Oggi vi parlerò dell’empatia. Una parola che negli ultimi anni è stata molto usata, abusata, portata in territori a lei estranei, spesso anche ostili.
Empatia.
Facciamo quelli che partono dalle basi, per empatia si intende “la capacità di porsi in maniera immediata nello stato d’animo o nella situazione di un’altra persona”, lo dice il dizionario. Mi occupo di musica, ma non è di come l’empatia sia considerato un valore in ambito di critica che voglio parlarvi, non stavolta, non adesso, quantomeno. Parlo di vita di tutti i giorni. La mia come la vostra. Vita di tutti i giorni che, ultimamente, è diventata molto diversa dal solito. Magari non ancora per tutti, o per molti solo recentemente, ma per una bella fetta dei nostri connazionali.
Sicuramente per me, che vivo a Milano, da qualche giorno parte della Zona Rossa (o Arancione, non è chiaro), ma già da tempo indicata come una zona a grande rischio contagio per il CoronaVirus, che io mi ostino a chiamare così, senza citare numeri e cifre, proprio per una questione di empatia, perché letterariamente chiamare un virus con un nome facilmente decifrabile per tutti lo rende meno vago, fumoso, più concreto.
Abbiamo letto, stiamo leggendo tutti i giorni di come il grande cuore degli italiani stia reagendo a questa situazione decisamente fuori dal normale.
Mi fermo subito.
La frase che avete appena letto, “stiamo leggendo tutti i giorni di come il grande cuore degli italiani stia reagendo a questa situazione decisamente fuori dal normale”, non essendo interpretata dalla mia voce, ma solo scritta, può essere interpretata in due modi differenti.
Per chi è abituato a leggere i miei scritti, immagino, quella frase risuonerà sarcastica, ficcante, se non addirittura stronza, e quel grande cuore degli italiani sortirà l’effetto di sottolineare come, in uno stato di necessità e di emergenza come questo, in effetti, gli italiani abbiano tirato fuori il proprio peggio elevato all’ennesima potenza. Parafrasando il poeta Brunori, invece del grande cuore gli italiani hanno mostrato il grande culo. Poi approfondirò questa lettura.
Per altri, che magari non sono miei lettori abituali, e che quindi di me sanno le poche impressioni arrivate con le prime righe di questo articolo, e le ultime sicuramente li avranno lasciati perplessi, se non spiazzati, articolo che affronta il tema dell’empatia, invece, quella frase risuonerà come una sorta di orgogliosa rivendicazione di una umanità che del resto il mondo spesso ci riconosce, siamo italiani, brava gente.
Senza neanche essercene accorti, quindi, siamo entrati nel tema che sto trattando, in una sorta di meta-articolo, hai visto che intellettualone?, che parolone?, penserete, che ha me e voi come cavie teoriche e virtuali di quel che sto provando a raccontare. E già lo scrivere questo, stiamo entrando in un loop, mettetevi comodi e allacciate le cinture, sposta ulteriormente la vostra percezione di me, sia che mi conosciate già, e che quindi sappiate questo mio amore per lo spiattellare costantemente cosa sto facendo, effetti su di voi compresi, sia che ancora neanche abbiate memorizzato il nome di questo strano scrittore che ha messo nero su bianco questo strano articolo (non mi dilungherò su che effetto avrà fatto su di voi il fatto di essermi presentato direttamente come scrittore e non come giornalista, anche l’essere meta, lo so, va dosato con cura).
Empatia, amici miei.
Empatia.
O meglio, un uso discutibile dell’empatia, nello specifico la vostra empatia. Perché è un utilizzo sterile, fatto per provare una tesi, quasi pavloviano.
Il fatto è che noi italiani, ormai direi che è assodato, abbiamo un serio problema con l’empatia. E ce l’abbiamo tutti, nessuno escluso.
Ci siamo da sempre rivenduti come persone tutte anima e core, ma nei fatti abbiamo a più riprese dimostrato una insensibilità che abbiamo di volta in volta provato a nascondere o dietro un’idea di produttività che al primo refolo di vento è crollata a terra come un castello di carte, o dietro una ostentata semplicità, da contrapporre risolutamente a chiunque provi anche solo a dimostrarsi un minimo sovrastrutturato, anche questa svanita al grido di “restatevene a casa vostra” non appena si è passati dal ruolo di destinatari di solidarietà a quello di mittente.
