È morto Edvard, in realtà Edicka, metteteli voi gli accenti giusti, se ne siete capaci, Limonov. È morto qualche giorno fa, ma ci ho messo un attimo a metabolizzare la cosa. Del resto è un periodo in cui la morte sembra essere diventata più quotidiana, comune, un po’ per tutti noi, anche se, come mi auguro e vi auguro, non riguarda direttamente qualcuno di strettamente vicino a noi, per cui anche l’idea di parlare di un morto mi ha fatto pensare, come se ne avessi più pudore o, più semplicemente, lo ritenessi argomento out, da non affrontare, da cui rifuggire.
Però sono passati alcuni giorni, e credo sia il caso di fare almeno una menzione d’onore, perché per me, Limonov, è qualcosa di più del protagonista dello strepitoso libro di Emanuel Carrère, come è stato presentato in buona parte dei coccodrilli che mi è capitato di leggere. Cioè, intendiamoci, è anche quello e il libro di Carrère è in effetti un gran bel libro, come lo era anche quello dedicato a Philip K. Dick, ma come nel caso dell’autore di Ubik, dire che fosse stato il protagonista del libro di Carrère avrebbe coinciso col raccontarne una minima parte, nel caso di Limonov definirlo come il protagonista di una biografia è una specie di assurdità tutta italiana.
Limonov è stato uno scrittore e agitatore culturale, un politico, un delinquente, un terrorista, un soldato al soldo dei serbi, un marchettaro, insomma, un iconoclasta russo. Uno che ha vissuto molto, e spesso male, stando ai canoni del buon senso occidentale, cattolico e forse più in generale umano. Uno che ha continuamente provato a sfondare le barriere del buon senso, del politicamente corretto, flirtando a lungo con l’estrema sinistra per poi iniziare a flirtare con l’estrema destra, pagando per questo con anni passati in prigione, poi diventati oggetto di suoi scritti, spesso meno interessanti del suo vissuto, i suoi scritti, ma in tutti i casi interessanti perché impregnati del suo vissuto, di tutte quelle esperienze al limite che ha deciso non solo di raccontare, ma prima ancora di vivere, facendo di se stesso una sorta di piede di porco con cui spaccare i chiavistelli della percezione, andando a ridefinirne continuamente i perimetri. Pensate a una sorta di D’Annunzio alla perenne ricerca di un riconoscimento che gli verrà però attribuito solo senza continuità, un artista capace di gesti eclatanti, non fosse già abbastanza eclatante tornare in Russia sulla spinta, anche economica, degli intellettuali della sinistra francese giusto in tempo per fondare un partito naxional-boscevico, tanto per rinnegare i propri sostenitori e andare a flirtare con chi lo aveva sempre visto come poco più di uno zero, un poeta, come ci teneva a farsi dire a inizio carriera, che ha sfornato in carriera oltre settanta libri, quasi tutti di narrativa, spesso autobiografici, autecelebrativi, nichilisti, pure, perché questa era altra componente del suo scrivere compulsivamente, dal quartiere parigino o newyorchese in cui è vissuto come dal carcere di massima sicurezza russo dove ha passato due anni, talmente maledetto da essere presto inviso a chi quel appellativo glielo aveva dato con simpatia, come un tributo.
Un autore la cui vita, si dice in questi casi, è stata un’opera d’arte, ma un’opera d’arte disturbante, come certe statue dei fratelli Jake e Dinos Champan, uno le guarda e si sente a disagio, molto a disagio, pur non potendo smettere di guardarle, e riguardarle, anche con la coda dell’occhio, mentre se ne va indignato.
A andarsene, però, è stato lui, Limonov, e lo ha fatto nel momento in cui il mondo, quel mondo che avrebbe voluto ai suoi piedi, plaudente, è un po’ tutto distratto dal Coronavirus, anche quella Russia di Putin che al momento sembra essere abbastanza lontana dai nostri numeri, parlo di contagi e morti, vedi a essere uno stato forte, quasi dittatoriale, avrebbe detto lui.
