Quando, ormai venticinque giorni fa, ho buttato lì, così en passant, l’idea di tenervi compagnia con una sorta di novelle boccaccesche, decameroniane, avevo appunto in mente quel riferimento lì, il Decameron. Non perché pensassi di mettermi davvero a scrivere cento novelle in dieci giorni, quella è la finzione che Boccaccio ha usato per venderci la sua strepitosa opera, ma per dirvi che vi avrei accompagnato con una novella al giorno, come uno dei protagonisti del Decameron, anche io, come loro, recluso in isolamento con la sola consolazione del poter raccontare.
Raccontare e raccontare tutti i giorni, ecco, questo io lo faccio già abitualmente, perché se qualcuno scambia i miei articoli per articoli, e non per racconti, beh, mi sa che ha difficoltà a decifrare la materia che si trova di fronte, e anche l’attitudine di chi la plasma.
Non sono un giornalista, l’ho ripetuto allo sfinimento. Sono un critico musicale, ma prima ancora sono uno scrittore, e appunto scrivo. Quindi nel dire che avrei voluto accompagnarvi decameronianamente, intendevo che pensavo di scrivere dieci racconti, uno al giorno, da una parte pensando che la clausura sarebbe in effetti durata dieci giorni, al limite qualche giorno in più, dall’altra pensando che avrei potuto mettere così, nero su bianco, alcune mie riflessioni sulla musica e non, come del resto ho sempre fatto da anni, con la flessibilità dovuta dalla contingenza di non dovermi attenere troppo al formato articolo.
Ora, lo so, è oltre un anno che leggete scritti, chiamiamoli così, in cui vi parlo prevalentemente dei miei anni Novanta, con dovizia di particolari, aneddoti, ricordi, memorie, complice il mio aver compiuto cinquant’anni a giugno, non è che lì ci fosse di mezzo il Decameron o altre contingenze, mi sono semplicemente preso quelle libertà, forte del saper che anche parlando del me stesso giovane avrei comunque tirato in mezzo l’attualità, e soprattutto l’attualità del mondo della musica, e soprattutto forte di un cazzo di talento immenso, il mio nello scrivere, che mi avrebbe comunque permesso di fare un po’ quel che mi pareva, tanto alla fine i conti tornavano e nessuno avrebbe potuto dire che un mio scritto non parlava in effetti anche di musica. Solo che con la mia idea di dieci novelle decameroniane intendevo andare oltre, provare, cioè, a costruire un filo che congiungesse un pezzo, stavolta faccio finta di essere un giornalista, figuriamoci, c’è gente che lo fa da una vita, e l’altro, come se fossero capitoli di un libro, novelle di un libro di novelle. Continui rimandi, da aggiungere a tutti quelli che in genere metto nei miei scritti, meta-narrativa all’ennesima potenza.
Però poi è successo che la realtà ha forzato la mano, e oggi siamo alla venticinquesima novella decameroniana in venticinque giorni, che già a scriverlo fa ridere, come se uno dicesse che in una determinata serie siamo all’episodio venticinque di dieci, i conti non tornano. Dico questo non perché io intenda smettere, il patto tra scrittore e lettore non andrebbe mai violato, o quantomeno non per scelte non prese dall’autore medesimo, ma perché credo, e lo credo talmente tanto da star qui a dirlo a voce alta, che quello che stiamo facendo, io scrivendo e voi leggendo, sia un pochino oltre quello che avevo pensato e esposto.
Questo che doveva essere un giochino letterario fatto a beneficio vostro, siatemi grati, ma anche mio, perché a me scrivere piace e serve, in qualche modo, perché mentre scrivo penso e penso cose che se non scrivessi probabilmente non penserei e se non penso mi imbruttisco, non tanto esteticamente, lì si fa quel che si può, quanto spiritualmente, e lì imbruttirsi è davvero brutta faccenda, per cui ogni giorno si continua a fare le cose che si facevano prima, quelle possibili, ci si alza alla solita ora, si fa colazione alla solita maniera, senza lasciarsi andare, che so?, a farsi un panino con la Nutella, ci si fa la doccia, ci si veste, anche se potremmo comodamente stare in pigiama, tanto non ci sono ospiti che arriveranno all’improvviso, si mangia alla solita ora, nel mio caso rimanendo a dieta, anche se non posso fare i miei soliti dieci chilometri al giorno, ma posso andare a portare giù l’immondizia a piedi, sette piani a scendere, sette a salire son meglio di niente, e così via, ore passate al computer a scrivere, per sentirsi vivi e per sapere che vi posso aiutare a sentirvi vivi, ma più per sentirmi vivo, lo confesso, e per far sentire vivi e vivi nella solita normalità anche i miei figli, che mi vedono al lavoro, come tutto fosse normale, come tutti i giorni della loro vita precedente, tutti vivi e felici, col che non pensi l’editore di pagarmi meno, perché il fatto che mi piace farlo non significa che non sia lavoro, editore, pensami come una pornostar che si diverte a scopare ma che scopa per lavoro, mettiamola così, ecco, questo che doveva essere un giochino letterario fatto a nostro beneficio si è trasformato, credo, davvero in un diario del contagio. Non perché noi si sia contagiati, non lo sono io e mi auguro assolutamente non lo sia nessuno di voi o dei vostri cari, e anche dei vostri non cari, a dirla tutta, ma perché così stiamo vivendo, in periodo di contagio, di clausura forzata, di paura, anche, di emergenza, comunque.
