Charlize Theron e la porta delle percezioni

La percezione non sempre è uguale alla realtà: spesso il nostro cervello provvede a riempire gli spazi vuoti, avvicinandosi alla realtà per approssimazione

Frame by Spot Martini


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È provato scientificamente che l’occhio umano non sia in grado di vedere esattamente tutto quello che ci si pone di fronte. Nel senso, non abbiamo una gopro attaccata alla fronte, questo gli scienziati lo hanno spiegato un po’ meglio di me, lo so, ma sono al trentesimo giorno di clausura e sto scrivendo in tuta da ginnastica e ciabatte, cosa volete mai pretendere?, quindi riusciamo a inquadrare una porzione consistente di quello che ci si para di fronte, poi il nostro cervello provvede a riempire gli spazi vuoti, avvicinandosi alla realtà per approssimazione. Come se fosse un puzzle di cui mancano alcune tessere, ma di cui si riesce a capire l’immagine. Vediamo un quadro incompleto, ma ce lo immaginiamo completo, finito, e provvediamo di nostro a finirlo. Beato cervello.

Per dire, non sono così convinto che in effetti lì, nell’angolo a sinistra dello studio dal quale vi scrivo ci sia in effetti Charlize Theron versione vecchio spot del Martini, che si allontana mostrandomi il culo, ma mi fido del mio vecchio e caro cervello e acquisisco l’immagine per buona. Parecchio buona.

No, non va bene.

Sto provando a dissimulare ironia, leggerezza, spensieratezza. Ho pure buttato lì una battuta a rischio sessismo, tanto in tempo di contagio le maglie dei censori dei social sembrano allentate, volevo provare a buttarla sull’erotismo, ma non va bene.

Giorni fa vi ho parlato della rabbia.

La mia, nello specifico, prendendo me, come faccio sempre, come esempio di quel che suppongo succeda, in modalità e tempistiche differenti, un po’ a tutti quelli che si trovano a vivere in questa assurda condizione di incertezza e clausura.

Oggi, e per oggi intendo da oggi, temo, si passa a una rabbia diversa. Cinquanta sfumature di rabbia, avrei potuto dire se avessi voluto continuare a giocare con Charlize Theron e quella faccenda dell’eros.

Ma, ripeto, non è aria.

Siamo guidati da dei cialtroni, questo il tema che vorrei affrontare oggi, e essendo guidati da cialtroni l’incertezza che ci attanaglia si fa giorno dopo giorno più stringente, la disperazione prova azione di sfondamento, l’incertezza diventa routine. Ci stiamo abituando, sì, questo pure è un tema che andrebbe affrontato, a essere gestiti da chi sta affrontando parte della questione come fossimo dentro un format televisivo, mica per nulla c’è di mezzo Rocco Casalino. Questi discorsi imbarazzanti fatti a tarda serata, sui social, poi, in cui non si dice nulla, ci si chiede massima responsabilità a fronte di nessuna indicazione certa (le corse vicino casa, i cantieri chiusi quando in teoria dovevano già essere chiusi da una settimana, le attività non necessarie chiuse, tipo quelle relative alla caccia e pesca), ci si chiede di essere forti quando è evidente che siamo di fronte a una operazione di marketing riuscita anche piuttosto male. Come cazzo si fa a fare discorsi riguardo Decreti legge del premier, che bypassano quindi il parlamento, così, su Facebook, senza un minimo di ufficialità? Su Facebook, Dio santo, con le dirette come un influencer.

Mi si dirà, me lo state dicendo da giorni sui social, sempre lì, che nessuno oggi vorrebbe trovarsi al posto del nostro premier, in parte correo di questa situazione insieme al governatore della regione nella quale vivo, Fontana, di alcuni sindaci, penso a Sala e Gori. Probabilmente è vero. Io non vorrei trovarmici. Infatti non mi ci trovo.

Però, parlo per casa mia, la vedo così, e ve la voglio raccontare, questo è lo scopo di questi miei scritti, poi giuro che torno a parlare di figa e la chiudiamo qui.

Sto in casa con quattro figli che stanno vivendo tutto questo in maniere differenti. La più grande Lucia, è ovviamente quella che per certi versi la vive peggio. Diciotto anni, cavoli, a quell’età pensi di poter ribaltare il mondo, ti senti immortale, hai voglia di fare cose, di vedere gente, di vivere. Invece sta a casa da un mese, chiusa prevalentemente in camera sua, la versione light del mondo, immagino.