Una morte inutile, quindi, quella di Limonov, stando ai suoi canoni, incapace di quell’ultimo guizzo che spesso la vita gli ha negato, se non per periodi alterni, come le targhe con cui si poteva guidare in certe domeniche degli anni Settanta. Aveva settantasette anni, e era malato di tumore, malattia per certi versi letterari, ma non degna, probabilmente, di una morte epica, come magari sarebbe potuta essere un duello all’alba, un attacco terroristico o qualcosa capace di finire nelle pagine di cronaca nera.
Esattamente nel momento in cui la notizia della morte di Limonov è arrivata a interrompere il flusso continuo di notizie riguardo il Coronavirus, flusso che è fatto di meri numeri, tutte le sere presentati dal capo della protezione civile Borrelli, ma anche di proclami, si pensi a quelli filonazisti che continuano a fare Fontana e Gallera, di notizie tragiche, quasi tutte quelle che vengono da Bergamo e dintorni, ma anche buone, di solidarietà, di speranza, di ottimismo, forse malriposto, allo a sapere, ma comunque ottimismo, esattamente nel momento in cui la notizia della morte di Limonov è arrivata a interrompere il flusso continuo di notizie riguardo il Coronavirus, ecco che ne è arrivata un’altra, anch’essa inaspettata, ma un po’ meno inaspettata, dal mio punto di vista temuta, cosa che non posso dire della morte di Limonov, non perché non mi sia dispiaciuto di Limonov, tutt’altro, mi ha molto colpito la morte di questo ambiguo iconoclasta, per ragioni che implicitamente vi ho già spiegato, non credo che sia necessario aggiungere altro, non perché non mi sia dispiaciuto di Limonov, tutt’altro, ma perché non sapevo che stesse male, né avevo calcolato avesse già settantasette anni, e la notizia cui faccio riferimento, inaspettata ma temuta è l’uscita di House of Zef, l’ultimo album dei sudafricani Die Antwoord, dove per ultimo si intende proprio ultimo, definitivo, senza possibilità di un seguito, addio, bye bye.
Una fine, in sostanza, certo meno radicale di una morte, perché le scelte personali possono sempre essere oggetto di ripensamenti, ma comunque una fine, un lutto, a suo modo, almeno per quanti come me adorano la band i Ninja e Yo-Landi Visser, con l’ausilio di DJ Hi-Tek, sempre che non fosse il ragazzo nano, affetto da progeria andrebbe detto, che appariva nei primi video e che poi è morto, ricordato con immagini accompagnate da orchestrazioni melodrammatiche all’inizio dei loro concerti.
Ora, siamo al ventottesimo giorno di clausura, addì ventidue marzo, entrambe le notizie, Limonov e Die Antowoord, sono del diciassette marzo, avrei potuto serenamente darvele prima, ma non ero abbastanza sereno per darvele, fidatevi, siamo al ventottesimo giorno di clausura, ci potrebbe anche stare che, nella pesantezza e difficoltà di vivere in clausura, tanto più di vivere in clausura mentre fuori è esplosa la primavera, non solo calendario alla mano, ma proprio con gli alberi e le piante che fioriscono, gli uccelli che cinguettano sui rami, il caldo che si fa sentire, con le ragazze che si affacciano ai balconi in canottiera, e del resto solo al balcone si possono affacciare, immagine, questa, che in altra epoca avrebbe comportato magari una partita di giro di ormoni, ma oggi è registrata giusto come una pulsione di vita, figuriamoci se entrano in ballo gli ormoni, siamo tutti reclusi da ventotto giorni, le case che diventano il solo mondo che possiamo frequentare, fatte le ormai ambite eccezioni di quando si va a fare la spesa, ambite fino a un certo punto, perché le sortite all’esterno sono sempre più pesanti, l’ostilità negli occhi degli altri, la diffidenza, i delatori che ti guardano da dietro le finestre, ti fotografano, anche, mettendoti sui social, probabile, siamo al ventottesimo giorno di clausura, le dinamiche familiari che si cristallizzano, in alcuni casi, temo, si imputridiscono, fortunatamente non nel mio caso, ci si abitua all’insolito, insolito che diventa routine, ci facciamo andare bene