Braveheart, il film premio Oscar di Mel Gibson, un racconto epico tra storia e leggenda

Alle 21.20 su Rete 4 c’è il trascinante film diretto e interpretato dall’attore australiano. Un kolossal di ambientazione medievale che punta sulle emozioni forti. Ci sono i pregi e i difetti del cinema di Gibson. E alcune delle più grandiose scene di massa di sempre

Braveheart

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Quando a Mel Gibson proposero di fare il protagonista di Braveheart – Cuore Impavido (1995), l’attore obiettò di essere troppo vecchio, lui trentanovenne, per interpretare il ruolo dell’eroe nazionale scozzese William Wallace. Il quale, per quel che se ne sa – le notizie storicamente attendibili sul personaggio non sono molte – morì nel 1305 forse a 35 anni. Gibson rilanciò e si propose per dirigerlo, avendo già firmato un non disprezzabile L’Uomo Senza Volto. Sappiamo come è andata a finire: di Braveheart Gibson fu regista, protagonista e anche produttore, mettendoci una quindicina di milioni di tasca propria in un film mastodontico che, contro tutte le previsioni – un kolossal epico di ambientazione medievale su un personaggio di appeal decisamente poco internazionale –, ottenne 10 nomination all’Oscar vincendone 5, tra cui addirittura quello per il miglior film.

Braveheart è non solo una scommessa vinta, ma è anche il film più emblematico della carriera di Mel Gibson, nel quale, a ben guardarlo ci sono in embrione i temi dei successivi e ancora più grandiosi e bizzarri La Passione Di Cristo e Apocalypto. Ha poco senso tacciare di inattendibilità storica il film. Il quale di suo certo romanza con disinvoltura e infila anche svarioni anacronistici come l’uso del kilt, indumento la cui invenzione risale al Settecento.

Ma basta vedere l’inizio del film per capire che non è la storia che interessa a Gibson. Braveheart inizia con delle inquadrature aree di montagne, valli e laghi – in teoria scozzesi, in realtà irlandesi, dove fu allestito il set per le facilitazioni fiscali e i tremila soldati per le scene di massa offerti alla produzione – che catapultano immediatamente in un immaginario quasi fantasy, in cui a dar ritmo al racconto non è la cronaca storica, ma la maestosità del mito.

A sciogliere subito la questione della verosimiglianza ci pensa la voce fuori campo che sentenzia: “Gli storici inglesi diranno che sono un bugiardo. Ma la storia è scritta da quelli che impiccano gli eroi”. Così il film fa immediatamente una scelta di campo, ponendosi dalla parte dei valorosi e contro i tendenziosi resoconti “ufficiali”, sposando la leggenda del coraggioso William Wallace – infatti quando i ribelli lo incontrano non credono sia lui, perché i racconti che passano di bocca in bocca dicono sia alto due metri.

L’epopea comincia correttamente dall’infanzia del condottiero, negli anni Settanta del tredicesimo secolo, quando il padre di William viene ucciso dai soldati dell’esercito di quel campione di crudeltà che è Edoardo I Plantageneto (Patrick MacGoohan), re d’inghilterra che ha già ucciso in un’imboscata i nobili scozzesi pretendenti al trono. Le poche scene del prologo stabiliscono il tono epico del racconto e presentano i personaggi principali: il coraggioso William, la bimba che diverrà l’amore della sua vita, Murron (da adulta Catherine McCormack), il suo braccio destro Hamish (Brendan Gleeson).

Dopo un salto di vent’anni ritroviamo William adulto che torna in Scozia dopo peregrinazioni per l’Europa. Grazie agli insegnamenti dello zio Argyle ha imparato il latino e il francese, e vorrebbe solo vivere in pace facendo il coltivatore e unendosi in matrimonio con Murron. Ma i soldati inglesi violentano e uccidono barbaramente la donna, che lui ha sposato segretamente per sottrarla alla vessazione dello Ius primae noctis. A quel punto scatta la vendetta che, grazie al suo carisma, lo trasforma nel leader dei rivoltosi scozzesi, in attesa di un uomo senza le doppiezze dei nobili, sempre pronti a vendersi per un titolo e un pezzo di terra, ma che parlasse il linguaggio dell’onore e della libertà.

Come regista, Mel Gibson non ha la propensione alle sfumature e ai sottintesi. Braveheart procede a ritmo di fanfara, punteggiato dalle cornamuse con contorno di sfondi paesaggistici epicizzanti, vasti come i sentimenti dei personaggi. Questo stile di racconto rispetto alle storie d’amore – quella con Murron e poi la passione per la principessa Isabella di Francia (Sophie Marceau), sposa del pusillanime figlio del re Edoardo – produce effetti risibili da fotoromanzo tra passioni marmoree, ralenti e amplessi al chiaro di luna.

Viceversa, il versante guerriero è di una grandiosità trascinante: le scene di battaglia non si dimenticano, con migliaia di comparsa e combattimenti all’arma bianca di una fisicità irreperibile nel cinema digitalizzato degli anni Duemila. Gibson racconta lo spirito fiero dei combattenti, che si muovono all’unisono spinti dalla travolgente dignità dei discorsi motivazioni di Wallace, aggiungendo la nota di realismo della spavalderia di questi combattenti che mostrano beffardi le terga al nemico.

Questo stile senza sottigliezze non funziona nemmeno nella parte finale, quando Wallace è sottoposto a quello che, col senno di poi, può ben definirsi un calvario cristologico. Che è condotto con un gusto per il dettaglio truculento e l’agonia spiattellata fine a sé stessa. Gibson vorrebbe fare emergere la dimensione tragica del martirio di Wallace, ma come per il Gesù del successivo film, l’indugiare millimetrico sulle sofferenze del corpo torturato dell’eroe finisce per creare solo raccapriccio. Un sentimento che, ammoniva già Aristotele nella Poetica, è quanto di “più estraneo alla tragedia” e non produce né commozione partecipe né catarsi.

Spunti tragici, semmai, si trovano nel tema del conflitto generazionale. William Wallace proviene da una linea di consanguineità sana, sia il padre che lo zio l’hanno cresciuto consegnandogli una lezione di umanità che lo rende l’uomo che è. Il re Edoardo invece è un malvagio integrale, che il figlio omosessuale (una caratterizzazione con trovate di grana grossa) odia al punto da provare persino a pugnalarlo. Tortuoso è soprattutto il rapporto tra Robert Bruce (Angus Macfadyen), nobile scozzese che ammira Wallace e vorrebbe aiutarlo, e il padre piagato dalla lebbra, che spinge il figlio al tradimento per ragioni di convenienza politica. Robert non si perdona la sua debolezza e non perdona il padre. Il quale sa che proprio quell’odio da lui provocato e il dolore di sentirsi un traditore del figlio gli daranno la spinta per diventare un vero sovrano. È in questa consapevolezza paterna non priva di complessità che Braveheart riesce a trovare una nota di autentica tragedia.