I miei pensieri contorti di oggi, al quarantesimo giorno di clausura Coronavirus

Ho pensato ai Tampax, al lievito madre e a Donita Sparks, voce e leader della riot grrrl band delle L7, epigoni di quel femminismo in chiave rock che ha animato gli anni Novanta


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Quaranta giorni.

Sono quaranta giorni che la mia famiglia, seguendo più il buon senso che le indicazioni di chi ci dovrebbe guidare fuori da questa emergenza, e che evidentemente non si è mosso con lo stesso buon senso mio e della mia famiglia e di milioni di altre persone, sono quaranta giorni che la mia famiglia è reclusa in casa in autoisolamento. Sette persone, io, mia moglie Marina, i nostri quattro figli Lucia, diciotto anni, Tommaso, quattordici, i gemelli Francesco e Chiara, otto anni, e mia suocera Franca, di cui non dirò l’età per questioni legate alla privacy. Tutti in casa, fatta eccezione per me, che ormai, rodata la faccenda, riesco a andare a fare la spesona una volta alla settimana, non di più, come vi ho abbondantemente spiegato, fatto che non è per me certo di sollievo, meglio starsene in casa del tutto, traduco, che uscire per stare in fila fuori dal supermercato con la mascherina e in mezzo agli sguardi ostili e diffidenti degli altri, a loro volta con la mascherina.

Quaranta giorni.

Esattamente come quaranta erano, tocca usare il passato, i giorni che si ritenevano necessari di isolamento per chi avrebbe potuto veicolare malattie infettive, penso a chi un tempo si muoveva per mare e si ritrovava, arrivato in porto, a dover passare i giorni recluso, in contumacia, dentro a luoghi preposti, nella mia città natale, Ancona, Vanvitelli aveva ideato appunto un lazzaretto proprio di fianco al porto. Oggi si parla di quarantena di due settimane, perché così ci hanno detto è sufficiente per neutralizzare i rischi relativi al Coronavirus o Covid-19, ma il termine quarantena è più antico, già in uso, faceva comodo usarlo per rendere l’idea.

Quaranta giorni.

Esattamente come quelli che stiamo vivendo seguendo la liturgia cattolica, la Quaresima, perché molti se ne stanno accorgendo ora che l’ipotesi Pasquetta all’aperto, a fare la grigliata con amici e parenti è definitivamente sfumata, immagino e forse anche spero, buon senso portami via, ma siamo a pochi giorni dalla Pasqua, appunto in piena Quaresima. La Quaresima che prende il nome proprio dai quaranta giorni durante i quali Gesù è stato nel deserto, questo ci racconta il Vangelo, subito dopo il suo battesimo nel fiume Giordano, per mezzo di suo cugino Giovanni Battista, e prima di tornare in pubblico, agendo come appunto il Gesù pubblico, quello che lo avrebbe portato alla croce e poi alla resurrezione. So che sto usando un linguaggio poco teologico, ma non sono un teologo e non è questo il tema che voglio affrontare. La Quaresima, momento liturgico che preveda penitenza e digiuno, quello, per intendersi per il quale gli artisti considerano il viola un colore che porta sfiga, perché durante la Quaresima, che liturgicamente prevede i paramenti viola, non si poteva neanche fare arte, loro non lavoravano, quindi, non guadagnavano, digiuno forzato, spesso, più che come scelta, di qui il viola che porta sfiga, la Quaresima è di quaranta giorni, tanti ne passano dal martedì grasso, quello appunto che chiude il carnevale e che ha quel grasso lì proprio a indicare l’ultimo giorno di passione, non intesa come la passione di Cristo, quella avverrà a fine Quaresima, durante la Settimana Santa, quella che precede la Pasqua, ma inteso in senso dionisiaco, di desiderio, cibo, sesso e via discorrendo, tanti ne passano dal martedì grasso alla domenica di Pasqua.

Quaranta giorni, quindi.

