La casa nasconde ma non ruba.
Questo ci dicevano da piccoli. La casa nasconde ma non ruba. Dire questo aveva due scopi. Primo, spingerci a cercare meglio e più in generale a essere più ordinati, perché, queste le indicazioni di un regime parafascista che intendeva divulgare la massima del ventennio “l’esercizio piega l’ingegno”, indicazioni di cui abbiamo fatto evidentemente carta straccia, l’ordine ci avrebbe infatti portato a trovare tutto, o meglio ancora, a non trovarci in condizione di perdere nulla. Secondo, rassicurarci, nel caso in effetti non avessimo più trovato qualcosa, perché essendo questa cosa in casa, prima o poi, sarebbe saltata fuori. Poco conta che sarebbe saltata, con ogni probabilità, quando ormai non ci sarebbe più servita, la casa nasconde ma non ruba, sticazzi.
Non è ovviamente di vecchi detti popolari che voglio parlarvi. Non credo sia pertinente al mio lavoro, e soprattutto non ne vedo l’utilità.
Il fatto è che, guardando al mondo nel quale opero, la rete, il concetto espresso da quel detto popolare, che nella mia testa ha sempre l’intonazione rassicurante e severa al tempo stesso della voce con cui me lo diceva mia madre mentre, è quantomai pertinente.
La rete, in effetti, è un posto stranuccio, converrete con me. Per anni abbiamo parlato della rete, dei social soprattutto, ma della rete in generale, come di un posto virtuale, non reale. Qualcosa di quasi fantascientifico, spesso contrapposto a tutto ciò che potevamo toccare, vedere di persona. Poi, col tempo, ci siamo resi conto, o almeno alcuni di noi si sono resi conto, che fare questo tipo di distinzione era un filo anacronistico. I social sono irreali? Dai, su, non scherziamo. Poi, chiaro, i rapporti tenuti in rete sono diversi da quelli che teniamo abitualmente nella vita di tutti i giorni, vorrà semplicemente dire che siamo esseri complessi che rispondono a situazioni differenti in maniere differenti. Del resto, mica me lo sono inventato io, anche di persona ci capita di tenere comportamenti differenti a seconda di che situazione stiamo vivendo. Serve che io tiri in ballo lo spirito del branco, o che citi, che so?, quel che succede nelle curve degli stadi? Dai, siamo seri. Anche il telefono, ma sto dicendo davvero qualcosa di ovvio al limite dell’imbarazzante, era visto con diffidenza, e in effetti oggi è col telefono che ci intratteniamo con i nostri nuovi amici sui social. Tutto torna.
Comunque, resta che la rete è un posto stranuccio. Perché da una parte si dice, giustamente, che la rete, esattamente come la casa nel ragionamento di mia madre, non fa scomparire nulla.
Avete presente, no, i legittimi discorsi sulla reputazione? Su quello che postare qualcosa in rete può comportare, anche a anni di distanza. Pensateci, è esattamente lo stesso principio di quel detto popolare citato in esergo. La rete nasconde, magari momentaneamente, ma se uno cerca bene tutto si trova. Il che, ovviamente, deve spingerci a essere più ordinati, così che nulla di pericoloso si possa in effetti trovare, o essere fatalisti, come nel caso delle cose perse in casa.
Questa però è solo metà della medaglia in questione.
Perché se è vero come è vero che la rete nulla cancella realmente, e che quindi la reputazione di chiunque è a rischio, se si tengono comportamenti a rischio, e qui siamo davvero al limite del fantascientifico e del parafascista, converrete con me, è anche vero che la rete, non solo i social, ma anche i social e tutto il tempo che in rete e sui social passiamo ogni giorno, hanno reso la nostra attenzione sempre più labile, la nostra capacità di concentrazione sempre più risicata, e soprattutto, il bombardamento di input e anche quella faccenda di esserci abituati a stare sempre connessi, vuoi coi video, vuoi coi giochi, vuoi con le chat, ci hanno reso assai più frammentari, veloci, certo, ma decisamente più frammentari.
Questo per dire che la rete nasconde ma non ruba, certo, ma dimentica anche assai velocemente. Dimentica assai velocemente seguendo per altro logiche che spesso neanche sono decifrabili, anche da chi in effetti di decifrare quelle logiche dovrebbe occuparsi. Si pensi alla volatilità di certe notizie, oggi fondamentali, al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica, domani di colpo scomparse, dimenticate, forse neanche mai esistite.
