I brani di Little Steven ci riportano a un’epoca in cui ci illudevamo di poter cambiare il mondo con le canzoni

In questo periodo di clausura, ho più tempo per riascoltare i brani che ascoltavo tanto in passato


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Ci ho pensato, lo confesso. Ho pensato di giocarmi uno dei capitoli di questo diario, diario che decameronianamente parlando pensavo di giocarmi così, al volo, con dieci novelle scritte in dieci giorni, e che invece è già arrivato alla trentatreesima puntata, con la soglia delle cento novelle boccaccesche neanche troppo ipotetiche, ormai, ecco, io ho pensato di giocarmi uno dei capitolo di questo diario decameroniano giocando la carta della poesia, del minimalismo, dell’haiku. Intendiamoci, non sono un poeta, mai stato neanche lontanamente un poeta, e il minimalismo mi è sempre stato estraneo, seppur io abbia adorato Raymond Carver, seppur io abbia letto il manuale di scrittura di John Gardner, più per volontà di Massimo Canalini, editore di Transeuropa presso il quale ho passato pomeriggi e pomeriggi verso la metà degli anni Novanta, quando l’idea di essere uno scrittore stava facendosi largo in me, e badate bene che ho detto essere, non diventare o fare, esperienza umanamente e antropologicamente interessante, l’aver frequentato la casa editrice diventata famosa e centrale per qualche anno per le raccolte di Pier Vittorio Tondelli Under 25, inutile star qui a citare i tanti nomi da lì usciti, basti sapere che è grazie o per colpa di quelle antologie che in Italia esistono gli scrittori giovani, e volendo anche gli scrittori pop, la sto davvero tagliando con l’accetta, casa editrice diventata famosa e centrale per qualche anno per aver scoperto un talento cristallino come Silvia Ballestra, quanto ho amato la saga degli Antò, per dire, e che strana sensazione essermi ritrovato dentro le pagine del romanzo Amiche mie, ambientato nella scuola dei nostri figli, io e lei divenuti amici una volta arrivato a Milano, i figli a frequentare, in classi e anni diversi i medesimi asili e le medesime scuole, anche in questi giorni anomali ci sentiamo al telefono, cercando di combattere malinconie e malumori, vicini geograficamente ma isolati, casa editrice diventata famosa e centrale per qualche anno per aver soprattutto dato alle stampe il best e long seller Jack Frusciante è Uscito dal Gruppo di Enrico Brizzi, libro generazionale e transgenerazionale che ha in qualche modo aperto un varco nell’editoria italiana, da quel momento attenta a quel che succedeva nelle camerette, non più solo negli studi,  esperienza umanamente e antropologicamente interessante, l’aver frequentato la casa editrice Transeuropa, credo del tutto inutile da un punto di vista formativo, parlo della mia formazione di scrittore, dal momento che Massimo Canalini aveva un’idea di editor, la figura che sta alla letteratura come quella del produttore stava, uso il passato, ai dischi, piuttosto dispotica e patrigna, mentre io con gli editor ci sono sempre andato poco d’accordo, uno stile, il mio, vi ci sarete abituati, piuttosto personale, difficilmente manipolabile da parte di qualcun altro, tutto sorretto su un concatenarsi di parole che, nonostante quel che dica il mio amico e collega Gianni Biondillo, lungi da me riproporre la gag verbale di qualche giorno fa, è quasi impossibile fermare o spostare, il rischio che tutto crolli lì, sotto gli occhi di tutti, non sono un poeta, quindi, e mai stato neanche lontanamente un poeta, e il minimalismo mi è sempre stato estraneo, ma avrei tanto voluto un capitolo di questo diario così, con poche parole, poche righe, una poesia, un haiku, una frase fulminante. Del resto sono uno scrittore, e sono uno scrittore, l’ho raccontato tante volte, che ha mosso i suoi primi passi professionali, cioè i primi passi riconosciuti come passi professionali in quanto pagati, e lo so che per molti la scrittura è solo arte, come la musica, ma a distinguere chi scrive da uno scrittore, mi hanno sempre insegnato i miei padri putativi, parlo di padri putativi letterari, cioè Nanni Balestrini, la mia levatrice, colui che ha preso il me stesso che provava a mettere giù qualche parola nel tentativo naif di imitarlo e ne ha fatto un autore, Ferruccio Parazzoli, l’Obi Wan Kenobi della editoria, colui che ha preso il me stesso alla ricerca di uno stile mio e, coi suoi