Una quarantena che non è una quarantena, perché non è una misura preventiva per evitare che noi si porti contagio agli altri, noi, al momento, siamo quelli sani che non si devono infettare, e perché io, personalmente, come vi ho raccontato, esco, una volta alla settimana, ormai, sono diventato bravo a fare la spesona, l’altro giorno ho addirittura fatto due giri di carrello, approfittando dell’imprevista poca fila, sempre circondato dalla diffidenza e ostilità dei pochi altri che mi giravano intorno, la stanchezza di questo assurdo momento ormai è palpabile anche a distanza di sicurezza.

Comunque una quarantena, quaranta giorni da che, in sostanza, ci siamo autoreclusi in casa, parlo di chi ha potuto farlo, ovviamente, non costretto a andare al lavoro, più o meno necessario che fosse (necessario perché utile e necessario, Dio glorifichi chi è in prima linea, e necessario perché le aziende non hanno chiuso e per mangiare tocca lavorare, anche a rischio di ammalarsi e morirne, Dio maledica chi non le ha chiuse, le aziende non necessarie, e non sto certo parlando dei titolari, o almeno non solo di loro, ma di chi avrebbe dovuto legiferare a riguardo), o di chi ha voluto farlo, perché sappiamo bene come molti se ne siano sbattuti il cazzo, penso a chi andava a sciare nei pressi dei focolai, per altro, come di chi semplicemente non ha capito, viveste con le sirene delle ambulanze che ogni quarto d’ora rompono il silenzio agghiacciante dell’assenza di traffico, immagino, lo avreste capito bene sin da subito.

Come questi quaranta giorni stiano influendo sulla mia vita, personale e professionale, e su quella dei miei familiari, immagino, vi è abbastanza chiaro, perché appunto ho deciso incautamente di raccontarvelo giorno dopo giorno, con la baldanza ottimistica iniziale di chi pensava che tutto questo sarebbe durato molto meno, ho già confessato di aver pensato di tenervi compagnia per una decina di giorni, come quelli che i protagonisti del Decameron hanno passato isolati raccontandosi novelle, dieci a testa, appunto, e ora con la tenacia di chi si è autoimposto non solo un isolamento claustrale a mo di quarantena atto più a propria tutela che a tutela degli altri, forse, ma che comunque, questo ci hanno spiegato, serve anche agli altri, perché tocca non gravare in nessun modo in un servizio sanitario al collasso, ripeto, Dio glorifichi chi ci lavora a rischio della propria vita, con la tenacia di chi si è autoimposto non solo un isolamento claustrale a mo di quarantena, ma anche di continuare a lavorare con costanza e metodo, di qui anche l’idea di partire con un programma tv da tenere dal divano di casa, perché la lucidità va curata come un fiore in questi giorni oscuri, e anche la serenità dei miei figli, che nel vedermi lavorare, e nel vedere lavorare mia moglie, da una parte non temono che, come sentono al telegiornale potremmo trovarci costretti a assaltare un supermercato armati di mazza da baseball, loro sanno che volendo io una mazza da baseball ce l’ho, nell’armadio, né che in effetti questa nuova routine preveda una sorta di allentamento di quei principi di normalità cui li abbiamo educati, ci si alza, si fa la doccia, ci si veste, senza rimanere in pigiama, si mangia seguendo i soliti dettami di varietà e dietetici, potendo, si fanno rinunce del superfluo, questo sì, ma si limitano le rinunce alle rose, perché Ken Loach ce lo ha detto assai bene anni fa, oltre al pane servono le rose, ecco, al pane abbiamo rinunciato, in parte, perché qui manca il lievito di birra da tempo, vai a capire se, come sostengono certi complottisti, è una manovra dei ricchi capitalisti per evitare che noi si faccia pane e pizza a casa, pagando pochi centesimi, invece che approvvigionarci di beni di consumo assai più costosi, tesi corroborata dalla contemporanea quasi assenza di uova e farina, o più semplicemente dipenda da una effettiva carenza di questi prodotti, a breve vi dirò come stiamo provando a arginare tutto questo, comunque proviamo a portare nella nostra quotidianità il pane, metaforico, e le rose, metaforiche, sempre rimanendo lucidi, per quel che ci è possibile, sbarbati e pettinati, direi, azzardando una metafora però assai poco applicabile a me stesso.