Un paradosso, quindi, come i paradossi che a lungo hanno tenuto in piedi la fantascienza, finiamo sempre lì. Avete presente la questione dei viaggi nel tempo, per dire? Ecco, una cosa del genere. Da una parte tutto è lì, sotto gli occhi di tutti, dall’altra oggi ci sei e domani neanche esisti più.
Vai a capire a te quale sorte toccherà.
A me, per dire, è capitata una sorte assai strana. Perché io sono tornato a scrivere di musica per riviste e quotidiani dopo qualche anno di stand-by, è cosa conosciuta, e col mio ritorno ho in qualche modo ripreso un ruolo in passato era già il mio, quello del libero battitore. Quando infatti scrivevo per Tutto Musica, storica rivista della Mondadori che ha chiuso a dicembre 2004, ero considerato a ragione “quello cattivo”, esattamente con la stessa connotazione che mi si dà oggi. Quello, cioè, che non avendo debiti nei confronti di nessuno poteva serenamente dire quel che pensava senza dover poi incappare in pericoli o ritorsioni. Anzi, Tutto Musica, che era nato un po’ come magazine-marchetta, mi ha permesso di essere libero proprio perché era una rivista grande, che poteva giocarsi il lusso di stroncare l’album dell’artista che poi finiva in copertina, compito quasi sempre che spettava a me. Ero sotto contratto con loro, e a differenza di altri vecchi collaboratori non intrattenevo particolari rapporti con le case discografiche, compito cui mi ero sottratto con piacere vista la mia notoria pigrizia nell’instaurare rapporti umani e anche la mia scarsa inclinazione alla diplomazia. Mi pagavano, in sostanza, per essere libero, così che non ci fosse bisogno di regali, viaggi premi, coccole e altre amenità, tutte cose alle quali, in effetti, non ho mai avuto accesso.
Quando, quindi, dopo anni in cui mi ero dedicato a altro, Peter Gomez mi ha proposto di riprendere a fare il mio mestiere, al Fatto Quotidiano, un quotidiano che, pensavo, utilizzava la stessa modalità su tutti i fronti, non ho potuto che riprendere esattamente da dove ero rimasto, scrivere da uomo libero. Ora, salvo aver capito che riguardo quel particolare giornale mi stavo sbagliando di brutto, la cosa che più mi ha colpito, ma mi ha colpito al limite dello stupore meravigliato, è che quasi nessuno si ricordasse che appena qualche anno prima io facevo esattamente la stessa cosa. O meglio, in parecchi se ne sono ricordati, sicuramente tutti gli addetti ai lavori e buona parte degli artisti, ma non se n’è ricordato il popolo dei social, cioè esattamente il motore della mia attuale popolarità, perdonatemi se uso parlando di me questa parola. I social, infatti, hanno amplificato sin da subito le mie parole, e il fatto che artisti e fan abbiano subito provato a screditarmi, inondandomi di insulti, non ha fatto che far crescere quella che online viene appunto chiamata reputazione. Intendiamoci, diamo cioè il giusto peso alle parole, so che parlare di reputazione in virtù di una mole incredibile di critiche i insulti può suonare strano, ma così è. Mi insulti, mi scateni contro l’ira dei tuoi fan, io esisto e esisto in maniera amplificata. Perché, questo vale nella vita di tutti i giorni come in quella online, ripeto, altrettanto vera ma che segue a volte logiche differenti, il non essere considerato equivale a non esserci.
Quindi, qui la meraviglia iniziale, di colpo sono tornato in scena, esattamente con il ruolo da villain che avevo prima, anche con la credibilità che avevo prima, ovvio, perché nel frattempo era quello che aveva pubblicato un tot di libri, tanti, spesso collaborando proprio con artisti, e perché ho, me lo dico da solo, una competenza che nessuno degli haters è riuscita a scalfire.