Vi racconto questa, perché penso che in tutti i casi l’ironia, checché ne dicesse David Foster Wallace, continua a essere utile. Sin da quando è nata, parlo del 2001, mi sono chiesto come sarebbe stato quando un giorno avrebbe provato a portare a casa un fidanzato. Da piccolissima, anzi, sin da piccolissima, le facevo vedere il famoso, almeno per me, discorso di Mario Brega a Carlo Verdone in Borotalco, quello erroneamente indicato come il discorso delle “olive greche”, ma che in realtà dice cosa assai più ficcanti. Discorso, per chi non lo conoscesse, e voglia Dio che non esista nessuno che non lo conosce, che inizia con “se non so troppo indiscreto, se po’ sape’ che caaaazzzo voi da mi’ fija?”. Un discorso, si sarà già capito, che verte su come un padre si prenda cura della propria figlia, anche quando è già abbastanza grande da fare le sue scelte, tipo fidanzarsi, è infatti al fidanzato della figlia che si rivolge.

Glielo facevo vedere, lei piccolissima, e glielo ripetevo a voce, ho a barba grigia, la pancia (ora meno perché sono dimagrito), un accento che rende bene nel fare il romanesco, lo stesso affanno nell’alzare la voce quando mi incazzo. Il sottotesto, neanche troppo sotto, era chiuso tutto nel finale, cioè quando Mario Brega, suocero di Verdone, dopo aver descritto una rissa avuta con tue tizi in via Vittorio Veneto, a Roma, dove era a passeggio con la figlia, per una parolina che non gli era piaciuta, rissa che lo aveva visto colpito per primo, ma anche vittorioso nel finale, quel “è caduto giù come un Cristo… il sangue a ettolitri” credo sia una delle pagine fondamentali della storia del cinema mondiale, ecco, il sottotesto, neanche troppo sotto, era chiuso tutto nel finale, in quel “ricordate, è mi’ fija”. Una minaccia esemplare, da manuale. Volevo passarle, e credo di esserci abbastanza riuscito, una non troppo malcelata gelosia a prescindere, mista a quella disistima che in genere si prova nei confronti di chi, sempre a prescindere, si ritiene indegno di varcare la porta di casa. Come dire, quando e se porterai il tuo fidanzato a casa, ricordati che lo tratterò così, se non so’ troppo indiscreto, se po’ sape’ che caaazzzzo voi da mi’ fija?

Ora, mia figlia l’altra sera, tre settimane e passa che non vede il suo fidanzatino, e si legga in quell’ino finale una sorta di vezzeggiativo atto a sminuirne il carattere, certo, come quando mia madre chiamava gli innamoramenti adolescenziali “infatuazioni”, ma anche un modo, il solo che conosco, per attribuire affetto, a breve capirete così, mia figlia l’altra sera, tre settimane e passa che non vede il suo fidanzatino, ha fatto un dopocena romantico con lui. Hanno visto insieme un film, vestendosi in maniera elegante, come se dovessero uscire, andare a cena fuori, andare poi al cinema, hanno fatto il countdown facendo partire, ognuno nei propri tablet, il film, e lo hanno commentato insieme, a distanza.

So che se mai dovesse leggere queste righe si incazzerebbe, minaccerebbe di denunciarmi per violazione della privacy, anche in virtù del fatto che, lo sa e lo so perché ce lo hanno detto, buona parte dei suoi professori mi legge, anche i dirigenti scolastici, ma è una storia bella, e credo che in questo momento di devastazione e macerie, prima che io stesso passi a devastare e crearne altre, un po’ di bellezza sia necessaria.

Mia figlia, complice le videochiamate di whatsapp, ha passato un sabato sera romantico col suo fidanzatino, vestiti eleganti, le candele accese, coca-cola e patatine, ognuno nella sua stanza, a guardare un film, lo stesso film. Si è pure truccata, per l’occasione.

Per pudore non lo ha detto a me, noi di sabato di solito guardiamo un film insieme in famiglia, dopo aver mangiato la pizza fatta in casa, e ovviamente abbiamo proseguito con questa abitudine proprio per non creare spavento ulteriore, per lo stesso motivo per cui non stiamo in pigiama in casa, per cui fingiamo una normalità che ahinoi non c’è più da tempo, anche se da tempo lei il sabato non è con noi, esce appunto con fidanzatino e amici.