Per dire, con l’ultima spesona sono entrati in casa due uova di Pasqua, uno da maschi e uno da femmina, della sola marca che ho trovato al supermercato, lungi da me fare product placement, tanto più product placement gratuito, bastardi, dove sono andato, e non venite a cagarmi il cazzo con il gendrismo, i gemelli vogliono regalini, regalini sempre deludenti quelli delle uova di Pasqua, è un fatto, i gemelli vogliono regalini da maschio e femmina, non per una sbagliata educazione da parte nostra, ma così, perché così è capitato, sono gemelli e fanno giochi insieme, da maschi e da femmine, intendendo con da maschi e da femmine quei tipi di giochi che una società bigotta e sessista, uso parole vostre, cagacazzi, hanno imposto a noi e a loro, ma che poi loro vanno a pescarsi senza che noi si stia lì a scegliere per loro, perché figuriamoci se con quattro figli gli siamo andati a comprare come magari succedeva coi primi due, giochi o vestiti ad hoc, sono gemelli, ripeto, provate a crescerli voi quattro figli senza riciclare, senza passare giochi e vestiti da grandi a piccoli, o senza metterli in circolo tra amici e conoscenti, che questi crescono nel tempo di dirlo, crescono, e un vestito lo usano magari una volta sola, buttarlo sarebbe un peccato. Insomma, siamo lucidi, ma non lucidissimi, possiamo azzardare, del resto lucidissimo, io, non lo sono neanche in tempo di pace, figuriamoci in tempo di emergenza, Internazionale dice che non dobbiamo dire di essere in guerra, se non rischiamo di diventare senza neanche accorgercene succubi del sistema, taglio con l’accetta un discorso che in parte condivido, e se non sono sempre lucidissimo è anche perché mi sono scelto un mestiere nel quale non essere lucido, in parte, non solo è contemplato, ma previsto, necessario, perché scrivere è un po’ anche andare in trance, certo dosando gli ingredienti, usando con perizia gli attrezzi del mestiere, ma lasciandosi andare alle famose visioni, visioni che in questi giorni di quarantena vi ho citato molto spesso.

Mi sono perso, mi sa. Amen. Riparto.

I miei pensieri oggi, quarantesimo giorno, sono particolarmente contorti, lo so, me ne accorgo, sono stordito, ma lucido, come chi sta in coma ma vede la luce in fondo al tunnel, che immagine del cazzo che sono andato a cercare.

E allora vi parlo del lievito madre, forse è meglio, o meglio della Biga, così mi è stato detto si chiami la specie di lievito madre che stiamo provando a fare in casa, dimmi tu come ci siamo ridotti. A dirmi che si chiami Biga è stato Maurizio, il compagno della mia carissima amica Eleonora, provetto cantautore con il nome di Geometra Mangoni, lui, provetta cantautrice col nome Eleviole?, lei, nome, Geometra Mangoni, che sottintende il suo essere anche geometra, mentre Eleviole? non saprei dire cosa sottintende, prendere o lasciare, nome, Geometra Mangoni, che sottintende il suo essere geometra non fornaio, ma tant’è, è stato lui a introdurmi al mondo dei liviti madri, facciamocene una ragione.

Maurizio, il Geometra Mangoni, da tempo si dedica con passione ai grandi lievitati, e in questi giorni di quarantena che non è una quarantena ancora di più, il che, immagino, non deponga a favore della sua lucidità, perché passare l’isolamento a fare i pandori e i croissant, oltre a incidere suppongo sulla linea sua e della sua compagna, un tempo dedita all’arte di volteggiare sui tessuti, oltre che a cantare, è Eleviole? è una delle mie cantautrici preferite nonché pilastro del progetto Anatomia Femminile, sia messo agli atti, oggi destinata a un futuro come Bettie Ditto italiana, hai voglia poi a volteggiare sui tessuti una volta che tutto questo sarà finito e il suo suonare l’ukulele, come nel suo primo bellissimo album Dove non si tocca, farà balzare in mente a tutti il tizio obeso e hawaiano che cantava Over the Rainbow in quella maniera lancinante lì, e lo dico a nome di quanti hanno seguito con passione tutte le puntate e le stagioni di E.R., ovviamente, anche se non è delle maniglie dell’amore di Eleonora che voglio parlarvi, anche se “le maniglie dell’amore di Eleonora” poteva essere il titolo di un grande romanzo di quelli che imporporavano le guance delle lettrici di Intimità, converrete con me, anche se non è delle maniglie dell’amore di Eleonora che voglio parlarvi quanto più di come il Geometra Mangoni, Maurizio, si sia ritrovato, suo malgrado, a spiegarmi come fare il lievito madre, anzi, una versione veloce del lievito madre chiamata Biga, e già ho detto tutto, e di come io lo abbia preso sul serio, salvo poi tornare lucido e ritrovarmi ora qui a raccontarvelo, aiutatelo, siategli vicino, vogliategli bene.