Un vero disastro, senza soluzioni possibili.
Perché se da una parte il raccontarsi perfetti, ohi lo storytelling che grande truffa del rock ‘n’ roll si è dimostrata, è naufragato sotto i primi colpi di maglio del virus, alla faccia del non saperi/volersi/potersi fermare, dall’altro il rivendersi come quelli umani, aperti, accoglienti, si è subito trasformato in un recriminare anni di emarginazione, arrivando a rivolgere quelle stesse armi verso i propri cari, rei di essersi disinteressati dei propri cari e di essere fuggiti dal nord infetto.
In questa perenne corsa alla polemica, in questa perenne ricerca del prossimo nemico pubblico numero uno da inseguire, stanare, impiccare in pubblica piazza, abbiamo ancora una volta dato vita all’antico scontro tra guelfi e ghibellini, che si tratti di settentrionali vs meridionali, di acculturati vs sempliciotti, di allarmisti vs faciloni, è tutto un susseguirsi di accuse, insulti, sfoghi, odio. Recriminazioni, ripeto, magari frutto di anni di vessazioni subite, figuriamoci, ma anche disinteresse palese, nel momento in cui il problema sembrava solo di qualcun altro.
Ora tocca a voi, lo abbiamo sentito e letto in molti.
E poi, a seguire, adesso sono cazzi vostri.
Abbasso gli untori, abbasso i mammoni, abbasso i fifoni, abbasso questi giovani di merda e la loro smania di immortalità, abbasso questi vecchi di merda, tanto loro vivere hanno vissuto, che gli frega se sbattendosene delle regole ci portano all’implosione.
A perdere, in questa agghiacciante guerra al ribasso, tutti quanti, a partire da quel famoso grande cuore degli italiani, assolutamente non pervenuto.
Perché, torniamo sempre lì, sembra che di colpo quella che dal tempo dei tempi rivendiamo come una nostra peculiarità unica, l’empatia, sia scomparsa, svanita nel nulla, vaporizzata al primo caldo di marzo.
Idioti che se ne scappano da Milano non appena esce la mezza notizia della zona Rossa, abbiamo letto e visto ovunque, maledetti milanesi che se ne sono venuti nelle case di villeggiatura a portare il virus a chi ne era ancora immune, hanno risposto.
Nessun tentativo di capire il panico altrui, lo dice uno che non se ne è andato, che sta provando a gestire una famiglia numerosa, a tenere botta, per dirla con Ligabue, a mantenere in vita un senso civico che mi ha fatto scegliere, lo dico a scanso di equivoci, di vivere qui, in una città che non è che sia per altro una delle settime meraviglie del mondo, ma che civile si è sempre dimostrata. Nessuna volontà anche di confrontarsi con l’ignoranza altrui, certo, perché questa è l’altra parte della medaglia. Come in una guerra in cui assalire l’altro, di qualsiasi altro si tratti, possa in qualche modo metterci in salvo, non si sa bene perché e come.
E così, mentre questo scenario apocalittico da serie Netflix si delinea sempre più nitido non più all’orizzonte, ma proprio sotto i nostri occhi, con le sommosse nelle carceri, morti e fumo nero che esce dalle finestre, rumori di tazze sbattuti sulle sbarre, gente che urla sui tetti, le ipotesi neanche troppo remote di uno stato di polizia con l’esercito a saldarci i portoni, come a Wuhan, coi video di pazienti intubati che passano serenamente al telegiornale, l’intera classe politica che si è dimostrata immunodepressa, visti i tanti amministratori locali e nazionali che sono risultati positivi al virus e i calciatori che invece si abbracciano calorosamente dopo il goal, noi siamo qui a constatare il decesso della nostra tanto vantata empatia, un lenzuolo tirato su a coprirne il viso, la linea continua sul monitor.
