è di Livorno, o viceversa, fatto, questo di dirmi che Ancona è in Abruzzo, che mi ha sempre immalinconito, almeno per i primi dieci anni passati a Milano, non tanto perché anche io odiassi l’Abruzzo, ho passato, facevo il conto tempo fa, almeno un paio di anni della mia vita nella casa dei nonni di Marina, a Vasto, a furia di passarci mesi in estate e settimane durante il resto dell’anno, un paio di anni pieni, e considero Vasto una delle mie città del cuore, al pari di Ancona, Milano, si lo confesso, e Londra, e ho a Vasto amici carissimi, spesso parenti di Marina, e ricordi bellissimi, sempre ricordi con Marina, i suoi nonni, i nostri figli, non mi offendo affatto, anzi, se mi si dice abruzzese, perché in fondo un po’ abruzzese mi ci sento anche io, vedi cosa non ti fa la lontananza dalle radici, o vedi come a volte le radici te le vai a innestare come si fa con le viti, intese come piante da cui poi nasce l’uva, non quelle che compri in ferramenta, e credo di aver scritto una delle mie frasi più lunghe, un saluto a tutti quelli che faticano a leggere le frasi con un paio di relative, ora metto il punto e riparto, anche per far respirare un attimo Carlo, colui che deve passare tutti i miei pezzi in redazione.

Parlavo dello strano sogno che ho fatto stanotte, so che può sembrare diversamente, ma è così.

Stanotte ho sognato me e Marina, mia moglie, anche lei di Ancona, e Morgana, una nostra amica carissima di quassù, collega di Marina ma che, come immagino capiti in tutti gli ambienti di lavoro, è passata dal ruolo di collega a quello di amica. Non ho ben presente perché io oggi abbia incluso Morgana in questo sogno, sogno legato alla nostra terra natia, di Marina e mia, e non alla sua terra natia, il varesotto, forse perché ieri con Marina abbiamo parlato del suo lavoro, seppur senza citarla, perché, pur lavorando nella stessa azienda non lavorano più insieme, ma in divisioni diverse.

Non intendo di sogni, ne sto raccontando uno fatto stanotte e basta.

Io, Marina e Morgana, nel sogno, eravamo a Portonovo.

Così, senza una premessa, una introduzione, un preambolo.

Il sogno è iniziato già lì, o è da quel punto che me lo ricordo.

Ci siamo io, Marina e Morgana a Portonovo.

Per chi non fosse pratico della zona, ma anche per chi lo fosse, magari milanese, e avesse voglia di spiegarmi dove andare e dove andare a mangiare, Portonovo è la baia posta alla base del Monte Conero, quello dove dovrebbe essere seppellito il mio cuore, per capirsi, solo monte che io, amante del mare ma non della natura in sé, della montagna nello specifico, ritengo il solo monte dotato di un senso, pur sapendo che, tecnicamente, il Monte Conero non è esattamente un monte, non rientrando nei canoni del genere, più una collina piuttosto alta, comunque Portonovo è la baia posta alla base del Monte Conero, sul lato anconetano.

È parte del comune di Ancona, anzi, Portonovo, questo lo dico per i bifolchi della mia stessa regione che sostengono che Ancona non abbia mare praticabile, gente che in genere preferisce andare al mare dove c’è la sabbia, poveri ignoranti, non gente di sasso o di scoglio come noi, ennesimo reflusso di anconetanità cui mi sto lasciando andare oggi, compatitemi.

Un posto, Portonovo, di una bellezza mozzafiato, prova provata dell’esistenza di Dio, e del fatto che anche Dio, come me, preferisce il mare alla montagna, è un fatto, dove per altro si trovano i moscioli di portonovo, la tipica cozza locale che si trova appunto solo da quelle parti, incautamente chiamata mosciòlo da Barbieri a Master Chef, fatto per il quale, immagino, prima o poi verrà chiamato a rispondere pubblicamente.