tutto, lasciando solo piccoli spazi agli sfoghi, che siano di malinconia come di rabbia, questi ultimi spesso rivolti all’esterno, a chi ci guida, incapace di guidarci come dovrebbe, al destino che ci ha regalato questo inizio anno da incubo, a chi pensiamo possa avere colpe, a rotazione i giovani della movida, i vecchi menefreghisti, i runner, stocazzo, siamo ventottesimo giorno di clausura, sono fuso, sono lucido come non mai, sono allucinato come non mai, ma nonostante io adori forzare la forma dello storytelling, parola che per altro mi ha sempre fatto profondamente cagare, andando a creare parabole narrative spesso inspiegabili, almeno finché non si è in grado di vedersele compiute tutte lì sulla pagina, la pagina online, novanta volte su cento, recentemente, stavolta non vi sto raccontando della morte di Limonov, scrittore iconoclasta e disturbante russo, e dell’uscita di The Zef House, ultimo album della band sudafricana Die Antwoord, arrivati all’ultimo e definitivo capitolo della loro decennale storia, decennale saga, vorrei dire se avessi ancora un briciolo di epicità nel mio carniere, Limonov e Die Antwoord, lì, uno dopo l’altro, così, giocando sul labile pensiero che una morte e la fine di una carriera siano accomunabili, sarei piuttosto superficiale a farlo oggi, che la morte è diventata, nostro malgrado, così familiare e quotidiana per ognuno di noi, fosse anche solo attraverso le notizie che ci bombardano da tutte le parti.
No, non è di questo che vi sto parlando oggi, ventottesimo giorno di clausura. O meglio, parto da qui, da una notizia arrivata in contemporanea, una definitivamente brutta, la morte di Limonov, brutta perché una morte è una morte, e brutta perché una morte sopraggiunta per complicazioni in seguito a un intervento oncologico è assolutamente poco affine alla vita di Limonov stesso, uno che ha fatto del vivere sul lato sbagliato della strada, fatemi citare Lou Reed, la parte fondante della sua disturbante poetica, una momentaneamente brutta, perché la fine della storia musicale dei Die Antwoord, inteso come gruppo, perché immagino che Ninjia e Yo-Landi Visser, probabile anche DJ Hi-Tek, sempre che non sia in effetti il nano morto, ma chi se ne frega, diciamocelo apertamente, proseguiranno da solisti, magari continuando a collaborare tra loro in altra forma, credo che stiano insieme anche nella vita privata, ecco, la fine musicale dei Die Antwoord, anche loro disturbanti, surreali, sopra le righe, politicamente scorretti, incredibilmente vivi e vividi, iconoclasti come pochi altri fenomeni musicali negli ultimi anni, forse nell’ultimo decennio, perché è vero che Lady Gaga è Lady Gaga, ma loro sono i Die Antwoord, cazzo, quelli col rapper ipertatuato con i boxer che mostra il cazzo mentre sta sul palco, coi testi infarciti di slang sudafricano, l’afrikaans, e un’attitudine da ghetto, lo zef citato nel titolo, appunto, e la cantante mingherlina e supersexy che canta con al voce da bambina piccola, mentre fa vedere il culo o le tette dal palco, a volte anche la figa, altro che Tove Lo o Halsey, quelli che quando Lady Gaga, appunto, li ha invitati a aprire il suo Born This Way Ball tour l’hanno mandata a cagare, salvo poi prenderla per il culo nel video di Fatty Boom Boom, quelli che si presentano come l’incarnazione del male, pensate alla Yo-Landi che campeggia nella copertina di TenSion, o al Ninja che nel video di Ugly Boy, un video pazzesco, con ospiti pazzeschi e tutti assolutamente disturbanti, da Jack Black in versione mafiosa a Marilyn Manson, passando per una conturbante Dita Von Teese o per Aphex Twin, Cara Delivigne e Flea, al Ninja di Ugly Boy che si fa prendere a pugni in faccia, sanguinando copiosamente in giro per il set, parto da una notizia definitivamente brutta, la morte di Limonov, e da una notizia momentaneamente brutta, la fine musicale dei Die Antwoord, per provare a affrontare oggi, ventottesimo giorno di clausura, il tema della fine, e anche dell’essere disturbanti.
