Come ampiamente prevedibile dopo la sentenza della scorsa settimana che lo dichiarava colpevole di crimini sessuali, la condanna arrivata per l’ex magnate di Miramax è pesantissima: 23 anni di carcere per Harvey Weinstein, da scontare in un penitenziario dello Stato di New York, con l’accusa di violenza sessuale e stupro di terzo grado.
L’uomo più potente di Hollywood sarà formalmente schedato come predatore sessuale: finisce così la parabola di uno degli imprenditori e manager più potenti della storia del cinema, il cui caso è destinato a fare la storia della battaglia femminista per i diritti delle donne. Il luogo comune del divano del produttore è diventato con Weinstein il ritratto di un modo criminale di concepire i rapporti professionali tra produttori e attrici, registe, scrittrici, collaboratrici di vario genere e grado basato su abusi di potere, violenze psicologiche e crimini sessuali. Ha anche rappresentato uno squarcio nell’ipocrisia generale, nell’omertà, nella rassegnazione che ha coperto la sua attività predatoria per decenni, garantendogli impunità fino ad oggi. Fino a quando, in verità, un articolo di Ronan Farrow del 2016 sul New Yorker è stata la miccia capace di innescare una serie di denunce, dalle quali sonopartite le indagini giudiziarie che hanno portato Weinstein in carcere in attesa del giudizio sulla sua condanna.
Una condanna arrivata il 10 marzo, per due casi di stupro, pesante per la quantità di anni attribuiti come pena carceraria ma soprattutto simbolica, una sentenza non tanto riparatrice dei torti subiti dalle vittime (a cui non si potrà mai porre rimedio), quanto restauratrice di un senso di giustizia, un finale della storia che premia il loro coraggio nel denunciare l’intoccabile magnate della celluloide.
Finisce così la parabola di Weinstein, con 23 anni di carcere contro i 29 chiesti dall’accusa. In un discorso confuso, prima della pronuncia del verdetto, Weinstein si è rivolto ai giudici di un’affollata aula di tribunale di Manhattan dicendosi in uno stato di “profondo rimorso” e “totale confusione“. Ha trovato però la lucidità per attaccare movimento #MeToo, sottintendendo che abbia esagerato nella caccia al mostro di turno e dicendosi preoccupato per la mancanza di un “giusto processo” e per “l’atmosfera” che si respira negli Stati Uniti. Insomma, ha provato in extremis a presentarsi come un perseguitato dalla giustizia e dai movimenti femministi, il tutto di fronte alle due vittime dei casi discussi in questo processo, Miriam Haley e Jessica Mann, che hanno rilasciato dichiarazioni toccanti riguardo l’impatto a lungo termine che le violenze subite hanno avuto sulle loro vite e sulla loro psiche. Le due donne hanno assistito alla sentenza sedute in prima fila in aula insieme a Tarale Wulff, Dawn Dunning, Lauren Young e Annabella Sciorra, tutte testimoni nel processo.
23 anni sono una pena severa che è solo la punta di un iceberg: se i racconti di donne che hanno sostenuto di essere state assaltate da Weinstein negli anni ha superato il centinaio di casi, sono pochissime, per vari motivi, le denunce arrivate a processo. Lo hanno ricordato le Silence Breakers, un gruppo di accusatrici di Weinstein tra cui figurano le battaglierei Ashley Judd e Rosanna Arquette, sostenendo che la vittoria più importante dopo questa sentenza sarà il cambiamento culturale da imporre nella società, sovvertire lo schema dell’abuso sessuale come arma di ricatto nei confronti delle donne in tutti gli ambienti e i posti di lavoro: “L’eredità di Harvey Weinstein sarà sempre quella di essere uno stupratore condannato. Andrà in prigione – ma nessuna quantità di tempo in prigione riparerà le vite che ha rovinato, le carriere che ha distrutto o il danno che ha causato“.