Sulle prime ho provato meraviglia, quindi, ma è stato un attimo che alla meraviglia è subentrata una sorta di divertita constatazione di quanto fosse facile muoversi in questo nuovo mondo che mi ero trovato apparecchiato di fronte. Sarà che nel mentre i miei sedicenti colleghi si muovevano come piccoli vassalli alla corte dei nuovi sovrani, lì con le palette alzate nei talent, o con la ricerca spasmodica dei cuoricini sui social da parte dei medesimi artisti che nel mentre facevano girare i miei articoli.
Certo, nella altrettanto spasmodica ricerca di qualcosa con cui farmi male, ferirmi, in molti hanno indicato nel mio scrivere quel che scrivo nel modo in cui lo scrivo un metodico tentativo di provocare, di attirare l’attenzione. Mi si è dato sostanzialmente del troll, per altro da parte di troll, contravvenendo per altro alla massima “mai dare da mangiare a un troll”. Fossi Alan Moore, un Alan Moore particolarmente ispirato, potrei anche azzardare la domanda delle domande: Chi trolla i troll?
Ora, se fingessi di non aver saputo e di non sapere, suppergiù, cosa accade ogniqualvolta pubblico un certo articolo mentirei. Si chiama causa e effetto, e se chi scrive non è cosciente, forse, quello non è il lavoro che fa per lui.
Ma sfido chiunque a citarmi un solo passo di un mio articolo il cui contenuto non sia lapalissianamente parte della mia poetica, e soprattutto sfido chiunque a citarmi un solo passo di un mio articolo che io abbia poi smentito con articoli successivi o comportamenti pubblici. Perché posso sì aver cambiato idea su qualche artista, ma non certo su quanto scritto su determinati lavori, quello che scrivo è sempre frutto di una attenta analisi, dal mio punto di vista a prova di bomba.
Sono uno scrittore e un critico musicale, ho una visione del mondo, non stupitevene più di tanto, funziona così.
Ma siccome questo paradosso, quello cioè che vuole la rete luogo ove tutto rimane, ma al tempo stesso prima causa della scarsa memoria dei giorni nostri, mi diverte parecchio, credo sia il caso di sottolineare un’altra fonte di somma meraviglia che mi si è parata davanti negli ultimi anni, fonte di meraviglia che rientra perfettamente nei due lati della medaglia di cui sopra, lasciando però in luce una sola faccia della luna.
Salvo rare eccezioni, infatti, quasi nessuno tra quanti tenta invano di scalfirmi, di infastidirmi, di colpirmi, incapace di capire che di fronte a tutto quel che mi succede intorno sono una sorta di maestro Shaolin, lì, sospeso a mezzo metro da terra incurante del mondo, figuriamoci degli haters, quasi nessuno tra quanti tenta invano di uccidermi, metaforicamente, si intende, si è ricordato che neanche troppo tempo fa ho iniziato un discorso che non ho poi portato avanti. Un discorso che non mi sono limitato a iniziare, chissà quante parentesi ho aperto e non ho chiuso in vita mia, ma che ho iniziato in maniera piuttosto enfatica, chiassosa, rumorosa, epica, ma che poi, di punto in bianco, ho abbandonato lì, come se mai fosse esistito. E in effetti, a ben vedere, come l’albero che cade in mezzo alla foresta non visto e non udito da nessuno, non saprei neanche dire se questo discorso, o meglio l’oggetto di questo mio discorso, è mai esistito. Ho acceso un occhio di bue, nome gergale col quale si intende indicare il faro che punta in scena un particolare, e poi ho spento l’occhio di bue, buonanotte a tutti.
Se fosse vero che la casa, oops, la rete, nasconde ma non ruba, non ci sarebbe giorno che non mi si dovrebbe chiedere conto di tutto questo. E non è neanche detto che non sia io stesso a renderne conto volontariamente, prima o poi, questo mio scritto potrebbe in caso essere il primo passo in questa direzione, non è che questo che avete letto è un gesto di autolesionismo, ricordatevi sempre la faccenda della visione.
Quanto è bello il mondo della rete, uno può anche permettersi di indicare il proprio tallone, dichiarare che è senza nessuna difesa, lasciato fuori dal bagno salvifico, esattamente come quello ben più noto di Achille, salvo poi dimenticarsi di indicare perché è indifeso. Beh, per quello ci dovete mettere un po’ di impegno voi, se no che gusto c’è. Ricordate, la rete nasconde ma non ruba, basta solo saper cercare nel posto giusto.