The Post, il film di Spielberg con Tom Hanks e Meryl Streep è un trascinante ritratto del quarto potere

Su Rai Tre alle 21.20 la storia vera dei Pentagon Papers, clamoroso scoop dei primi anni Settanta. È l’eterna storia dello scontro tra potere politico e giornalismo cane da guardia. Un film vibrante ed emozionate. Ma più che un monito all’oggi sembra un nostalgico “come eravamo”

The Post

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The Post di Steven Spielberg racconta uno dei casi più spinosi della storia del giornalismo, i Pentagon Papers. Che erano un minuzioso studio che l’allora segretario di Stato Robert McNamara aveva commissionato nel 1967 per analizzare, durante la guerra in Vietnam, i rapporti intercorsi tra quel paese e gli Stati Uniti e le strategie americane nel Sud-est asiatico dal 1945 in poi. L’intero corso della politica estera Usa insomma, da Truman e Eisenhower fino a Kennedy, Johnson e il presidente in carica Nixon. La ricerca rivelava come tutti i governi avessero sottostimato i rischi del conflitto e sottaciuto all’opinione pubblica e al Congresso le reali dimensioni dell’intervento americano, continuando a mandare giovani soldati in Vietnam, pur consapevoli di non avere alcuna possibilità di vittoria.

Lo scandalo esplose, qui comincia la storia di The Post, quando Daniel Ellsberg, uno degli autori della ricerca, decise di renderla pubblica, fornendone stralci al New York Times, che cominciò a pubblicarla nel 1971. Nixon ottenne un’ingiunzione della Corte federale, che intimava al giornale di cessare le pubblicazioni per ragioni di sicurezza nazionale. A quel punto il Washington Post diretto da Ben Bradlee (Tom Hanks) viene in possesso dei Pentagon Papers, intenzionato a pubblicarli.

La decisione è sottoposta al vaglio di Katharine Graham (Meryl Streep), diventata proprietaria della testata dopo il suicidio del marito, unica donna senza esperienza in un consiglio d’amministrazione tutto al maschile. E c’è un altro elemento sul piatto della bilancia: il Washington Post ha deciso di quotarsi in borsa, lanciando un’offerta pubblica di acquisto per attrarre investitori privati. Chi scommetterebbe su una testata accusata di attentare alla sicurezza del paese?

The Post è un film girato magnificamente, con un impianto narrativo classico e un tema prediletto dalla tradizione liberal del cinema americano. Spielberg aggiunge al canonico braccio di ferro tra potere politico e giornalismo cane da guardia altri due fattori problematici. L’economia, ago della bilancia che mette alla prova le talvolta altisonanti dichiarazioni dei difensori della libertà di stampa e del Primo Emendamento, riportandole ai termini brutali della sostenibilità finanziaria – se non c’è chi investe nel giornale, la suddetta libertà resta un guscio vuoto. E poi c’è la questione di genere in una società che, al tempo, riteneva le donne poco più che angeli del focolare, inadatte a ricoprire cariche direttive come quella di Katharine Graham, che la Streep interpreta sottolineando sia le sue incertezze che la forza tranquilla.

The Post, scritto da Liz Hannah e Josh Singer (già sceneggiatore di Spotlight) restituisce uno scenario complesso che riporta le petizioni di principio sull’intangibilità della libera informazione sul terreno della realtà, rammentando quanto costino il buon giornalismo e i suoi connessi doveri verso l’opinione pubblica. Sono argomenti che risuonano pesantemente sul nostro tempo, ora che la rete ha rivoluzionato i modelli di business e costretto le testate a misurarsi con le difficoltà relative al reperimento di quelle risorse senza le quali è impossibile tenere in piedi le macchine redazionali e garantire standard qualitativi accettabili.

Ma quanto la storia raccontata da The Post può davvero funzionare come monito per la contemporaneità? Tom Hanks offre un ritratto empatico e a tutto tondo del direttore Ben Bradlee. Nel mezzo del confitto tra stampa e politica sottolinea che “se viviamo in un mondo in cui il governo può dirci cosa possiamo o non possiamo pubblicare, allora il Washington Post ha già cessato di esistere”. Ribadendo più volte come “l’unico modo per proteggere il diritto di pubblicare è pubblicare”. 

Spielberg però racconta una vicenda ormai lontana nel tempo: il suo messaggio rivolto all’opinione pubblica di oggi – “attenzione, potrebbe o sta accadendo di nuovo”, con prevedibile sovrapposizione tra Nixon e Trump – sembra fuori tempo massimo, perché tutto ciò che doveva succedere è già successo e quel giornalismo non esiste più, perché mancano le condizioni strutturali, finanziarie, forse persino culturali per sostenerlo.

Così The Post più che una chiamata all’impegno civile, suona quale nostalgico “come eravamo”, dedicato a un’epoca migliore della nostra. E lo dimostrano le smaglianti sequenze nelle quali si passa dai corridoi della redazione – pieni di giornalisti che scrivono e correttori di bozze che ricontrollano ogni parola – al cuore pulsante della tipografia al piano inferiore, con le linotype che sputano righe di piombo e quello sferragliare delle rotative che fanno tremare tutto, come un benigno terremoto che annuncia rumorosamente una verità che niente e nessuno potrà fermare.

I veri Katharine Graham e Ben Bradlee nel 1971

L’ottimismo del lieto fine del film di Spielberg è l’ottimismo non dell’oggi, ma quello di uno sguardo proiettato sul passato. Nell’impianto The Post rimanda a Tutti Gli Uomini Del Presidente, che raccontava lo stesso giornale e lo stesso direttore impegnati a scoperchiare lo scandalo successivo del Watergate. Quel film però non aveva nulla di trionfalistico. Quando uscì, nel 1976, in contemporanea con i fatti narrati, portava su di sé il tragico peso di quell’epoca. E allora, sebbene raccontasse una fulgida pagina di giornalismo, era attraversato da una profonda disillusione, percepibile anche stilisticamente, con quelle trame annegate nell’ombra e un’amarezza di fondo che rispecchiava quella che si respirava nel paese.

The Post può invece accucciarsi all’ombra tonificante del passato. La distanza temporale filtra le memorie, le addolcisce e incarta in una nostalgia più rassicurante. Il dramma in qualche modo evapora e della vicenda si selezionano solo i ricordi migliori, talvolta lacunosi o storicamente inesatti. Come quel leader di un gruppo di pacifisti che rivolge ai suoi accoliti le parole del celebre discorso sugli uomini ridotti a ingranaggi che Mario Savio, però, pronunciò all’università di Berkeley nel 1964, sette anni prima.

La verità storica, però, è una questione complessa e non può essere addomesticata a piacimento. Dovrebbe saperlo proprio The Post, che a un certo punto offre una metafora potente del giornalismo, quando mostra i redattori lavorare febbrilmente alle settemila pagine di documenti che giungono loro senza numerazione, per ricostruirne la sequenza corretta. Il significato dei fatti, insomma, non è trasparente, ma è il frutto di un processo di ricostruzione e interpretazione demandati alla professionalità e al senso di responsabilità del giornalista. Peccato che Spielberg, in questo magniloquente peana al quarto potere, non abbia fatto fino in fondo propria la lezione più importante del giornalismo, che è, come ricorda Katharine Graham citando le parole del marito Phil, “la prima bozza della storia”.