Lo ha detto a mia moglie, che col solito pudore che riserva amorevolmente ai figli, pudore misto a senso di protezione, con quel filtro per le cose che non devo sapere, me lo ha riferito.

In genere, questo lo dico sempre per finire il quadro che vi sto palesando di fronte, mi dice le cose sempre quando stanno già succedendo, tipo “Lucia non torna a cena”, detto a ora di cena, o quando ormai non sono modificabili, “domani viene da noi X”, dopo che l’invito è già avvenuto.

Stavolta me l’ha detto con lo sguardo tenero di chi si sente inerme di fronte a qualcosa di più grande, perché è qualcosa di più grande quella che stiamo tutti fronteggiando, sapendo che mi avrebbe tagliato il cuore come un panetto di burro lasciato per qualche minuto sul fuoco.  L’effetto è stato quello, lo ammetto, saperla di là, sentivo le risatine, l’odore della cera delle candele che passava sotto la porta, mi ha commosso, in una serata, parlo di sabato, perché questo diario ovviamente tiene conto anche del fatto che il tempo, qui in casa, si è in qualche modo fermato, e pezzetti di racconto restano imbrigliati per ore, prima di risaltare fuori, in cui si è toccato prima il picco di morti, e poi sono arrivate le serrate di Fontana, prima, e di Conte, poi. Serrate tardive, in entrambi i casi, ma era altro quel che vi stavo dicendo.

Vi dicevo di come in casa mia, è questa la situazione che mi sto trovando a guidare io, al momento, i quattro figli la stanno vivendo in maniera differente, complici le differenti età. Lucia, diciotto anni, la vive peggio, ma come vi ho appena raccontato sta trovando suo malgrado una sua forma di sopravvivenza, Tommaso, quattordici anni, vagamente terrorizzato dal mondo là fuori, in generale, non uscirebbe oggi neanche se gli puntassi contro una pistola, anzi, credo auspichi una apertura delle scuole nel 2022, perché come un Borrelli mignon, è colui che in casa si premura costantemente di tenere aggiornati i numeri di contagi e decessi, ci legge stralci di studi fatti in Uzbekistan, studia e parla coi suoi amici su whatsapp esattamente come Lucia, ma senza palesare i malesseri di chi vorrebbe essere altrove. I gemelli, Francesco e Chiara, otto anni, apparentemente la vivono meglio di tutti. Sanno che stiamo vivendo un’emergenza, non potrebbe essere altrimenti, ma hanno una percezione della morte da bambini, nessuno dei loro cari è mai morto da che sono in vita, quindi provano a adeguarsi a quel che facciamo trapelare loro. Sono piccoli, quindi si adattano più velocemente, anche se, immagino, non sarà mica una cosa che non lascerà segni su di loro. Non escono ormai da un mese e mezzo, quasi, perché prima della clausura erano rimasti a casa per una influenza che ha decimato le scuole milanesi, vai a capire se era anche quella Coronavirus, ma tengono botta. Ogni tanto fanno videochiamate a quattro con gli amici, studiano, giocano, vivono come possono e come fortunatamente lo stare in famiglia permette loro. Io e mia moglie abbiamo deciso di provare a non fermare le solite abitudini, ci si sveglia sempre alla stessa ora, abbiamo cura di noi, del nostro aspetto, ovviamente più lei del suo che io del mio, abbiamo i soliti menu settimanali, nel senso che le abitudini di fare il sabato la pizza, la domenica un primo particolarmente sfizioso con un dolce, sono tutte lì, inalterate.

Ce lo autoimpioniamo, perché è nostra responsabilità mantenere la calma e rendere la loro vita la più serena possibile. Chiaro, qui a turno tutti sbroccano e tutti sbrocchiamo, ma noi adulti cerchiamo di farlo il meno possibile davanti agli altri, perché ci lasciassimo andare a una legittima disperazione, per le incertezze di cui sopra, per le altrettanto preoccupanti incertezze economiche che questa situazione si porterà con sé, lungi da me star qui a recriminare il fatto il decreto Cura Italia si sia scordato di una fetta consistente di professionisti nei quali rientro, ecco, ci disperiamo in privato, e siccome ci amiamo e ci amiamo da una fetta della nostra vita più grande di quella nella quale non ci siamo amati, non ci disperiamo neanche l’uno davanti all’altro, per non crollare. Loro, i figli, oltre che litigare selvaggiamente, quasi tutti i giorni, si lasciano andare anche a grandi gesti di affetto, tra loro. Anche i più grandi che da tempo avevano adottato un atteggiamento da finti adulti, distaccati. Siamo tutti in questa casa, o questa barca, e proviamo a starci il meglio che possiamo.