Insomma, Portonovo è uno dei posti più belli del mondo, lo dice uno che per qualche anno, una decina, ha fatto il reporter per riviste di viaggio, andando a girare, appunto, il mondo. Nello specifico, quando ogni anno, prima in gioventù, spessissimo, poi da che i gemelli sono diventati un po’ più autonomi, da quattro anni a questa parte, andiamo a Mezzavalle, che è la spiaggia che si trova di fronte alla baia di Portonovo, raggiungibile solo attraverso tre percorsi piuttosto scoscesi che scendono lungo il monte, chiamati “stradelli”, noi facciamo lo “stradello de Mantì”, per la cronaca, qualcosa come una mezzora di camminata, sia a scendere che a salire, spiaggia per altro non raggiungibile in altra maniera, solo a piedi, lasciando la macchina nei pochi, pochissimi posti disponibili sopra, a rischio multa se si sbaglia anche di qualche centimetro il parcheggio, quando si era giovani, io e Marina, ci si dormiva anche, seppur dormire non è la parola giusta, perché in teoria non si può dormire a Portonovo, parte del Parco del Conero, e quindi con tassativo divieto di bivacco, pena multe salatissime da parte della capitaneria di porto, che arrivava nottetempo da mare, o dei carabinieri, che scendevano in spiaggia con la 4×4, non fosse che io soffro di insonnia e fatico a dormire nel mio letto, figuriamoci in spiaggia, sui sassi, salvando quindi me, Marina e i nostri amici, era la compagnia della panchina di Piazza Cavour, da salatissime multe, lì a svegliare tutti, quando vedevo i fari della 4×4 o quelli del motoscafo, e regalando a me, Marina e i nostri amici, era la compagnia della panchina di Piazza Cavour, albe strepitose, il mare che si tinge di rosa già verso le quattro e mezzo, l’acqua sempre calmissima a quell’ora, uno spettacolo da riconciliare con la natura, quella natura che, credo, proprio in questi giorni ci sta tenendo bloccati in casa, puniti per la nostra arrogante volontà di dominarla, mi sto perdendo di nuovo, mi rifermo e riparto, giuro che è l’ultima volta.

Ci siamo io, Marina e Morgana a Portonovo.

Così, di punto in bianco, come se un film di guerra iniziasse direttamente con dei soldati in trincea, sotto i colpi dell’artiglieria avversaria.

Così è, in effetti.

No, intendiamoci, non c’è artiglieria avversaria, ma nel sogno, io, Marina e Morgana, siamo esattamente come fossimo sotto attacco di qualcuno, o di qualcosa. Nessuno mi sembra lo nomini, il sogno lo ricordo più a suggestioni che a dettagli, ma siamo chiaramente in emergenza Coronavirus, ma credo che la faccenda sia anche più complicata di quanto non lo sia ora. Non saprei dire se siamo in una situazione alla The Walking Dead, non credo, perché in The Walkind Dead certo tipo di tecnologia è sparita dall’orizzonte, ma mi sembra evidente, questa la suggestione che il sogno mi ha regalato, regalo affatto gradito, alla faccia del caval donato cui non si dovrebbe guardare in bocca, che siamo in una condizione peggiore di quella in cui siamo adesso, e non è che sia tutto rose e fiori, converrete.

Ora parlo agli amici anconetanti in ascolto, lo so, perché darò indicazioni topografiche precise che gli altri, anche i milanesi che vogliono sempre suggerirmi dove andare a mangiare, non possono cogliere. Io, Marina e Morgana siamo dentro il ristorante Marcello, al Laghetto, zona molo. Mezzavalle, quella di cui ho appena parlato, è lì, dall’altra parte della baia. Ma non c’è niente di piacevole in questo sogno. Perché Marcello, al Laghetto, ristorante dove si va a mangiare il pesce, i moscioli di cui sopra, il ciambellone con Varnelli a serata lì lì per finire, tra le altre leccornie, è chiuso, serrato, come a volte capita di vedere d’inverno, ma di rado. Solo che non è inverno, perché fa caldo, siamo vestiti come d’estate. È chiuso perché è come se fossimo in guerra, così ci sentiamo noi protagonisti del sogno. Siamo appiattiti sotto le finestre, come capita di vedere nei film quando fuori c’è qualcuno che vuole sparare e si cerca una protezione che sappiamo non essere sufficiente per proteggerci dai proiettili. Mi alzo, e guardo fuori dalla finestra, verso il mare, Marina e Morgana ancora accovacciate. Non ci sono ombrelloni, nonostante sia estate, siamo in guerra, appunto. Ma c’è un elicottero, le pale che sollevano l’acqua, a pochi metri dal pelo del mare, come nella famosa scena della Cavalcata delle Valchirie di Wagner in Apocalypse Now. Hanno mitra puntati, i pallini rossi del laser che ci cercano. Faccio segno di seguirmi, mi seguono. Scena dopo. Noi tre, io, Marina e Morgana, stiamo scappando, non saprei dire bene perché. Di colpo, però, usciamo e iniziamo a correre, a zig zag, come in effetti suppongo si dovrebbe fare se c’è qualcuno che ci vuole sparare, confesso che non mi è mai capitato. Corriamo sulla nostra destra, verso il Fortino Napoleonico, le raffiche che ci tagliano la strada, senza colpirci.

