Difficile che l’uscita questa settimana di Volevo Nascondermi possa aiutare a invertire la tendenza innescata dall’emergenza Coronavirus, che sta falcidiando il botteghino con incassi inferiori dell’80% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. 01 Distribution ha scelto di lanciarlo sperando che il premio per il migliore attore del festival di Berlino a Elio Germano possa fungere da volano. Ieri il film ha ottenuto 25mila euro, che bastano per occupare la seconda piazza di una magrissima classifica generale.
Nonostante la prestazione maiuscola di Elio Germano è difficile pensare che a far rifiatare il botteghino sia il cinema raffinato e minoritario di Giorgio Diritti. Il quale continua il discorso su un’altra Italia e altri italiani intrapreso ne Il Vento Fa Il Suo Giro (2005), L’Uomo Che Verrà (2009), Un Giorno Devi Andare (2013), che raccontano personaggi diversi e isolati che vivono in comunità di una realtà lontanissima dal centro del mondo.
Esattamente quello che si ritrova in Volevo Nascondermi, partecipata biografia di Antonio Ligabue, il celebre artista naïf della prima metà del secolo scorso, che doveva misurarsi anche col celebre ritratto che ne fece in uno sceneggiato tv della Rai Flavio Bucci, recentemente scomparso. Ligabue è una figura di marginale sin dalla nascita in Svizzera nel 1899, da una famiglia di immigrati italiani ma di padre ignoto, quasi subito affidato a un’anziana coppia di lingua tedesca senza figli. Per la natura irrequieta, ipersensibile (soffriva di misofonia, una ridotta tolleranza a certi suoni, nel suo caso i colpi di tosse) e aggravata da una fisionomia infelice, è un diverso deriso quasi da tutti. Ancora adolescente viene affidato a un istituto per ragazzi difficili, i suoi scoppi di rabbia lo conducono in manicomio e poi all’espulsione dalla Svizzera, mandato in Italia nelle terre d’origine della sua famiglia biologica, nella pianura emiliana.
Volevo Nascondermi questa prima parte della vita di Ligabue la segue con uno stile che incastra spezzoni di vita da bambino e adolescente posti in una sequenza senza rigide preoccupazioni cronologiche. Ligabue ragazzino, sotto un pesante sacco, osserva il mondo circostante da un piccolo foro praticato nella tela, a segnare uno sguardo tanto parziale quanto già personalissimo. E che il rapporto con l’esterno non sia semplice lo testimonia anche la sua postura, spesso quasi disteso per terra, con gli altri a scrutarlo sdegnosamente dall’alto, con lui a occupare il gradino più basso della gerarchia sociale.
L’Italia degli anni Venti in cui si trova catapultato è appena diventata fascista. Ligabue è un estraneo e un emarginato: parla in tedesco, cui poco a poco aggiunge un emiliano spurio e masticato, vive come un animale selvatico sugli argini del Po, in una condizione d’indigenza assoluta. L’unica passione è per pittura e scultura, grazie alle quali si interesserà di lui il pittore Marino Mazzacurati, che l’accoglie nel suo studio consentendogli un’esistenza meno raminga.
L’arte di Ligabue è viscerale, trasfigura il realismo in un mondo selvaggio e fantastico di giaguari, tigri, gorilla, con un tratto duro e allucinato in cui si sente tutta la pesantezza della sua vita misera e vagabonda. Elio Germano ha indossato i panni del pittore sottoponendosi a lunghe sedute di trucco prostetico con lo stesso team del Buscetta di Pierfrancesco Favino guidato da Lorenzo Tamburini. Garantita la trasformazione somatica, e liberato dalla preoccupazione di dover “fare il matto”, Germano trova un’interpretazione che aderisce empaticamente al personaggio, nella visceralità dei suoi scatti d’ira, nella fisicità del suo corpo a corpo creativo con le opere, nei lampi di malinconia in cui risuona la consapevolezza della sua solitudine.
Ligabue è un personaggio così estremo che a interpretarlo si corre sempre il rischio del gigionismo. Qui viene a supporto lo stile misurato di Giorgio Diritti, sempre attento al dialogo tra protagonista e ambiente, questa Emilia padana dai grandi paesaggi fotografata da Matteo Cocco con una luce sbiadita, polverosa, che ne ritrae la bellezza ma non ne nasconde la durezza. Liguabue è incorniciato in un mondo col quale trova una forma di relazione, ma restando comunque un corpo estraneo. Anche quando il suo nome comincia a circolare e arrivano il successo e i riconoscimenti di cui è orgogliosissimo – “sono un artista”, ripete spesso – resta comunque un disadattato che mangia da solo in trattoria, indossa il cappotto a luglio, non ha una donna e intrattiene col denaro un rapporto infantile, comprando decine di motociclette quasi nessuna funzionante.
Volevo Nascondermi ha il pregio e il limite di un film che non si pone l’obiettivo di dare risposte al mistero dell’uomo e al segreto dell’artista Ligabue. Semmai è un affresco d’epoca, visivamente affascinante, che racconta i ritmi di un mondo rurale lontanissimo. Sebbene il film copra un arco narrativo di sessant’anni, il tempo sembra non passare mai, forse anche perché osservato con gli occhi di Ligabue, che non è interessato allo scorrere degli anni, ma agli spazi, i corpi e i sentimenti che vengono stipati dentro le sue opere, nelle quali prendono forma le sue visioni singolari, gli affetti vissuti e soprattutto quelli immaginati. Per questo il film mostra le sue allucinazioni – per una donna che avrebbe voluto sposare, per la madre che gli appare giunto quasi in punto di morte –, che sono il corrispettivo dell’“altro sguardo” della sua arte.