consigli e anche i suo sproni, ha lasciato il me stesso imbrigliato nella mimesi nella vasta prateria dell’autorialità, e per altro, lo dico così, en passant, che per i motivi per cui avrei voluto iniziare questo trentatreesimo capitolo, in realtà, in questi ultimi giorni ho anche smesso di leggere, vi consiglio, a Coronavirus archiviato, cioè spero prestissimo, di leggere Happy Hour, il suo nuovo e recentissimo romanzo, Parazzoli per la cronaca è del 1935 e continua a scrivere compulsivamente, libro dopo libro in maniera sempre più lucida, un po’ anche grazie a me e Giuseppe Genna, diciamolo, che con lui abbiamo scritto il libro Demoni, edito da PeQuod, costola di quella Transeuropa canaliniana che vede alla guida da sempre mio fratello Marco col suo socio Antonio Rizzo, ora venite a tacciarmi di nepotismo o favoritismi nei confronti di mio fratello se ne avete il coraggio, libro, Demoni, che voleva essere una cover nostra, di Parazzoli, di Giuseppe Genna, a mio avviso il più importante scrittore della mia generazione, e mio, dei Demoni dostojevskiani, libro avant-pop di quando l’avant-pop ancora esisteva, debordante, bulimico, postmoderno di quando ancora dire postmoderno si poteva senza essere tacciati di volersi nascondere dalla realtà, come fosse un’onta per uno scrittore, per altro, libro che vedeva, sempre così, en passant, tra i protagonisti quel Dante Virgili, autore di cui poi sempre mio fratello avrebbe ripubblicato le due opere La distruzione e Metodo della Sopravvivenza, il primo con prefazione di Roberto Saviano, e che sarebbe finito, Dante Virgili ma anche il nostro Demoni, dentro la biografia di Antonio Franchini, all’epoca ancora direttore editoriale di Mondadori, dove anche Parazzoli ha a lunghissimo lavorato, Cronache della fine, e in quello di Alessandro Zaccuri, anche qui in compagnia del nostro Demoni, Milano la città di nessuno, libro, Demoni, che nel suo essere cover postmoderna dei Demoni dostojevskiani ha in qualche modo scoperchiato il vaso di pandora parazzoliano, da quel momento autore completamente impazzito, e lo si legga con la assoluta stima per chi, in arte, è pazzo, autore, Parazzoli, di decine di romanzi, da lì in poi, la sua parte de I Demoni dentro una trilogia dedicata alla piazza che in qualche modo lui, Parazzoli, ritiene il cuore nero di Milano, Piazzale Loreto, piazza intorno alla quale non solo si muovono buona parte dei suoi libri, ma anche lui stesso, cuore nero di Milano in questi giorni di contagio semideserta, lo dico perché è anche la porzione di Milano intorno alla quale mi muovo io, da che Milano è diventata la mia città, oggi città ferita se non agonizzante, città al centro del suo ultimo romanzo, uscito di recentissimo, a gennaio, Happy Hour, storia di una pandemia che ci costringe tutti dentro casa, i tutti che sopravvivono. Per altro, I Demoni, il libro scritto a sei mani da Parazzoli, Genna e me, anno del Signore 2003, lo abbiamo scritto nel 2002, ritrovandoci ciclicamente a casa di Parazzoli, io e Genna intimoriti nel frequentare colui che, Genna aveva lavorato in Mondadori prima di me, lasciandomi la sua scrivania nel momento in cui se ne era andato, per altro in maniera piuttosto spettacolare, lui che aveva lavorato alla start-up del sito della casa editrice di Segrate, col suo computer, da quel momento mio computer, dentro il quale si aprivano a ciclo continuo pop-up porno, pop-up porno ben visibili da chi passava per il corridoio del quarto piano del palazzo ideato da Oscar Nimayer, visto che lo schermo del computer era rivolto verso il corridoio, con grande imbarazzo iniziale mio, lì a provare a chiudere l’inchiudibile, modo suo di protestare per una mancata contrattualizzazione, ma questi sono cazzi suoi, immagino, io e Giuseppe lì, intimoriti nel frequentare colui che, in Mondadori, era il solo a dare del lei a tutti, in un ambiente in cui ci si dava del tu anche coi massimi dirigenti, intimoriti anche per questo suo infervorarsi per scrivere I Demoni, usando espressioni come “dobbiamo abbattere l’elefante per far nascere la tigre”, frasi che io e Giuseppe, parlo arbitrariamente anche per lui, non abbiamo mai capito esattamente cosa volessero dire, libro che abbiamo deciso di chiudere un giorno di aprile, io e lui in Piazzale Loreto, di fronte a dove oggi si trova un grande magazzino cinese, immagino chiuso, pronti a salire per l’ennesimo