Giorni fa, chattando con un mio amico che vive blindato nel cuore dei focolai, a Treviglio, mi diceva che con la moglie e le tre figlie, mentre intorno è un continuo via vai di ambulanze e di camion militari pieni di casse da morto, si sono autoimposti, sempre quel verbo, di creare una loro versione de La Vita è Bella. C’è la distruzione, intorno, ma noi proviamo a sorridere e far finta di nulla, raccontarla come un gioco. Mi ritrovo in questa descrizione, seppur io viva a Milano, dove la situazione è molto grave, ma non come a Treviglio. Devo tenere botta, uso una espressione un po’ sciocca che traggo dal ligabuesimo, e lo devo prima a loro, i miei figli e mia moglie, e poi a me. Nessuno me li ha imposti, i figli e il mio ruolo di padre, ma sono un padre e devo tenere un comportamento responsabile.

Di qui la rabbia da cui sono partito (no, lo so, ero partito dal culo di Charlize Theron, che è ancora lì, in un angolo della stanza che la mia retina non riesce a registrare come dovrebbe). Dalla constatazione, poco amichevole, che mentre io da ormai trenta giorni mi sforzo di mantenere la barra dritta, facendo il mio, sia professionalmente che soprattutto a casa, chi mi guida barcolla, è indeciso, in balia del proprio narcisismo più che di una preparazione e competenza che a questo punto sarebbe stata non utile, ma necessaria. Chi mi dice che nessuno, oggi, vorrebbe essere al posto di Conte, ma ci metto, ripeto, anche Sala, Fontana, Gori, dice il vero. Io non vorrei essere al loro posto. Non ho le competenze, la preparazione, la struttura mentale. Infatti io scrivo libri. Loro sono lì e si dimostrano inadeguati. Solo che se io scrivo male, al massimo, non mi pubblicano. Se loro agiscono male, e stanno agendo male, è evidente, pensate a Conte che fa il grosso e riapre le scuole nelle Marche, ripeto, condannando a morte la mia terra, o pensate a Fontana che non chiude le fabbriche del bergamasco e del bresciano, la gente muore, e muore male.

La rabbia, quella rossa che sale alla testa, si sta impossessando di me, manco fossi il protagonista della canzone sanremese di Anastasio (Dio mio, Sanremo, Anastasio, chi se li ricorda più…). Il mio istinto anarchico mi spingerebbe a chiamare la rivolta, fatto che al momento è praticabile solo in remoto, qui e sui social, senza scendere in piazza, dove propagherebbe il contagio.

Lo faccio, a volte, alternando momenti di leggerezza, che altro mi avrebbe spinto altrimenti a mettere in piedi un programma tv casalingo in tempo di contagio, a momenti di malinconia, con tutte le sfumature del caso.

I miei, ottantatré anni mio padre Learco, ottantadue mia madre Angela, mi leggono, e mi dicono, a volte, che li faccio commuovere con quello che scrivo. Me lo dicono a distanza, col pudore che immagino il dirselo a distanza concede. Io, quello con un lavoro difficile da raccontare a chi ti chiede che lavoro fa tuo figlio, quello che scrive le parolacce, che dice le parolacce in radio, quello che “vedrai che quando inizierai a lavorare ti dovrai tagliare i capelli”, salvo poi fare un lavoro in cui avere i capelli lunghi non solo rientra nelle possibilità, ma in qualche modo contribuisce a rendere la mia faccia riconoscibile quanto la mia penna, io oggi faccio commuovere i miei genitori anziani, a quattrocenventisei chilometri da casa mia, questo mi dice Google Maps, che Vodafone mi offre gratuitamente in questi giorni in una promozione che si chiama #Iorestoacasa, pensa che presa per il culo.

Li commuovo e al tempo stesso provo a rendere normale per i miei figli la anormalità nella quale viviamo. Ma dentro sto diventando una sorta di Guy Fawkes pronto a far saltare in aria Westminster, non so se solo metaforicamente.

Poi passa, è ovvio.

O meglio, poi passa, spero.

