Il Buco, su Netflix un horror ambizioso che è un’allegoria disturbante della nostra società

Il film d’esordio dello spagnolo Gatzelu-Urrutia è la storia d'una prigione verticale in cui i reclusi possono solo mangiare, dormire, evacuare. Un universo concentrazionario in cui tutti sono contro tutti. Un racconto distopico e pessimista, truculento ma originale

Il Buco

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Si sta facendo un gran parlare dell’ horror spagnolo Il Buco (in originale El Hojo, “la fossa”, il titolo internazionale è The Platform), da qualche giorno disponibile su Netflix dopo i passaggi a festival come Toronto e Torino. Il regista, Galder Gatzelu-Urrutia, viene dalla tv e dalla pubblicità, dopo pure vari corti che, come questo lungometraggio d’esordio, ruotavano intorno a temi fantascientifici che evidenziavano una visione piuttosto pessimista dell’animo umano.

Il Buco è modulato su pochissimi elementi, un racconto che punta all’essenzialità per far emergere in maniera sbalzata un’idea dell’uomo disarmante, agghiacciante. Un tale Goreng (Iván Massagué) si risveglia al quarantasettesimo piano di una prigione singolare, un penitenziario verticale con un numero enorme ma imprecisato di livelli. Le celle sono stanzoni squadrati con mura lisce e grigie, senza nulla all’interno se non due letti disposti agli antipodi e un grande buco rettangolare al centro, dal quale si possono scorgere i piani immediatamente superiori e inferiori.

Da quella vasta apertura ogni giorno arriva un pranzo pantagruelico e gourmet, disposto su una piattaforma che staziona solo per pochissimi minuti a ogni piano, obbligando i detenuti a ingozzarsi in gran fretta, prima di continuare la discesa ai livelli successivi. Progressivamente, la quantità di cibo diminuisce, soprattutto perché i prigionieri più in alto non si limitano a mangiare il necessario, ma fanno scempio della tavola imbandita, godendo all’idea di lasciare a bocca asciutta chi viene dopo di loro.

Questo comportamento aggressivo è privo di senso, perché la gerarchia tra chi sta sopra e chi sta sotto non è stabilita una volta per tutte. Ogni mese infatti i reclusi vengono spostati di livello, senza una ragione specifica. Lo stesso Goreng, dopo l’iniziale 47esimo piano, si risveglia una volta quasi alla sommità, poi oltre il duecentesimo piano, al quale si patisce una fame patibolare. Ciò, a rigor di logica, dovrebbe spingere alla cooperazione, dato che gli altri che faccio soffrire col mio spreco crudele il mese successivo potrebbero fare lo stesso con me, e dunque un’attitudine collaborativa sarebbe, pur solo per motivi utilitaristici, più efficace. Questa è esattamente l’idea che viene a Goreng, che prima provando con le buone, poi ricorrendo alle cattive, cerca di convincere i prigionieri a nutrirsi con parsimonia, per consentire a tutti di sopravvivere.

Il Buco è un horror ambizioso che mostra una umanità ridotta ai minimi termini della sua fisiologia, mangiare, defecare, dormire, in una situazione che invece di spingere alla mutua assistenza scatena le più oscure pulsioni. Un mondo da homo homini lupus, senza freni, in cui la gerarchia così icasticamente espressa dalla struttura verticale istiga comportamenti regressivi, che comprendono la violenza più efferata e il cannibalismo. Goreng all’inizio pare diverso, infatti è l’unico che, approfittando del permesso di portare un oggetto con sé nel carcere, sceglie un libro, il Don Chisciotte, mentre gli altri optano pragmaticamente per delle armi.

Anche la sua supposta dirittura però subisce i morsi della fame e dunque oscilla tra comportamenti altruistici e discese negli recessi selvaggi della sua anima, con conseguenti sensi di colpa e incubi che lo inseguono in quell’abisso verticale che, metaforicamente, rimanda anche alla stratificazione di un inconscio individuale e collettivo. Da buon cinefilo spagnolo, Galder Gatzelu-Urrutia dice che a ispirarlo è stato L’Angelo Sterminatore di Luis Buñuel. Non si tratta solo del riferimento abbastanza scontato allo spazio concentrazionario cui nessuno può sfuggire. C’è di più: la cucina da grand hotel nella quale vengono preparati i manicaretti più squisiti rimanda a un mondo altoborghese di civiltà idealizzata su cui Bunuel amava indirizzare i suoi strali satirici. Quel minuetto di messinscena delle buone maniere che è solo una patina dietro la quale, gratta gratta, si scatenano gli istinti più innominabili, proprio come accade ne Il Buco.

I limiti del film sono nella rigidità d’una allegoria didascalica ed esageratamente truculenta – il pessimismo con cui si guarda alla natura umana è chiaro, non c’è bisogno di sottolinearlo con tutto quel sangue –, incapace di trarre delle conclusioni stringenti – il fatto che il regista dica di avere girato tre finali non è un buon segno. Però è un racconto morale di bella cura formale, capace di inoculare nello spettatore una sensazione di angoscia autentica. E non nei momenti di violenza più effettistica, ma nella claustrofobia asfissiante di una messinscena geometrica e senza scampo.