La faccenda è questa, se avete in casa un minimo di lievito di birra, un grammo, mi ha spiegato il Geometra Mangoni, potete fare la Biga, che è una sorta di lievito madre che però ha altri principi attivi, ha aggiunto, come se me ne fregasse un cazzo dei principi attivi del lievito col quale poi mia moglie farà la pizza, non alcolici, ha aggiunto.

Si deve, in sostanza, ha detto, preparare una sorta di impasto per fare la pizza, poniamo il caso, trecento grammi di farina, possibilmente di tipo Manitoba, ha aggiunto, ma va bene anche quella 00, poi ci aggiunge il grammo di lievito, e poi centocinquanta ml di acqua tiepida. Al mio chiedergli come si fa a pesare un grammo di lievito di birra, non avendo io le bilancine da pusher, tipo El Chapo o Narcos, ha chiosato che si può fare a occhio, dando quindi al suo star lì a misurare le grammature degli ingredienti il valore che può avere la parola di chi ti deve pagare, specie in questi giorni di clausura e immobilismo, e ti ripete da giorni, ho fatto un bonifico (nota è la battuta di Jay McInerney, che fa suppergiù così, “mai credere a chi ti dice ho appena fatto un bonifico e non ti verrò in bocca”, maledetta cultura che mi tieni compagnia anche in questi giorni anomali).

Comunque, si impasta farina, acqua tiepida e un grammo di lievito di birra, ma non troppo, dice il Geometra Mangoni, che la materia resti grezza, coi buchi, immagine che nella mia testa mi ha riportato a quando, qualche giorno fa, in diretta durante una puntata di Io resto a casa Monina, il format che stiamo facendo sul sito di Optimagazine con Mattia Toccaceli e per la regia dei The Loops, Silvia Salemi ci ha detto di come passi buona parte del tempo a mangiare e prima ancora a cucinare, andando quindi a curare con amorevole attenzione i buchi della sua cellulite, parole sue, andando poi a farci vedere ipotetici buchi, lei che alza la maglia e mostra il fianco e poi si gira, mostrando il culo, per altro senza evidenziare nessuna cellulite, sia detto en passant, e il pensiero è di nuovo volato ai pandori, ai croissant e alla Bettie Ditto italiana che prima o poi proverà a volteggiare sui tessuti, crederci sempre arrendersi mai, direbbe Simona Ventura. Torniamo alla Biga. Si impasta farina Manitoba, trecento grammi, centocinquanta ml di acqua tiepida e un grammo di lievito di birra. Lo si impasta male, lasciando buchi tipo cellulite. Eravamo arrivati qui. Poi lo si mette a lievitare per circa tre ore. Infine lo si mette in un barattolo di vetro, con su un panno.

Il tutto va messo in frigo, mi spiega sempre il Geometra Mangoni, perché altrimenti la Biga, che sarebbe questa versione veloce del lievito madre, perché per fare il lievito madre ci vogliono settimane, forse mesi, ha troppa fame.

Ora, mettetevi nei miei panni.

Sono uno scrittore recluso in casa da quaranta giorni. Passavo le giornate a dire che Biagio Antonacci faceva musica che mi ispirava scene di cavalli che affogano dal buco del culo e di colpo mi ritrovo a parlare di malinconia e tormenti, tutti i giorni, non è che me la stia passando benissimo, nonostante palesi il contrario.