Mi fermo di nuovo, ma è una breve pausa, giuro.

Tanti anni fa, quasi venti, ho scritto un reportage per Gente Viaggi su Ancona e Portonovo, col tipico orgoglio di chi è in esilio e si sente spesso chiedere dove si trovi Ancona, appunto, dovendo dare come specifica, altrettanto spesso, Rimini, non esattamente la città nella quale mi vorrei identificare. Ho scritto questo reportage, in cui Ancona usciva molto meglio di quanto in effetti non sia, la paragonavo a San Francisco, mica pizza e fichi, le salite e discese, la baia, il terremoto, e dove Portonovo svettava, paragonata Big Sur, uno dei posti più belli e suggestivi che io abbia mai visitato.

I miei concittadini, ovviamente, invece che stendere tappeti rossi al mio successivo ritorno in città, si sono in buona parte incazzati, convinti come erano e sono che Portonovo debba rimanere cosa nostra, non per turisti, i pochi parcheggi già insufficienti per noi anconetani, figuriamoci per i forestieri. Ecco, non credo che oggi il mio racconto sortirà gli stessi effetti, seppur non ci metterei le mani sul fuoco.

Io, Marina e Morgana corriamo verso il Fortino Napoleonico, eludendo i colpi del mitra che arrivano dall’elicottero. Ci urlano anche cose incomprensibili con un megafono, ma nessuno di noi sembra orientato a fermarsi per meglio capire.

Corriamo lungo il perimetro del Fortino Napoleonico, saltiamo sui blocchi di cemento, i sassi spigolosi che così bene conosciamo non ci feriscono i piedi, e non certo per l’abitudine che abbiamo a conviverci, noi anconetani, Morgana è delle parti di Varese. Credo sia più una faccenda di adrenalina, paura, senso di sopravvivenza, quella roba lì.

Arriviamo alla Torre di Portonovo.

L’elicottero volteggia sulle nostre teste.

Voci da megafono e colpi di mitra.

Mi sveglio di colpo.

Ora, so che questo può sembrare un sogno qualsiasi, di chi magari sta vivendo un periodo agitato.

Da quel che so tutti fanno sogni strani, incomprensibili.

Ma temo ci sia altro.

Da tempo, tra il serio e il faceto, ho chiesto di avere la Torre di Portonovo, Torre di Portonovo che in realtà so essere di proprietà di un privato. Io l’ho chiesta alle amministrazioni della mia terra, in primis al Comune di Ancona, come tributo al mio essere il più importante scrittore anconetano vivente (a mio avviso il più importante scrittore anconetano tout court). Certo, abbiamo avuto Franco Scataglini, dalle nostre parti, ma io non sono un poeta, e diciamolo, tra un narratore e un poeta non c’è storia, carta canta. L’ho fatto, il chiedere la Torre di Portonovo, spesso scherzando sui social, ma anche in una occasione pubblica, l’ultima occasione pubblica che mi ha visto coinvolto in Ancona.

Era la presentazione del libro Seppellite il Mio Cuore sul Monte Conero, appunto, presso la splendida cornice della Loggia dei Mercanti, vicino al porto e alla bellissima chiesa romanica di Santa Maria della Piazza.