I miei scritti, le mie novelle decameroniane, stanno mettendo in campo, lo dico non come vanto, mi vanto già in tempi normali, non credo di aver bisogno ogni due righe di sottolineare quanto io sia fottutamente bravo ora, che vi sarà ancora più chiaro del solito, le mie novelle decamoroniane stanno mettendo in campo tutta quella serie di sensazioni, di emozioni, di suggestioni che questi giorni di clausura ci stanno in qualche modo imponendo. Chiaramente, le suggestione, emozioni e sensazioni che vi racconto sono le mie, e quelle delle sei persone che si trovano a vivere ventiquattro ore su ventiquattro con me, non le vostre singole, ma credo che, antropologicamente, avere modo di fermare su carta, nello specifico su rete, la variazione delle dinamiche familiari, degli umori, degli stati d’animo, sia esercizio utile, anche a futura memoria. E lo credo non perché io auspichi o preveda che, una volta che finalmente potremo raccontare tutto questo usando i tempi al passato il rischio di un’altra volta sia plausibile, mi auguro proprio sia una esperienza una tantum, almeno per le nostre vite fallibili, ma perché credo che in qualche modo, una volta che potremo raccontare tutto questo usando i tempi al passato si debba fare una sorta di re-start e un re-start serio non può che partire proprio dall’analizzare come ognuno di noi ha affrontato tutto questo.
E siccome, in genere, mi occupo di musica, provo a partire da come il comparto della musica sta provando a reagire a questo stato di emergenza senza precedenti, almeno senza precedenti per noi che al momento in questo comparto a vario titolo lavoriamo, perché nessuno che abbia fatto la guerra, suppongo, è ancora al lavoro, sempre che sia sopravvissuto all’anagrafe, prima, e a un virus che sembra accanirsi sugli anziani come neanche un serial killer, ora.
Il comparto della musica, quindi, sta reagendo male. O meglio, non sta reagendo. È inerme, come lo siamo tutti, e nel suo essere inerme sembra aver adottato e fatta propria la mentalità di quelle prede che, di fronte al predatore più feroce, si fingono morte, nella speranza che il predatore le lasci lì, a terra, senza mangiarsele, sbranarsele, come se al predatore, a tutti i predatori, interessasse di più brutalizzarle, farle soffrire, che nutrirsene. Fingersi morti finché non se ne va il predatore, questo l’atteggiamento adottato dai più. Anche perché, diciamocelo solidarmente, non ci sono indicazioni in qualche libretto di istruzioni, certo, come ho scritto più volte in questi giorni, esiste tutta una letteratura e anche una letteratura televisiva (parlo delle serie tv e di certi film) che possono fornirci indicazioni di massima, ma non sempre le parabole descritte sono supportate da altro che dall’intuito e dalle visioni degli autori, vatti a fidare ciecamente di chi nella vita passa il tempo a scrivere davanti a un PC, per dire. Già che parliamo anche di gente che, nella vita fuori dall’emergenza, ha dimostrato di non sapersi muovere neanche seguendo una ipotetica linea retta, come certi ubriachi sottoposti a quegli stupidi test delle forze dell’ordine per vedere se sono appunto ubriachi, cammina dritto, alza una gamba, quella roba lì, cosa mai avremmo dovuto aspettarci ora, che sembrano tutti allo sbando?