Quando quindi sento il Geometra Mangoni dirmi che il lievito madre, o Biga che dir si voglia, ha molta fame, converrete, sono portato a pensare che lui sia messo peggio di me, che non stia bene. Perché il lievito è il lievito, cazzo, mica un essere vivente. Già fatico a prendere in considerazione i cani, figuriamoci il lievito.

Poi, lui, il Geometra, mi spiega che il lievito vive, in effetti, e mangia farina, una questione chimica. Tipo Breaking Bad, mi dice il me stesso in palla con Ozark, dopo aver visto tutta Lylihammer. Per cui, una volta che si è usato un po’ di lievito madre, mi dice che per un chilo di farina ne serve circa centocinquanta grammi, poi va rinfrescato, cioè vanno aggiunti altri centocinquanta grammi e altra acqua tiepida, e che in generale ogni quattro giorni, circa, va rinfrescato a prescindere, con tanta farina quanto pesa, e metà porzione d’acqua tiepida, e la faccenda del frigo, mi dice, è come se fosse una sorta di anestetico, per il lievito madre o Biga che dir si voglia, al freddo lui si addormenta, entra in letargo, e mangia meno.

Dice anche, il Geometra Mangoni, che tocca pure mettere a lievitare la pizza, o il pane, o quel che è, molto prima di quanto non si farebbe col normale lievito di birra, che so?, invece che tre, quattro ore prima di infornare, anche ventiquattro ore prima, che il lievito madre o Biga che dir si voglia, e lo so che non è la stessa cosa, la faccenda del principio alcolico mi è chiara, ma sono pigro e volevo sottolineare in malafede lo scetticismo che pongo nei confronti di queste pratiche, il lievito madre o Biga che dir si voglia, forse perché anestetizzato dal freddo del frigo, lavora con molta più calma, anestetizzato e pigro, anche lui come me.

Questa spiegazione, prima avvenuta per iscritto, su whatsapp, e poi al telefono, ha portato via circa mezzora delle nostre vite, a volerla dire tutta più della sua, del Geometra Mangoni, che della mia, visto che tecnicamente è lui a aver fatto un favore a me, ma in realtà, credo di poter dire con assoluta certezza, sicuro anche del vostro plauso, se lui ha speso il suo tempo a spiegarmi qualcosa che mi porterà sabato a mangiare la pizza, come tutti i sabati anche in tempo di pace, è anche vero che lui, ma soprattutto Eloenora, lì intenta a mangiare cornetti e pandori come non ci fosse un domani, ha potuto per qualche istante concentrarsi su un argomento, seppur un argomento effimero, uscendo momentaneamente da una quotidianità fatta di discorsi fatti con la testa infilata dentro il frigo, a coccolare un barattolo di vetro con dentro del lievito, porco cazzo.

Così è come ci siamo ridotti dopo quaranta giorni, mi dico ora che sto raccontando a voi questa vicenda, ci siamo ridotti a parlare con i barattoli di vetro mentre le nostre compagne ingrassano a dismisura sognando di quando volteggiavano appesi a foulard attaccati al soffitto (si scherza, Eleonora, resti la pantera di sempre, te lo dice un vecchio ghepardo).

In realtà non era di questo che vi volevo parlare oggi.

Non volevo, cioè, parlare di Biga, ma semmai di figa.