Perché se, in maniera decisamente meno violenta, e col culo al caldo a casa, ho provato a fare dell’essere disturbanti, iconoclasti, politicamente scorretti, sempre e comunque personali la mia poetica, anche guardando a Limonov, pagando quel che c’era da pagare in termini di collaborazioni, certo, ma senza finire nel penale e sempre inseguendo una mia ben precisa etica, è evidente che è ai Die Antwoord che mi viene da guardare con più sintonia, non fosse perché operano nel settore della musica, perché sono underground ma pop al tempo stesso, e pur essendo io uno scrittore come Limonov, al momento mi sembra più stringente identificarmi tra i vivi, come Ninjia e Yo-Landi, DJ Hi-Tek non si è capito.
Salutato quindi con una prece Limonov, passo quindi ai Die Antwoord, che onestamente in questo nuovo lavoro, seppur regalandoci alcune perle degne di nota, come la conclusiva No 1, unico brano il cui titolo non è in maiuscolo nella tracklist, qualcosa che sarebbe potuta uscire dalla penna di Neil Tennant, per intendersi, seppur regalandoci alcune perle degne di nota e del loro nome, lo confesso, mostrano un poco la corda, come di chi è stanco e si incammina nel pak, in attesa di passare a un livello successivo.
Addio e grazie per il pesce, verrebbe da dire, la risposta giusta è 42.
Ma ho altro da raccontare, portate pazienza.
Perché io i Die Antwoord li ho visti dal vivo all’Arena di Milano, nel giugno del 2014 (giuro che nello scrivere, inizialmente, ho scritto 1914, sarà quest’atmosfera da guerra che ci circonda). Ci sono andato con il mio amico fraterno e collega Gianni Biondillo. Per intendersi, lo stesso giorno c’erano i Pearl Jam nel vicino Stadio Meazza, a San Siro, suddividendo per certi versi categoricamente la fauna della zona tra rockettari, quelli lì, alla Scala del calcio, e mutanti psichedelici, quelli tutto intorno a noi. La musica, a volte, serve anche a questo, credo, a raggruppare i simili, temo anche a dividere i non simili. Io e Gianni, ovviamente, eravamo assolutamente fuoriposto, almeno da un punto di vista meramente estetico e anagrafico, vecchi, vestiti normali, fatto per altro discutibile, perché in genere, quando ci muoviamo nei nostri ambienti di riferimento, credo nessuno pensi che noi siamo vestiti normali, avendo un gusto estetico e un’attenzione ai capi di vestiario che indossiamo paragonabile a quella che prestiamo, entrambi, a coltivare le amicizie giuste, a frequentare i salotti giusti, insomma, siamo belli ma non curati, eleganti dentro più che fuori. Sempre per dire, credo che in tutta l’area dell’Arena di Milano io e lui fossimo i soli due senza avere lenti a contatto di quelle che ti fanno sembrare gli occhi come quelli degli alieni di X Files, o senza orecchie a punta, probabilmente anche i soli due a bere birra e non bevande energizzanti.
Vi racconto questo, senza neanche addentrarmi in troppi dettagli, ne ho scritto già ai tempi, uno dei miei primi articoli dopo aver ripreso a scrivere di musica passata la decina di anni di pausa che mi ero legittimamente preso, vi racconto questo perché quella serata, dettaglio che nell’articolo uscito nel 2014 avevo ovviamente omesso, è stata un di quelle serate in cui il concetto di fine mi si è palesato in maniera piuttosto chiaro in mente, senza neanche fare giri troppo lunghi. Usciti dal concerto, per la cronaca strepitoso, uno dei più belli di sempre nei miei cinquant’anni di vita, considerate anche che all’epoca ne avevo quarantacinque, di anni, e non ne frequentavo così tanti di concerti come nei successivi sei anni, tornato di lì a pochi giorni a scrivere di musica per giornale, mi è infatti arrivata una telefonata di mia moglie Marina che mi comunicava il suo essere al pronto soccorso della più famosa clinica pediatrica di Milano, con uno dei nostri quattro figli, non credo che specificarvi quale e per quale motivo sia motivo di interesse.