Così abbiamo visto che tutto quello che ci era stato raccontato negli ultimi anni, la filiera in forte crescita, le impennate di fatturato, la musica che tornava a girare, anzi, che girava come mai prima, i concerti sold out ovunque, i miliardi di streaming, tutto si è dimostrato fragile come un mandala, senza neanche la soddisfazione di un maestro shaolin, lì, a soffirci su per dimostrare che essere fragili è essere umani. La SIAE, per dire, fa sapere a tutti gli editori che ci saranno tempi bui, niente incassi, quindi niente pagamenti, quindi la Morte Nera, quella di George Lucas, per tutti i grandi, figuriamoci per i piccoli, dalle cui casse si suppone si andrà a attingere per pescare i pochi spiccioli destinati ai giganti. Dischi non ne escono, se non sparuti, e anche solo vedere questi artistini che son lì a vantarsi di primi posti in questi giorni mette malinconia, ché stiamo parlando di numeri risicatissimi, nani che si sentono di colpo alti, circondati da nani. I live, beh, i live si sono ovviamente piantati, e chiedere di acquistare biglietti per eventi ora, non sapendo se gli eventi ci saranno, e non sapendo se gli stipendi, chiamiamoli così per comodità, con cui pagarli ci saranno sembra non solo di cattivo gusto, ma anche semplicemente di poco buon senso. E se i ricchi piangono, legittimamente, pensiamo chi ricco non è, i piccoli e piccolissimi artisti, che con le serate anche nei pub ci campano giorno per giorno, ma anche tutti i professionisti, le maestranze, che intorno a live si muovono, dai fonici a chi monta e smonta i palchi, i promoter locali, quelli nazionali, i roadies, gli uffici stampa, toh, ci metto anche chi poi quei live li racconta. Tutti fermi, piantati, immobili.
La musica, sembra, così dicono, non si ferma. Ma l’impressione è che, almeno a livello di sistema, si sia proprio già fermata. Lo stato, intendendo con stato chi lo stato in questo momento sta guidando, presumibilmente distratto dall’emergenza, si è completamente dimenticato di chi in questo settore opera, come nel resto del mondo dello spettacolo, e sembra anche del turismo, non a caso incluso nel medesimo ministero. Nessuna menzione a chi non sta lavorando nei decreti, se non qualche spicciolo una tantum. Si parla tanto di “nessuno perderà il lavoro”, intendendo, immagino, provo a interpretare le parole di Conte e del Ministro Gualtieri, uno che suona la bossanova, lo abbiamo visto tutti, che nessuno di quanti hanno un posto fisso, dipendenti pubblici in primis, privati presso grande aziende, a seguire, perderà il lavoro. Poco importa dei milioni di lavoratori che sono a partita IVA, se va bene, o che lavorano a progetto, a giornata, lavoratori che non stanno lavorando ma che, ufficialmente, non hanno perso un lavoro che non è formalizzato da un contratto di lavoro continuativo e dipendente. In quel caso, ciccia, provate a sopravvivere con quel che avete messo da parte, sempre che la banca non vi sfili anche quello per finanziamenti o mutui, le cui sospensioni, siamo sempre lì, sono previste solo per chi ha perso il lavoro, inteso in quell’arcaico modo, per gli altri cifre risibili una tantum e in bocca al lupo a voi e famiglia.
Il fatto è che ci siamo raccontati, e adesso non sto parlando della filiera musicale, che eravamo cambiati, diventati fluidi, flessibili, che il mondo del lavoro, come quello sessuale, dei nostri ragazzi, si era adeguato al passo coi tempi, ma poi rimaniamo tristemente impigliati in una contingenza che ci dice che se non sei chiaramente riconoscibile dentro certi parametri non esisti, ti devi arrangiare, salvarti il culo da solo. Sulla faccenda di salvarsi il culo da solo ho già detto, figuriamoci, ho una mazza da baseball, una buona struttura fisica, muscoli e massa corporea, ho anche una faccia che, se mi ci impegno anche poco, può mettere davvero paura. Nessuno mi rompe il cazzo se vado in giro di notte, in tempi non di quarantena, ora di notte sto in casa, come di giorno, se poi metto la mascherina da skater di mio figlio Tommaso, nera, unica mascherina in possesso della nostra famiglia, lascio i capelli sciolti, sono davvero pronto per andare a rapinare una banca, o un negozio. Non ho neanche bisogno di infilarmi la maschera di Giuseppe Conte come un novello Patrick Swayze.
Maresciallo, si fa per scherzare, sono novelle decameroniane, queste, non è che quando comincerò a spingere sul piano erotico, alla Boccaccio, vorrà dire che io nel mentre mi lasci andare a libagioni e orge.