E volevo farlo non perché sia necessario farlo, intendiamoci, ma perché credo che mai come in questo momento, ripeto, al quarantesimo giorno di quarantena che non è una quarantena, a una settimana dal Venerdì Santo, che della Quaresima è il momento focale al pari della Pasqua stessa, sia necessario concentrare l’attenzione su altro, e, non dico niente di sconvolgente, credo, non c’è niente come parlare di calcio e figa per applicare un minimo protocollo di distrazione di massa (parlo da uomo, lo so, uomo uomo che da bambino giocava con giochi da maschio e che vestiva, immagino, di azzurro o comunque non di rosa, vi prego, andate a cagare il cazzo a qualcun altro, non è aria…). Quindi, preso atto che il calcio, in questo momento, è morto, con il campionato, la Champions, tutto fermo, i calciatori che chiedono sostentamenti allo stato, come le partite IVA, pensa te, e addirittura gli Europei rinviati di un anno, forse non ci resta che concentrarci sulla figa, che magari potrebbe addirittura regalarmi un sano ritorno al passato prossimo, io al centro di una qualche polemica da parte di chi mi accuserà di maschilismo e di maschilismo messo in atto da chi invece si presenta come il paladino del femminile, scandalo degli scandali, alla faccia del Festivalino di Anatomia Femminile, già me li immagino tutti lì coi ditini alzati, immagino gli stessi che staranno praticando delazioni contro i martiri del giorno, vai a sapere a chi toccherà oggi, gli stessi che imploreranno i genitori di tenere i figli in casa, che mica hanno le stesse necessità di stare all’aria aperta dei cani che portano fuori a pisciare, gli stessi, in sostanza, che hanno approfittato del Coronavirus per essere semplicemente se stessi, meschini e cagacazzi, ripeto. Giorni fa mi è successo qualcosa di simile, con una cantautrice di cui ignoravo l’esistenza che ha provato a prendermi per il culo in un gruppo chiuso di cantautrici, riprendendo il mio articolo sul flashmob delle tette, non cogliendone affatto il senso ironico e provocatorio (dicevo anche di fare l’elicottero col pisello, ricordo). Mi ha sostanzialmente dato in pasto a altre cantautrici, che in piccolissima parte hanno abboccato, ignare, tutte, che in quel gruppo ci avessero messo anche me. Ignare almeno finché non mi sono palesato, invitando quindi a provare a capire cosa stavano commentando, fatto avvenuto a breve giro, con tanto di post cancellato improvvidamente. Una boccata d’ossigeno, in mezzo a tanto buonisimo.

Ecco, se volete polemizzare con me, quando volete, vi aspetto a mani nude, tanto poi basta che ce le laviamo per un minuto con l’acqua calda, come ci ha insegnato Barbara D’Urso.

La figa, si diceva. Non è neanche della figa che voglio parlarvi, in realtà. Non voglio parlarvi di niente. Sono quaranta giorni che sto qui in casa, con mia moglie, i miei quattro figlie e mia suocera. C’è anche Scurina, il nostro pesce rosso, ma non posso portarlo di sotto a fare due passi, lui piscia nella sua vaschetta rettangolare (mi hanno detto che quella tonda li manda fuori di testa, i pesci rossi). Sono quaranta giorni che sto in quarantena, anche se non è una quarantena vera e propria, e comincio a accusare un po’ di affanno, non certo respiratorio, intendiamoci, più psicologico, spirituale. Ci vorrebbe una scossa elettrica, una defibrillata, qualcosa di spiazzante che mi rianimi.

Ecco, parlavo di figa, vorrei essere proprio in questo momento a Reading, il 30 agosto del 1992, nell’attimo in cui Donita Sparks, voce e leader della riot grrrl band delle L7, epigoni di quel femminismo in chiave rock che ha animato gli anni Novanta, si sfilava un Tampax e lo gettava sulla folla, che le stava fischiando e gettando fango perché, dopo essersi presentate in ritardo sul palco, loro uniche donne in un cartellone prevalentemente maschile, anzi, esclusivamente maschile, si erano dovute interrompere a causa di problemi tecnici. Un bell’assorbente interno intriso di mestruo lanciato sul pubblico, gesto decisamente rock’n’roll, entrato di diritto nella storia della musica e del femminismo, seppur non apprezzato da tutti. Ecco, vorrei qualcosa del genere, ben sapendo che lanciare Tampax dalle finestre e dai balconi, solo da lì sembra ci sia ormai possibile confrontarci col mondo, non sarebbe tanto punk, quanto più delinquenziale, mi raccontava un mio amico che in una certa via di Milano in mano alla mala le forze dell’ordine non possono entrare o vengono prese a assorbenti usati dalle prostitute che lavorano nei palazzoni che la costeggiano.

Insomma, al quarantesimo giorno di quarantena che non è una quarantena, sono riuscito a parlare tanto di come fare il lievito madre quanto di Tampax usati lanciati come arma contundente, avessi dovuto cercare altrove altre immagini capaci di descrivere il mio stato d’animo non avrei potuto trovare di meglio. Più lievito madre per tutti, più riot grrrl per tutti, evviva le maniglie dell’amore.