incontro autoriale, alle nostre spalle la via che porta alla stazione, di fronte la piazza, il cuore nero di Milano, quella in cui hanno impiccato la salma pestata di Mussolini e Claretta Petacci, quando un aereo di piccole dimensioni si è infilato nel Pirellone, ben visibile proprio dall’angolatura che il guardare la stazione permette, un fatto, quello dell’aereo che si è infilato nel Pirellone, era il 2002, che per tutti è stato al momento un nuovo attentato di Osama Bin Laden, l’11 settembre ferita ancora aperta e sanguinante, io col pensiero subito a mia figlia, a poche centinaia di metri da lì, con la baby sitter, e a mia moglie Marina, in realtà decisamente più lontana, a Segrate, io e lui, io e Giuseppe, che saliamo basiti e terrorizzati gli otto piani di casa Parazzoli, in ascensore, interrogandoci sul senso di scrivere un libro sul male mentre un aereo entra nel Pirellone, con lui, Parazzoli, che ci accoglie con un “i fatti sono compiuti” che, giuro, mi risuona ancora sinistro nelle orecchie, io e Giuseppe che poi siamo tornati a scrivere insieme qualche anno dopo, Costantino e l’Impero, biografia non autorizzata di Costantino Vitagliano, il prototronista di Maria De Filippi, in realtà libro che parlava della deriva berlusconiana, di Lele Mora, delle Olgettine, del Se non ora quando molto prima del Se non ora quando, tutto questo molto prima che venisse decifrato dai media, questo fanno gli scrittori, hanno visioni, intercettano prima quel che succede, come ha fatto del resto Ferruccio Parazzoli col suo Happy Hour, non un libro profetico, come non era profetico Contagion di Soderbergh, sia messo a gli atti, semmai visionario. Per altro, io e Giuseppe Genna, nello scrivere e pubblicare un libro sul tronista per antonomasia, pensavamo di fare opera meritoria, ma venimmo inizialmente attaccati duramente dalla critica, che ci accusava di aver venduto il culo al capitale, anche la nostra idea di lanciare il tutto attraverso interviste a Gente e Eva3000 vennero fraintese, per noi gesto pop e dadaista, per i letterati gesto commerciale, il tutto mentre anche l’editore, Marco Tropea, col quale avevo pubblicato anche la mia prima biografia di Vasco Rossi, titolo Vasco chi?, libro di grandissimo successo che mi avrebbe indotto e permesso nei dieci anni successivi di campare solo scrivendo libri, fatto piuttosto raro in una nazione di analfabeti non solo funzionali, il tutto mentre anche l’editore, Marco Tropea in qualche modo esternava un certo malessere per il nostro essere stati troppo alti rispetto a un pubblico mainstream e di non lettori, gli spettatori di Uomini e Donne di Maria De Filippi, che nella sua testa dovevano correre in libreria a comprare il libro. Insomma, un libro che scontentava tutti. La nostra unica presentazione, per altro, l’abbiamo fatta a Voghera, presso l’Ipermercato, e online la trovate col titolo “Fate parte dell’ambaradan”. Una scelta, quella, che ben si iscriveva nel nostro voler essere postmoderni, Voghera era la città che Alberto Arbasino aveva eletto a emblema di una certa medietà, le sue zie divenute le “casalinghe di Voghera”, e beh, l’Ipermercato non credo abbia bisogno di didascalie, Alberto Arbasino che proprio in questi giorni anomali, lui che ha raccontato una certa Italia come nessun altro, se ne è andato, non per Coronavirus, va detto. Alberto Arbasino che insieme a Nanni Balestrini e Edoardo Sanguineti ha fondato il Gruppo 63, Gruppo in qualche modo fondante per il mio iniziare a essere uno scrittore, visto che è grazie all’esperienza di Ricercare, Laboratorio di scrittura da Nanni Balestrini voluto e con la partecipazione di Edoardo Sanguineti come oratore, io sono stato decifrato come scrittore dal sistema letterario, intendendo con questo critici, editori e scrittori stessi, Edoardo Sanguineti che, di Costantino e l’Impero, scrisse una bellissima recensione, alta, dicendo che anche Gramsci, oggi, avrebbe scritto delle Lecciso, usando la moglie di Al Bano e sua sorella come altro emblema di un contesto pop, forse trash, ineludibile per chi volesse provare a decrittare la contemporaneità e anche a affrontarla con le giuste armi, libro, questo, per altro, che ha definitivamente contribuito a non farmi più decrittare come scrittore dal sistema, almeno in ambito di critica e dei colleghi, perché editori e librai, bacioni, eccome se mi hanno decrittato bene.

