L’Uomo Invisibile è un horror politico sintonizzato sull’era del MeToo

Per l’emergenza coronavirus esce direttamente in streaming su Chili questo aggiornamento del classico di H.G. Wells. Una pellicola di genere con ambizioni, che parla di stalking e violenza sulle donne. Brava Elisabeth Moss, più convincente del film

Uomo Invisibile

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L’Uomo Invisibile è il cinema “ai tempi del Coronavirus”, per usare una formula ormai diventata insopportabile. Nel senso che è uno dei film che alcune grandi case di produzione hanno deciso, per affrontare l’emergenza, di rendere disponibili in streaming saltando il passaggio in sala. La Universal, ad esempio, ha rilasciato film come L’uomo Invisibile su Chili, ed Emma. Non però il blockbuster Fast & Furious 9, che visti i costi ha bisogno della sala, e dunque è stato rimandato al 2021.

L’Uomo Invisibile, atteso in sala in Italia il 5 marzo, aveva fatto in tempo a uscire al cinema negli Stati Uniti e altri paesi a fine febbraio, con un ritorno interessante in termini di botteghino e di critica e un incasso globale da 124 milioni di dollari a fronte di un budget di 7 milioni. Fa parte di quel gruppo di film intorno ai quali la Universal voleva creare un Dark Universe sul modello della Marvel, cioè pellicole legate da una connessione narrativa interna, con al centro personaggi mostruosi che hanno fatto la storia della casa di produzione, in classici come Dracula, Frankestein, la Mummia, l’Uomo Lupo e, appunto, l’Uomo Invisibile. L’esito fallimentare dei primi progetti, Dracula Untold e la modestissima Mummia con Tom Cruise, ha modificato i piani, riportando a progetti autonomi senza collegamenti reciproci.

L’Uomo Invisibile è scritto e diretto da Leigh Whannell, il creatore della saga di Saw, e prodotto dalla Blumhouse di Jason Blum, la mente dietro serie horror come Paranormal Activity e anche Whiplash e Scappa – Get Out. Proprio quest’ultimo, diretto da Jordan Peele, un horror politico sull’odio razziale, è il riferimento più diretto per capire l’operazione sottesa a L’Uomo Invisibile. Il quale, rispetto alle precedenti versioni della storia, focalizzate sul personaggio maschile, ribalta la prospettiva. La protagonista è Cecilia (la sempre brava Elisabeth Moss), che abbandona nottetempo la bellissima villa sul mare in cui vive. È scappata per sottrarsi al controllo patologico e manipolatorio del suo compagno Adrian (Oliver Jackson-Cohen). Il quale dopo poco si suicida e Cecilia eredita il suo ingente patrimonio – il defunto era un imprenditore di successo nel settore delle tecnologie ottiche.

Tutto sembra risolto, ma Cecilia ha l’impressione di essere controllata da qualcuno, sin dentro la casa in cui si è stabilita. Le tracce di una “presenza” si moltiplicano, ma in assenza di qualunque evidenza, Cecilia viene presa per una donna troppo scossa in preda alle allucinazioni. La situazione degenera in una direzione sempre più drammatica e violenta della quale Cecilia, in mancanza di un colpevole, diventa agli occhi di tutti la vera responsabile.

L’Uomo Invisibile modella un racconto sul tema dello stalking. Le sequenze, per creare tensione, mostrano la donna ripresa come se qualcuno la stesse spiando, oppure la macchina da presa fa delle panoramiche inquadrando insistentemente porzioni di spazio vuote, il tutto sempre sottolineato da musiche elettroniche insinuanti. La grammatica visiva è quella di un thriller orrifico, che crea nello spettatore un’opprimente sensazione di angoscia. Che funziona fino a quando si mantiene in bilico tra i due generi.

Quando però, con un meccanismo da film fantascientifico, l’uomo invisibile da apparente paranoia si trasforma in realtà, il film mostra dei limiti di tenuta narrativa, diventando via via più effettistico. Non aiuta lo stile di recitazione: fatta salva la Moss, che da sola rende credibile un film che lo è fino a un certo punto, gli altri attori delineano personaggi che hanno sempre l’aria di star nascondendo qualcosa. Il senso di minaccia certo aumenta, ma l’espediente è grossolano.

Resta comunque, probabilmente è la ragione del successo che stava riscontrando il film, il retroterra sociale e politico de L’Uomo Invisibile. Che, nell’era post Me Too, è un racconto sull’insicurezza e l’angoscia che vivono le donne in una società maschilista. Il film descrive un contesto oppressivo, che è nello sguardo di ogni personaggio, nella metafora fin troppo evidente del lavoro di Adrian – un maniaco del controllo da manuale –, nel colloquio di lavoro in cui l’intervistatore si permette un’allusione sulla bellezza di Cecilia che, specialmente nella cultura americana molto più attenta della nostra a questi aspetti, è assolutamente inammissibile.

L’impressione però è che la denuncia finisca per rovesciarsi nel suo opposto. Questo perché la metafora dell’uomo invisibile invece di imputare le minacce a un singolo che ne è il responsabile, le trasforma in una sorta di pericolo metafisico, anonimo, non ascrivibile a nessuno. A questo sembrano alludere le inquadrature dall’alto col drone in cui, appunto, non c’è qualcuno che controlla e fa violenza a qualcun altro, ma c’è un occhio impersonale che tiene tutto sotto scacco, slegato dalla volontà e la responsabilità dei singoli. Alto aspetto che crea perplessità è il finale – non lo sveliamo –, che guarda alla violenza come unica soluzione possibile. Però, se è questo il tenore del sottotesto “politico” de L’Uomo Invisibile, siamo dalle parti di un revenge movie formalmente ben strutturato, ma alquanto regressivo.