Questo sarà quello che ci troveremo di fronte quando questo incubo finalmente lo potremo raccontare usando i verbi al passato, vai a capire se tra qualche settimana o qualche mese, una lapide con su scritto “Qui riposano le spoglie mortali dell’empatia italica”.
Ma siccome nel microcosmo di casa mia, ripeto, sette persone che si sono trovate a convivere ventiquattr’ore su ventiquattro da ormai quasi tre settimane, incertezze e paure che si dimenano là fuori, ho modo di studiare dinamiche e sviluppi come un antropologo autodidatta, e siccome, Candido già diceva molto se non tutto, due dei miei sei coinquilini, i miei figli più piccoli, Francesco e Chiara, gemelli di poco più di otto anni, sono lì, lavagne su cui né noi genitori né la scuola ha ancora avuto modo di scrivere troppe sovrastrutture, ho deciso di provare a vedere che grado di empatia sono capaci di manifestare. E per farlo, visto che le immagini e le notizie che arrivano dai telegiornali e i magazine di approfondimento in qualche modo hanno cominciato a turbarli, non fosse altro che per quel costante sottolineare la pericolosità del virus, fatto più che legittimo, intendiamoci, sono ricorso a quello che è il mio pane quotidiano, la musica.
Ho fatto nuovamente ricorso a Youtube, dove del resto anche le maestre stanno cominciando a dir loro di andare per guardare piccoli documentari che possano aiutarli nel cosiddetto e-learning, oltre che a documentarsi sullo stato odierno delle cose senza spaventarsi. Ho fatto nuovamente ricorso a Youtube tirando fuori dalla manica un asso, Puddles Pity Party. I miei figli, soprattutto Chiara, lo conoscevano già, ma vederlo in tv, invece che sul tablet, ha fatto un effetto differente, le dimensioni, che che se ne dica, contano.
Per chi non lo sapesse, e non vivessimo in questa situazione surreale griderei allo scandalo, Puddles Pity Party è un clown triste che canta in seno all’ensemble Postmodern Jukebox. Di nuovo, scandalo degli scandali, per chi non lo sapesse il Postmodern Jubox, oltre a avere un nome epico, è un ensamble che opera in maniera geniale intorno al mondo delle hit internazionali, loro sono americani, andando a reinterpretarle applicando loro generi differenti, quasi sempre acustici, quasi sempre dalle parti dello swing.
Pensate a cosa Paolo Belli e la sua orchestra da anni fa a Ballando con le stelle, il programma di Rai1 condotto da Milly Carlucci, prendere canzoni note e farne versioni totalmente stravolta al fine di far ballare tanghi o sambe sulle note di Mia Martini o Domenico Modugno, e spostate il tutto dalle parti di Sia e i Coldplay, il gioco è fatto.
Puddles Pity Party, che in questo contesto viene giustamente presentato come il Sad Clown, il Pagliaccio Triste, è in effetti un pagliaccio triste. Un gigantesco pagliaccio triste, vero nome Michael Geier, cinquantatré anni, già leader dei Kingsized, a vederlo direi intorno ai due metri, massiccio, pelato e con una coroncina minuta appiccicata sul cranio, un vestito da Pierrot che martoria con le dita, imbarazzato e intimidito, mentre canta.
Ecco, cantare.
Puddles Pity Party, il Pagliaccio Triste non è che canti e basta, canta e incanta. Perché a dispetto di questo aspetto buffo, del muoversi goffo, ha una voce possente ma al tempo stesso meravigliosa, capace di aprire anche i cuori più chiusi, come il mio. I miei gemelli, soprattutto Chiara, ripeto, già lo conoscono perché più volte abbiamo visto i video di Chandelier, la cover della hit di Sia, o di Mad World, la cover dei Tears for Fears nella quale Puddles Pity Party canta insieme a un’altra delle incredibili voci del progetto Postmodern Jukebox, Haley Reinhart, che nel video, per altro, compare a un certo punto spuntando da dietro le sue spalle, per tutta la prima parte della canzone occultata alla vista dalla enorme mole del pagliaccio triste.