Insomma, avevo pensato di giocarmi uno dei capitoli di questo diario, diario che decameronianamente parlando pensavo di giocarmi così, al volo, con dieci novelle scritte in dieci giorni, e che invece è già arrivato alla trentatreesima puntata, con la soglia delle cento novelle boccaccesche neanche troppo ipotetiche, ormai, ecco, io ho pensato di giocarmi uno dei capitolo di questo diario decameroniano giocando la carta della poesia, del minimalismo, dell’haiku, e invece mi sono ritrovato a parlare del mio essere scrittore in un tourbillon di passaggi per me focali, per voi, immagino, prescindibili e inutili, come lo potrebbero essere il mio citare altri nomi, e quanti ce ne sono, e altri aneddoti, in venticinque anni che scrivo, tanti ne sono passati, sai quanti ne ho da raccontarvi. Il fatto è che, al trentatreesimo giorno di clausura, con la città spettrale, complice un meteo un po’ ostile, con i continui attacchi di terrorismo comunicativo da parte di chi ci guida, sempre lì a puntare il dito contro di noi, giocando sia sui nostri sensi di colpa, non siamo ligi, non rispettiamo le regole, e chi se ne frega se sono regole ambigue scritte col culo, siamo untori irresponsabili o involontari, sensi di colpa che vanno a braccetto con il bastone usato in assenza di carota, le sanzioni che si inaspriscono, le restrizioni che si moltiplicano, le autocertificazioni che escono a cadenza quotidiana, lo spauracchio delle serrate, lo spauracchissimo di una blindatura infinita, luglio, agosto, settembre, e chi se ne frega se di rassicurare i medesimi che prendono sensi di colpe e mazzate, impauriti per i numeri catastrofici come per la situazione economica che ci attenderà una volta che tutto questo sarà finito, di quello chi ci guida sembra essersi totalmente dimenticato, buffoni, il fatto è che, al trentatreesimo giorno di clausura, con la città spettrale, complice un meteo un po’ ostile, con i continui attacchi di terrorismo comunicativo da parte di chi ci guida, sempre lì a puntare il dito contro di noi, giocando sia sui nostri sensi di colpa e sul bastone usato senza carota, di scrivere un po’ mi è passata la voglia. Intendiamo, lo faccio, come ogni giorno provo a metterci la faccia e la voce con questo programma estemporaneo che va in onda dal mio divano e dal divano degli artisti che ci mettono la faccia con me, ma è più un esercizio di stile, una pratica zen, una sorta di mission che si fa tutti i giorni più impossible. Perché, appunto, la fine di questa storia è incerta, e soprattutto è incerta la data di scadenza di questa storia. Non leggo più, ma so che poi passerà, e non ascolto neanche più tanta musica, giusto quella del passato, perché lì trovo il conforto di ricordarmi quando ero giovane, spensierato, sempre che io da giovane abbia passato anche un solo giorno spensierato, quantomeno innocente.