All’evento, inserito nel cartellone del Festival Adriatico Mediterraneo, erano presenti un po’ tutte le autorità locali, il sindaco, il presidente della provincia, all’epoca esisteva ancora questa istituzione, deputati e senatori locali, credo più per una questione istituzionale che per ammirazione nei miei confronti. O meglio, alcuni di loro erano e sono miei ammiratori, lo so, me lo hanno dimostrato, altri non hanno mai mosso un ciglio nei miei confronti.

Sia come sia a un certo punto, mentre il relatore dell’evento, Emilio D’Alessio, mi ha chiesto qualcosa riguardo un mio ipotetico ritorno nella mia terra natia, ho detto qualcosa che suonava così, “Se mi regalano la Torre di Portonovo potrei anche tornare. Non per farci qualcosa di specifico, tipo per scrivere, intendiamoci, ma per viverci e basta,”. Non contento ho anche aggiunto, “Alla gente dovrebbe bastare il sapermi lì, in vestaglia, a guardare il mare dalla finestra, poi se mi scappa di scrivere qualcosa, meglio, ma è solo per sapere che lì vivo io che dovrebbero regalarmela. Me la merito, direi”. Non bastasse ho fatto anche un riferimento proprio al poeta di cui sopra, in realtà prendendone le difese, raro momento in cui poesia e narrativa si incontrano, “Non vorrete mica fare come per Scataglini, che gli avete dedicato una via brutta, senza numeri civici, in piena zona industriale? Ora mi regalate la Torre di Portonovo, e poi mi dedicate una piazza, suggerirei Piazza Cavour”. 

Ovviamente, essendo io io, molti lì alla Loggia dei Mercanti, hanno riso, pensando ironizzassi. Altri, essendo io io, hanno capito che non stavo affatto scherzando, anzi, ero serissimo.

Nessuno mi ha regalato la Torre di Portonovo, per la cronaca, negli ultimi anni diventata un Bed and Breakfast. Ma la Torre di Portonovo rimane, nel mio immaginario, la mia Eldorado, il posto idealizzato nel quale vorrei vivere gli ultimi giorni della mia vita terrena, per poi essere seppellito, almeno il mio cuore, sul Monte Conero, lì sopra.

Sognarmi in fuga con Marina, sulla presenza di Morgana non saprei dire, qualcuno che ci segue e vuole spararci, verso la Torre di Portonovo, immagino, non indichi una mia particolare serenità d’animo. Serenità d’animo che, in effetti, al quarantaduesimo giorno di autoisolamento, non credo di poter più usare la parola quarantena, superati i quaranta giorni di clausura, non ho.

Anni fa, tanti anni fa, quando ancora cullavo non tanto l’idea di tornare a vivere da quelle parti, perché ho sempre saputo che non sarebbe mai successo, sin dal primo giorno che me ne sono andato, ma almeno di poter fare qualcosa di bello con la mia terra, ho proposto all’amministrazione locale di fare una serie di concerti su una banca, lì sulla baia di Portonovo, esattamente dove nel mio sogno c’era l’elicottero che ci sparava contro. In modo particolare avevo pensato di farne fare uno all’alba a L’Aura, la cantautrice bresciana che ho sempre considerato, e tutt’ora considero, uno dei talenti più cristallini che abbia mai attraversato la nostra discografia asfittica. Ovviamente non se ne è fatto niente, pigri e irriconoscenti nei miei confronti come sono.

Il mio sogno, forse dovrei dire incubo, di stanotte non aveva colonna sonora, perché la musica non può essere presente in un futuro neanche troppo distopico in cui oltre al Coronavirus, protagonista mai citato di quella suggestione, c’è un vero e proprio stato di polizia, spauracchio coi quali ci stiamo abituando a fare i conti. Ecco, se e quando usciremo da questa emergenza che ci tiene tutti reclusi in casa da quarantadue giorni, giuro, organizzerò quel concerto all’alba, L’Aura che canta Damien su una barca col sole che tinge di rosa il mio mare, giusto un attimo prima che io irrompa dentro la Torre di Portonovo impossessandomene. A qualche bella immagine dobbiamo pur aggrapparci, maledetti.