Sebbene le sue siano sempre interpretazioni molto commoventi, questo il mio esperimento, i gemelli si sono divertiti parecchio nel tempo a guardare i video, non cogliendone la tragicità ma solo gli aspetti buffi e surreali di vedere un clown che canta.
Stavolta però devo fare un esperimento, quindi mi sparo il jolly.
Metto il video della partecipazione di Puddles Pity Party a American Got’s Talent. Un video incredibile che ovviamente vi invito a guardare, con o senza i vostri figli. Il video comincia facendo vedere tutti i vari partecipanti che si preparano a salire sul palco, in una giravolta di colori e movimenti. Tutti si divertono, cantano, ballano, suonano. Nel mezzo, seduto su una cassa, Puddles, triste. Non parla, ovviamente, non lo fa mai. Non parla neanche quando viene chiamato a salire sul palco. In realtà non parlerà neanche sul palco, interrogato da Mel B e dagli altri giudici del talent. Mostrerà il suo cuore spezzato, mimandolo con le mani, indicherà il suo nome, scritto su una valigia di quelle di un tempo, di pelle, e poi comincerà a cantare. Ancora una volta Chandelier, di Sia, ma stavolta davanti a un pubblico in carne e ossa, non solo quello virtuale della rete, compresi i quattro giudici, a partire da quel genio del male di Simon Cowell, inventore tra le altre cose di X Factor.
A vederlo lì, sul palco, che canta una canzone come Chandelier, uno dei pezzi pop più incredibili usciti nel nuovo millennio, forse la hit perfetta uscita in questi ultimi venti anni, colorandola di ulteriore tragicità, come se già non lo avesse fatto a sufficienza Sia, i gemelli si pietrificano. Chiara soprattutto ama molto anche Sia, più per i video in cui la mini-Sia, Maddie Ziegler, la ballerina che, inizialmente da bambina, ora da ragazzina occupa con i suoi passi di danza le assenze della cantautrice australiana, Electric-Heart, con Shea LeBoeuf, la sua preferita, che per le canzoni in sé. Comunque la ama, ma stavolta ha capito, credo definitivamente, che di canzone molto triste si tratta.
Hanno gli occhi lucidi, ma non sanno neanche esattamente perché.
Non parlano, non si muovono, e Dio solo sa quanto sia difficile che due bambini di otto anni se ne stiano immobili, specie nel bel mezzo di settimane e settimane di isolamento a casa. La canzone finisce, con la più che giustificata standing ovation da parte di pubblico e giudici. Puddles Pity Party appare commosso, lì coi suoi due metri di stazza, il viso da pagliaccio triste e qui modo goffi da mimo.
Quando i giudici gli tributano i loro quattro sì, chi non conosce il talent in questione o più in generale il mondo dei talent sappia che sta ai giudici sancire il passaggio o meno del turno dei concorrenti, con la necessità di almeno tre sì su quattro giudici per poter andare avanti, Puddles Pity Party fa segno che il suo cuore non è più spezzato. Un gesto semplice, che parte dal cuore spezzato, i due indici staccati che si ricongiungono sopra i pollici. Il cuore di Puddles Pity Party, il pagliaccio triste alto oltre due metri non è più spezzato per il calore del pubblico. Come direbbe Raymond Carver, una cosa piccola ma buona, e pensatela detta, questa frase, dalla faccia surreale di Lyle Lovett che interpreta il pasticciere in America Oggi di Robert Altman.
Un cuore che non è più spezzato, una cosa piccola ma buona.
Lì, sul divano di sala, mentre tutto intorno a noi c’è un mondo che implode vittima di un virus bastardo e della aridità degli uomini, mai come oggi sarebbe da rivedere l’aggettivo umano inteso come un pregio, noi ci commuoviamo per un gigante di oltre due metri vestito da pagliaccio triste e dalla voce d’angelo. Io perché tutta questa situazione non fa che rendermi fragile, troppi varchi di ingresso per le emozioni lasciati sguarniti mentre cerco di rimanere solido proprio per i miei figli, loro perché forse ancora non li abbiamo rovinati, il loro grande cuore italiano che pulsa nei loro piccoli petti di bambini.