D’accordo: Invictus – L’Invicibile (2009), rispetto all’asciuttezza canonica del cinema di Clint Eastwood, ha un tono più magniloquente del solito. Ma provateci a fare un film senza un minimo di enfasi sulla vita di Nelson Mandela. Cioè dell’uomo condannato come oppositore delle politiche di segregazione razziale del Sudafrica che, dopo 27 anni di detenzione, venne eletto presidente del paese che l’aveva incarcerato ingiustamente. Governandolo, quel paese, mosso da un lungimirante progetto politico che puntava sulla pacificazione tra bianchi e neri. Insomma, se c’è una figura grazie alla quale parole abusate come “leadership” e “ispirazione” assumono un significato, quella è Mandela. Clint Eastwood lo sa e si assume il rischio della retorica intrinseca a una vicenda del genere.
Invictus racconta una porzione limitata della vita di Mandela quando, eletto presidente nel 1994, affronta gli enormi problemi di un paese screditato sul piano internazionale e attraversato da lancinanti conflitti interni. Un paese letteralmente diviso in due, come Clint Eastwood mostra subito in una sequenza icastica, che ritrae una strada che separa due mondi agli antipodi. Da un lato i ragazzi bianchi che giocano a rugby su un prato erboso con le loro casacche immacolate, dall’altro i neri poveri che danno calci a una palla su un campo brullo e polveroso, indossando delle misere magliette.
Su quella strada, passa l’automobile su cui viaggia il finalmente libero Mandela, che sa appunto, di stare esattamente nel mezzo, tra due realtà rispetto alle quali deve trovare una strategia di riconciliazione. I mondiali di rugby del 1995 ospitati dal Sudafrica, prima vetrina per un paese in cerca di identità e credibilità, costituiscono ai suoi occhi l’occasione giusta. Per mostrare alla platea internazionale un’immagine diversa, e per richiamare i cittadini, neri e bianchi, a un senso di rinnovata unità.
Invictus racconta un processo di “nation building”. E a chi pensa che l’interesse di Mandela (e del film) per lo sport, vista l’emergenza politica ed economica del Sudafrica, sia fuori luogo, bisogna ricordare che la costruzione dell’identità passa sempre attraverso elementi simbolici. E anche il mantenimento del nome della nazionale di rugby, gli “Springboks” e dei colori verde-oro delle casacche comunicano quell’idea di continuità nella discontinuità che per Mandela è la via maestra che conduce alla pacificazione.
Ama Il Tuo Nemico, infatti, s’intitola il romanzo di John Carlin da cui è tratto Invictus, fortemente voluto da Morgan Freeman – che il film l’ha voluto e coprodotto –, il quale naturalmente interpreta Mandela. Il suo contraltare è François Pienaar (Matt Damon), il capitano degli Springboks che intuisce l’ambizioso disegno politico di Mandela e lo sposa in pieno, trasmettendolo ai compagni di squadra.
Giocoforza, il Mandela di Freeman, pur ricco di umanità, finisce per essere vagamente marmoreo. La sceneggiatura di Anthony Peckham procede con un passo didattico, che esplicita i moventi alla base delle scelte del presidente. Che quindi si esprime per sentenze troppo esplicite: “Il passato è il passato”; “Il perdono libera l’anima e rimuove la paura, per questo è un’arma così potente; “il popolo si sbaglia e come loro leader il mio compito è farglielo capire”; “Non è il tempo della vendetta meschina, è il tempo di costruire la nostra nazione, utilizzando ogni singolo mattone disponibile”.
Fino alla nobile magniloquenza della poesia vittoriana di William Ernest Henley che dà il titolo al film, che Mandela rileggeva in carcere per trarne la forza per non arrendersi: “Non importa quanto stretta sia il passaggio, / Quanto piena di castighi la vita, / Io sono il padrone del mio destino: / Io sono il capitano della mia anima”.
Clint Eastwood però asciuga la retorica attraverso i personaggi secondari. Mandela dice che “quando la gente mi vede in pubblico vede le mie guardie del corpo, voi mi rappresentate direttamente”. Perciò sceglie una compagine mista composta da persone di sua fiducia, nere, e bianchi che avevano fatto parte delle odiose forze speciali del regime dell’apartheid. Il lento processo di avvicinamento tra i due gruppi, fatto di gesti d’intesa progressivi e non eclatanti, riesce a raccontare la grande storia del mutamento di paradigma nazionale attraverso una microstoria di vita quotidiana.
In questo senso il contenuto “ideologico” di Invictus si esprime compiutamente nel capitolo conclusivo, la finale tra Nuova Zelanda e Sudafrica. Le sequenze della partita sono febbrili, con un montaggio che interpola al match spezzoni che riuniscono l’intero paese nella medesima sequenza, baraccopoli, locali, case, associazioni dove tutti, ma proprio tutti, stanno guardando in tv la partita. Al centro della quale campeggia l’immagine di irripetibile potenza comunicativa e simbolica di Mandela, che entra sul campo di gioco indossando la casacca e il cappellino verdi degli Springboks. La squadra fino a pochi anni prima odiata dalla comunità di colore e diventata il simbolo della rinascita grazie a un’operazione di propaganda politica che trae la sua forza dall’autorevolezza del leader che la incarna.