Guardo un po’ la televisione, contravvenendo alla massima, “Io non guardo la televisione, la faccio”, soprattutto serie. Per questo ho finalmente, si fa per dire, deciso di fare abbonamento anche a Neflix, che ora sta lì, a fianco a Amazon Prime Tv e Sky. In questi giorni, per dire, mi sto guardando tutta la serie Lilyhammer, che mi ha consigliato il mio amico fraterno Brando. È una serie ambientata in un paesino della Norvegia, quello che dà il titolo alla serie, e ruota intorno a un boss della mafia americana costretto a stare sotto falso nome dal momento in cui ha fatto incastrare un altro boss, lì isolato e lontanissimo da casa. Il protagonista è un gigantesco Steven Van Zandt, una cofana di capelli improbabili e nerissimi, la totale assenza di collo, delle facce che da sole reggerebbero tutta la serie. Intorno un paesaggio bianchissimo, allucinante, selvaggio. Steven Van Zandt, per i pochi che non lo sapessero, è il Little Steven della E-Street Band, chitarrista bandana-munito (mi guarderò dal citare la bandana di David Foster Wallace, anche se magari potrei citare quella volta in cui, fresco di pubblicazione del mio secondo romanzo, aironfric, il primo per la neonata collana Strade Blu di Mondadori, pubblicazione figlia proprio di un placet di Ferruccio Parazzoli, già l’ho raccontato più volte, arrivata dopo che Stefano Benni mi aveva chiamato, mentre ero in fila alle poste, in mano la raccomandata con cui sancivo la fine dei miei rapporti professionali con il mio primo agente letterario, incapace ai miei occhi di trovarmi uno straccio di contratto editoriale, fatto in effetti dimostrato anche da quella telefonata di Stefano Benni, non arrivata in seguito al lavoro della agente letteraria in questione, ma per iniziativa spontanea del romanziere Valerio Evangelisti, e mi guarderò dal citare la bandana di David Foster Wallace, anche se magari potrei citare quella volta in cui, fresco di pubblicazione del mio secondo romanzo, aironfric, il primo per la neonata collana Strade Blu di Mondadori, contattato da Donna Moderna per un’intervista, una delle mie prime interviste da scrittore, poi ci avrei anche scritto da critico musicale, su Donna Moderna, ma anni dopo, ecco, mi guarderò dal citare la bandana di David Foster Wallace, anche se magari potrei citare quella volta in cui, fresco di pubblicazione del mio secondo romanzo, aironfric, il primo per la neonata collana Strade Blu di Mondadori,  contattato da Donna Moderna per un’intervista, una delle mie prime interviste da scrittore, alla richiesta di mandare una foto, una foto digitale, mandai loro una foto con bandana, del tutto identica a quella molto famosa di David Foster Wallace, di tre quarti, lo sguardo rivolto verso il basso, citazione evidentemente non colta, dal momento che la pubblicarono tagliando la parte della bandana, e stringendo il primo piano al volto, a quel punto il volto di uno scemo che guarda per terra) che da sempre si muove al fianco di Bruce Springsteen, Bruce Springsteen per altro che compare in un cameo nella serie. Proprio il vedere questa serie, vedi tu come gira la testa in questi giorni anomali, mi ha spinto a andarmi a risentire le vecchie hit che Little Steven ha inciso in un passato passato, quando ancora neanche stavo con Marina, figuriamoci se avrei mai potuto pensare che un giorno, oltre trent’anni dopo, sarei stato murato vivo per oltre un mese con la ragazza che già mi aveva fatto perdere la testa, era il 1987, noi ci saremmo messi insieme all’inizio del 1988, con quattro figli che ogni giorno trovano modo di sopravvivere, sbroccando, giocando, divertendosi, facendone di ogni, per dire stanotte Lucia si è disperata perché lo schermo del suo Samsung si è tinto di viola, parlo dello schermo, lasciandola temo per sempre, e voi capite bene cosa possa voler dire per una diciottenne in quarantena non avere lo smartphone, non parlo certo delle telelezioni, eh, salve professori, e sia benedetto Amazon, che almeno tiene alto il morale delle truppe con consegne sprint nonostante i tempi anomali che stiamo vivendo, e i brani di Little Steven che sono andato ripescare sono essenzialmente due, i suoi più noti, Bitter Fruit, del 1987, appunto, poi divenuta una delle cover più brutte della storia della musica mondiale, Prendilo tu questo Frutto Amaro di Antonello Venditti, e Sun City, brano corale scritto e interpretato per denunciare la piaga dell’Apartheid, al suo fianco un fottio di artisti, da Afrika Bambaataa a Bob Dylan, bassando per Bono, Bob Geldof, nel mentre attivo con USA for Africa, Springsteen, George Clinton, Joey Ramone, Kurtis Blow, Lou Reed, Miles Davis, Peter Gabriel, i Run DMC e tanti altri. Due brani che oggi suonano datatissimi, nonostante la chitarra gitana dello stesso Steven, un po’ come suonano datati i video, ma che almeno hanno il vantaggio di riportarci a un’epoca in ci illudevamo di poter cambiare il mondo con le canzoni. Credo proprio che oggi indosserò tutto il giorno una bandana, male non farà, gli haiku, semmai, ve li scrivo un’altra volta.