Poi torno a dire cazzate, parlare di canzoni, ve le ricordate le canzoni, sì?, di Bugo e Morgan, del culo di Charlize Theron, ma oggi non ce la faccio proprio. Oggi  avrei tanta voglia di risposte, che purtroppo non ho da parte dei miei contemporanei.

È provato scientificamente che l’occhio umano non sia in grado di vedere esattamente tutto quello che ci si pone di fronte. Nel senso, non abbiamo una gopro attaccata alla fronte, questo gli scienziati lo hanno spiegato un po’ meglio di me, lo so, ma sono al trentesimo giorno di clausura e sto scrivendo in tuta da ginnastica e ciabatte, cosa volete mai pretendere?, quindi riusciamo a inquadrare una porzione consistente di quello che ci si para di fronte, poi il nostro cervello provvede a riempire gli spazi vuoti, avvicinandosi alla realtà per approssimazione. Come se fosse un puzzle di cui mancano alcune tessere, ma di cui si riesce a capire l’immagine. Vediamo un quadro incompleto, ma ce lo immaginiamo completo, finito, e provvediamo di nostro a finirlo. Beato cervello.

Per dire, non sono così convinto che in effetti lì, nell’angolo a sinistra dello studio dal quale vi scrivo ci sia in effetti Charlize Theron versione vecchio spot del Martini, che si allontana mostrandomi il culo, ma mi fido del mio vecchio e caro cervello e acquisisco l’immagine per buona. Credo sia tutta una questione di percezioni e di porte delle percezioni, come quelle descritte da Aldous Huxley in un omonimo libro che ha poi ispirato Jim Morrison nel momento in cui ha dovuto scegliere il nome per la sua band, The Doors, le porte, appunto. Aldous Huxley, dalla cui morte Sheryl Crow, chi si ricorda più di Sheryl Crow oggi?, ha preso ispirazione per la sua megahit Run Bay Run, citato proprio in esergo del brano, quando dice “lei è nata nel novembre del 1963, quando Aldous Huxley è morto”, è uno di quegli autori che in questi giorni sto rileggendo, lo dico non solo e non tanto per sottolineare come io sia un intellettualone, che di questi tempi oscuri essere intellettualoni non è che porti chissà quali vantaggi, ma perché credo che andare a cercare risposte nelle visioni di chi ci ha preceduto, appunto, possa essere magari non la soluzione ai nostri mali, ma almeno un buon conforto.

Huxley, non dimentichiamolo, è l’autore del Mondo nuovo e L’isola, testi dai quali potremmo attingere indicazioni sul futuro prossimo, oltre che sul passato che ci sta traghettando verso quel futuro prossimo, andatevelo a ripescare, poi ne parliamo, ma è anche colui che ha vissuto una intera vita cercando un riconoscimento da parte della comunità letteraria, avete presente quanto detto giorni fa su Limonov, che è faticata a arrivare, trovando nei libri l’aiuto che non è riuscito a trovare nei colleghi e nei lettori. Al punto che proprio la distruzione della sua biblioteca, avvenuta nel giugno di quel 1963 cantato dalla Crow, a causa di un incendio, ne minò definitivamente la psiche. Al punto che chiese e ottenne, il 22 novembre del 1963, di ricevere da sua moglie una iniezione letale di LSD, il corpo già minato incapace di reagire non supportato dalla mente. Lo stesso giorno, e qui sarebbe da aprire una vera tesi di laurea sul perché proprio alla morte di Huxley Sheryl Crow abbia deciso di fare riferimento in Run Baby Run, morirà anche John Fitzgerald Kennedy, ucciso a Dallas nei modi che tutti conosciamo, non per mano di chi, va detto. Poi, ovvio, arriveranno i Doors, Sheryl Crow, Stravinskij con le sue Variazioni Aldous Huxley in memoriam, ma poi, quando sarà già morto e sepolto.

Anche Sheryl Crow, come Charlize Theron, un po’ meno di Charlize Theron, forse, è una gran bella donna. Al momento la vedo lì, in un angolo dello studio, di fianco a Charlize che sculetta allontanandosi, le maglie del vestito impigliate in una sedia, lasciando che si scopra il culo. Lei, Sheryl, suona la chitarra, seduta su una sedia, le gambe a cavalcioni del bracciolo, scalza. Vedi che giochi fa a volte un cervello sotto stress.

Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Man mano che che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio, per farsi coraggio si ripete: “Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene.” Il problema non è la caduta.