Non mi aveva chiamato prima, Marina, perché quello era per me, per noi, un periodo difficile, il lavoro non mi girava benissimo, la nuova collaborazione giornalistica era di là da arrivare, le uscite che mi concedevo con gli amici erano forse più rare dei lavori che entravano, e non voleva privarmi di una piccola gioia.
Il motivo per cui era lì, però, si sarebbe rivelato più serio di quanto poteva non sembrare, il fatto che ci fosse andata con uno dei nostri quattro figli su invito dell’ospedale stesso che aveva da poco ricevuto i risultati di delle analisi può però darvi l’idea dell’allarme che l’aveva colta, e di quanto il non chiamarmi per farmi godere la serata dimostri, ce ne fosse bisogno, non solo l’amore nei miei confronti, ma anche che donna che è.
Vi posso solo dire che quell’incubo, così è giusto chiamarlo, è finito solo recentemente, parlo di settimane fa, ma che nella mia testa il rumore di fondo di quell’incubo è comunque legato a doppio filo alle canzoni disturbanti dei Die Antwoord. Fatto che non ha portato a una mia idiosincrasia nei loro confronti, tutt’altro, ma piuttosto a un identificare in un determinato gruppo e nelle sue canzoni la perfetta colonna sonora degli attimi, fortunatamente attimi, non lunghi momenti, della mia vita nei quali lo stigmatizzare il pericolo e il senso di fine imminente si fa impellente, necessario. Ascolto una qualsiasi delle loro canzoni, e come succede con tutta l’arte che si pone lo scopo di disturbare chi ne fruisce, non di consolarlo, ecco che mi ritrovo a espellere le tossine, cacciarle lontane da me, come se pogassi scatenato, ancora ventenne, al Rockade, locale nei pressi di Osimo nel quale, in effetti, ventenne, pogavo scatenato per espellere tossine mentali che temevo mi avrebbero affossato. L’arte ha anche questo scopo, lo credo fortemente, aprire ferite che ci ricordino che siamo vivi, stigmatizzare il male e il brutto, per lasciare che il bene e il bello splendano altrove, in un altrove dove si svolge la nostra vita di tutti i giorni.
Colonna sonora perfetta di questi tempi, per me, quindi i Die Antwoord, col loro rap sghembo, paranoico, asfittico, sarcastico, storto, milioni di parole in afrikaans, incomprensibili, miste a parole in inglese, dette con accenti forse ancora più incomprensibili, appoggiate su ritmi electro, a volte quasi techno, estremamente attuali, da finirci sotto in apnea.
Sapere che non ci saranno più loro album, oggi, mi appare come una brutta notizia, quindi, ma forse anche come il segno che di momenti da stigmatizzare, incorniciare come incarnazione del male e del pericolo, di una fine imminente, non ce ne saranno più, a voi stabilire se perché presso passeranno o perché non ci sarà un domani.
Io propendo per la prima ipotesi, ovviamente, e mentre lo dico sto qui a ballare sulle note di House of zef, canzone eponima di questo album. Vorrei andare a spararla dalle casse sul balcone, ma temo verrei frainteso, specie se come Nijia decidessi di farlo calandomi i boxer a beneficio di chi provasse a guardare nella mia direzione. Mi limito quindi a ballarla solitaria, con boxer calati e faccia incarognita annessa, immaginatemi qui che ballo da solo, come una Liv Tyler un filo meno sexy e più sovrappeso. La terra ti sia lieve Eduard, che la musica dei Die Antwoord ti accompagni in questo nuovo disturbante viaggio e che accompagni noi fuori da questo incredibile incubo collettivo.