Tornando alla musica, tutto si è piantato, in maniera netta. E quel mondo finto che abbiamo visto montare come panna negli ultimi anni, effimero, fatto di streaming e storie su IG, si è vanificato come una medusa lasciata a sciogliersi sui sassi, al mare.
Perché se fino a poche settimane fa i social erano il terreno di caccia di loro, i trapper, gli itpopper, ma soprattutto i trapper, con le loro storie di soldi, pasticche/sciroppi e puttane, parole loro, non mie, ora tutto questo è ovviamente scomparso. Anche un genio della lampada come Sfera Ebbasta, immagino, uno che dopo due settimane dopo i fatti di Corinaldo metteva foto sui social di se stesso in boxer e con il cappello da Babbo Natale dicendo che aveva un pacco dono e sottolineando come quello fosse uno degli anni più incredibili della sua vita, i sei cadaveri della Lanterna Blu ancora caldi, sa bene, forse anche per tutta la merda che gli è piovuta addosso in quell’occasione, che star lì a ostentare culi di ragazze in perizoma e rolex in questo momento potrebbe non essere la mossa più intelligente.
Già sarà difficile per tutti i seguaci del genere trovarsi a convivere forzatamente con genitori che, in molti casi, non sanno neanche di aver cresciuto figli minus habens che ascoltano musica di merda infarcita di testi di merda, figuriamoci star lì a vedere che nel mentre che loro non possono uscire neanche per pisciare il cane altri se la godono, no, non è proprio aria.
Per contro, i social, e più in generale la rete, sono ora diventati il territorio in cui si muovono agilmente gli altri, quelli che fino a ieri venivano considerati buoni per i mercatini vintage della domenica, i vecchi, quelli che suonano la chitarra, che hanno fatto la gavetta, hanno un repertorio vero. Sono loro le canzoni che si sentono cantare nei flashmob sui balconi e dalle finestre, da una parte, e sono loro che si sono lasciati andare, forse anche troppo, ai concerti da casa, quelli degli hashtag improbabili, perché, lo dico sapendo di andare a pestare magari una merda, ma ripetere #IoRestoACasa e #IoSuonoDaCasa, quando è evidente che ora sia praticamente impossibile non farlo mi indurrebbe a aggiungerci un perentorio #EGrazieAlCazzo.
Di colpo chi è in grado di impugnare una chitarra, anche scordata, e cantarsela e suonarsela è lì, a fare dirette che poi vengono condivise, manco fosse un vero concerto, e gli altri stanno a guardare. Poco importa se gli spettacoli offerti sono spesso impietosamente orribili, lo si fa per stare insieme, come di chi prova a rifare le pose dei film porno in casa, confondendo la plasticità della finzione con una sorta di esercizio ginnico, chi se ne frega del piacere.
Tutti fanno live, e tutti ne pretendono. Ci sta. Siamo in emergenza, si fa quel che si può e anche quel che si vuole. Ma forse, la butto lì, sarebbe il caso di rivedere la faccenda.
Quando leggo, un po’ ovunque, scrivo di musica e di conseguenza la mia bolla social è prevalentemente fatta di gente che con la musica ha a che fare, quando leggo un po’ ovunque che la musica non si ferma ho i brividi lungo la schiena. Perché la musica si è già fermata, è un fatto, se per musica si intende il sistema musica, e non la musica intesa come arte (quella, ahimé, in molti casi si è fermata al secolo scorso, figuriamoci se necessitava del Coronavirus per fermarsi), ma continuiamo tutti a far finta che sia ancora in movimento, come le code delle lucertole, che si contorcono anche dopo che un bambino dispettose le ha recise dal resto del corpo con un legnetto.
La musica si è fermata, e forse sarebbe il caso che chi nella musica lavora, specie i nomi più grandi, quelli cioè che hanno un grande seguito e quindi più modo di farsi sentire, e che, si presume, ancora non hanno ricevuto la botta mortale dovuta a quell’essersi in effetti fermata, niente live, niente dischi nuovi fuori, niente progetti attuali o futuri in essere, niente speranze di qui a venire, si fermassero davvero, per sottolinearlo e renderlo ben visibile a tutti.
Intendiamoci, sono convinto che in questo momento così straniante sapere che oggi pomeriggio ci sarà Jovanotti in collegamento da casa sua, magari in video chiamata con Fiorello o chissà chi, possa essere di sollievo, così come sono convinto che i tanti concertini, fatti dal balcone, alla Giuliano Sangiorgi, o in casa, da chiunque altro, tengano alto il morale delle truppe, dove per truppe si intende tutti noi che a casa ci stiamo in maniera coatta, perché, come direbbe Zerocalcare, se no moriamo, ma sono anche convinto che chi fa musica dovrebbe lanciare un segnale chiaro, chiarissimo: se lo stato non fa qualcosa per la filiera della musica la filiera della musica, una volta che potremo raccontare tutto questo usando i verbi al passato, non potrà ripartire.
Saremo tutti morti, o se non saremo tutti morti, metaforicamente o meno, lo saranno in molti, mi tiro fuori scaramanticamente. Ci avete raccontato, indotto a pensare, imposto che la musica gratis fosse plausibile. Prima ignorando il problema dello sharing, poi sposando da sottomessi lo streaming, tanto poi c’erano i live, ora ci state dicendo che anche i live non hanno un valore economico, scusate il cinismo che farà rabbrividire quell’anima bella di Fabio Fazio, un cinismo ahimé necessario, non me ne voglia. Se pure questo passerà la filiera della musica resterà in mano solo a chi si può permettere di fare musica per hobby, perché è ricco in partenza, i nobili e regali di una volta, o perché fa altro nella vita, gli amatoriali che magari musica non dovrebbero farla. Per guardare al mio settore, scriverà di musica solo chi non ci deve guadagnare, ricchi o dopolavoristi, come del resto già succede spesso, coi risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
Io vi dico, e lo dico con la voce ancora ferma che ho adesso, fermatevi tutti. Pretendete rispetto per il vostro lavoro, che è appunto lavoro. Non regalatelo, non per mancanza di solidarietà, ma almeno per rispetto verso chi più debole di voi, nel settore, è già alla canna del gas. Certo, invitate a fare beneficenza, ma non in cambio della vostra musica dal vivo.
Invece di lasciarvi andare al vostro ego, che in questa situazione ha un peso notevole, non ve l’avevo detto fin qui per schivare le ovvie polemiche, ma è sotto gli occhi di tutti, provate per una volta a fare quello che da tempo non fate più, siate corporativisti. Fermate la musica.
Pensa l’ironia della sorte, proprio io che da anni lancio lai disperati per l’apocalisse che stava per colpire il settore musicale, apocalisse dovuta all’incapacità di chi quel settore guida e di chi quel settore anima, ora che l’apocalisse è arrivata a prescindere, perentoria, per motivi che hanno solo dato un’accelerazione all’estinzione della specie son qui a cercare di salvare il salvabile, costruire una metaforica Arca di Noè.
Ripeto, spegnete amplificatori e microfoni, fermate la musica. Tanto nella stragrande maggioranza la musica che fermerete fa cagare, sarebbe già un sollievo non sentirla di suo.
.. a legger questo e anche condividendo varie cose non posso non pensare che la musica è di tutti e ogn’uno per fortuna è libero di farsela. La musica è quella che si ascolta ma anche quella che si fa, magari anche battendo una mano sulla gamba. Poi certo c’è chi fa musica e fa altro e chi fa musica e basta e questi sono chiamati professionisti con buona pace delle loro capacità o meno. Caro sig. Monina lei che è uno scrittore conoscerà certamente Mario Rigoni Stern, ebbene chi era uno scrittore o un impiegato del catasto? forse che stabilisce chi è il musicista professionista è l’eventuale critico che scrive di lui! Ci sono persone che non possono suonare? ho letto giusto? ma se il 90% dei musicisti professionisti non campa se non insegna e anche questo mi pare ed è un doppio lavoro! e lo può fare solo se ci sono dei miseri appassionati amanti della musica che la vogliono fare. La musica sopravviverà nonostante i critici questa è una certezza per il resto l’argomento è complesso nella sua gestione. Su una cosa sono daccordo con lei e anche peggio, zittiamo la musica perchè il silenzio ne esalti l’importanza. L
E invece la musica non si fermerá. Non si fermerá nel suo procedere, o nel suo correre verso il baratro, nel suo diventare hobby per facoltosi, nel suo emozionare chi sa coglierne l’essenza, che sia per nobili sentimenti, che sia per noia, che sia per paura di esser sopraffatti dalla paura. Per cui, anziché dire cosa dovrebbe fare la musica, sarebbe bello che i critici musicali – per citare quello che viene spesso chiesto a noi musicisti – cominciassero a fare un lavoro vero.
Capisco il senso e l’ultimo periodo sul sollievo lo condivido particolarmente, ma non mettiamo una diretta Instagram al pari di un live sennò è finita davvero!